Rivista Anarchica Online


dossier Piazza Fontana & dintorni

7. La pista veneta

Tutto cominciò a Padova.
Il 30 Aprile 1968 scoppiò un ordigno nella casa del questore, Ferruccio Allitto Bonanno. L'anno successivo, il 15 Aprile, esplose una bomba nell'ufficio del rettore dell'università, Enrico Opocher.
Il capo della squadra mobile di Padova, Pasquale Iuliano, nella primavera del 1969 iniziò a indagare sull'attività di un gruppo neonazista che operava in città. Alcuni confidenti, Nicolò Pezzato e Francesco Tommasoni, gli avevano detto che gli attentati erano opera di un gruppo che faceva capo a Franco Freda.
Iuliano allora iniziò a fare appostamenti sotto l'abitazione di Massimiliano Fachini, convinto che fosse il custode di armi ed esplosivi del gruppo. Una sera sorprese Giancarlo Patrese, anche lui del gruppo di Freda, con una bomba e una rivoltella. Fu arrestato. Il capo della squadra mobile pensava di aver iniziato lo smantellamento del gruppo eversivo. Ma in poco tempo fu costretto a cambiare idea. Infatti Patrese dichiarò che armi ed esplosivo gli erano stati consegnati proprio dal confidente di Iuliano, Pezzato, che era entrato con lui a casa di Fachini. Questa versione fu smentita dal portiere dello stabile, Alberto Muraro: Patrese era entrato e uscito da solo. Ma questa testimonianza non bastò: Iuliano fu accusato di aver orchestrato una provocazione.
Perché i fascisti fecero proprio il nome di Pezzato? Sapevano che era un confidente della polizia? Probabilmente sì, perché Freda aveva uno dei suoi uomini fra le fonti della questura: Francesco Tommasoni. Iuliano fu sospeso dall'attività e dallo stipendio. Due anni dopo fu reintegrato ma trasferito a Ruvo di Puglia. Invece Muraro venne trovato morto in fondo alla tromba delle scale il 13 settembre 1969.

Alcune testimonianze per gli anniversari della morte di Pinelli

Freda era riuscito a scampare il pericolo, ma presto scoprì che c'era qualcun altro che indagava su di lui: il maresciallo dei carabinieri Alvise Munari, incaricato dal giudice istruttore di Treviso, Giancarlo Stiz, di approfondire una pista che partiva dalle rivelazioni di un professore di francese, Guido Lorenzon.
Lorenzon era un caro amico di Giovanni Ventura. Si erano conosciuti al collegio «Pio X» nei primi anni Sessanta. Col passare del tempo avevano preso strade diverse: Lorenzon, moderato, approdò nelle file della Democrazia Cristiana; invece Ventura era scivolato a destra, prima nella federazione giovanile del Movimento sociale, poi oltre ancora, sino a far uscire una rivista che diceva molte cose già nel titolo: «Reazione».
Lunedì 15 dicembre 1969 Lorenzon chiamò al telefono il suo avvocato, Alberto Steccanella. La stessa sera i due si incontrarono e Lorenzon cominciò un racconto che prendeva avvio dal suo ultimo incontro con Ventura, avvenuto nel pomeriggio di sabato 13 dicembre.
L'avvocato intuì che il racconto poteva portare a rivelazioni importanti, così chiese al suo assistito di preparare un memoriale, che gli fu recapitato tre giorni dopo.
Il 26 dicembre Steccanella si recò dal procuratore di Treviso e riferì quanto appreso: nel Veneto c'era un'organizzazione eversiva, forse implicata nella strage milanese.
Il 31 dicembre Lorenzon si presentò al pubblico ministero di Treviso, Pietro Calogero, e gli riferì le confidenze di Ventura. Nel maggio del 1969 Ventura lo aveva informato di essersi recato a Milano dove aveva collocato una bomba, che non esplose, in un edificio pubblico (in tempi successivi Ventura aveva introdotto alcune varianti nel racconto: il mese diventava aprile e la città Torino). Aveva finanziato gli attentati ai treni in agosto. Sapeva il costo degli ordigni impiegati (centomila lire per ciascuno), parlava degli alibi accuratamente predisposti per gli attentatori, conosceva i luoghi di collocazione delle bombe.
Circa la strage del 12 dicembre, oltre ad aver compiuto viaggi sospetti tra Roma e Milano in quei giorni, Ventura aveva lamentato il fatto che nessuna parte politica si era mossa prendendo provvedimenti e che quindi «occorreva fare qualcos'altro». Si chiedeva come mai l'ordigno posizionato alla Banca Commerciale non fosse esploso e aveva esposto dettagliatamente i problemi riscontrati nel posizionare la bomba nel sottopassaggio della Banca Nazionale del Lavoro di Roma.
Gli aveva inoltre confidato di essere al corrente dei piani operativi per gli attentati, prima del loro verificarsi, in quanto essi rientravano in una strategia prestabilita mirata a traumatizzare sempre di più l'opinione pubblica.
Infine Lorenzon parlò di un libretto rosso, l'opuscolo La giustizia è come il timone, dove la si gira va: in esso si muovevano accuse contro due magistrati padovani e contro il commissario di Pubblica Sicurezza Pasquale Iuliano. In questa occasione uscì il nome dell'editore padovano Franco Freda.
Il 4 Gennaio 1970 Lorenzon, preso dai rimorsi, confidò all'amico Ventura di essere andato dai magistrati. Ventura e Freda cominciarono a fare forti pressioni sul professore di francese. Iniziò così un'altalena di dichiarazioni e ritrattazioni. Alla fine gli inquirenti munirono Lorenzon di un registratore da usare in segreto durante i colloqui con Ventura. Le bobine furono inviate al giudice istruttore di Roma, Ernesto Cudillo, che però non vi trovò niente di interessante. Opinione diversa avevano invece i magistrati di Treviso. Alla fine del 1970 le bobine tornarono a Stiz, che proseguì le indagini. Il 13 aprile 1971 Freda e Ventura furono arrestati per associazione sovversiva, per gli attentati del 25 aprile a Milano e per quelli ai treni dell'8/9 agosto. Era ufficialmente aperta la «pista nera».
Nel novembre del 1971, a Castelfranco Veneto, un muratore stava riparando il tetto di una casa, ma sbagliò e sfondò il divisorio dell'abitazione confinante: quella di Gianfranco Marchesin, consigliere comunale socialista. Venne alla luce un arsenale pieno di armi ed esplosivi.
Marchesin fu arrestato, confessò di essere stato lui a nascondere le armi e raccontò al pretore di Castelfranco come gli erano arrivate: dichiarò di averle avute in consegna dal suo amico Franco Comacchio, il quale a sua volta le aveva ricevute da Giovanni Ventura.
Quando l'arsenale arrivò a Comacchio contava anche bombe a mano e candelotti di esplosivo, ma lui e la moglie li nascosero in una zona sperduta del comune di Crespano. Lì, nella notte del 7 novembre, i due coniugi accompagnarono i carabinieri, che trovarono gli esplosivi nella fenditura di una roccia. Si trattava di trentacinque candelotti di esplosivo gelatinoso che, sottoposto a perizia, rivelò il suo avanzato stato di decomposizione e quindi la sua estrema pericolosità. Se ne dispose rapidamente la distruzione senza prelevare campioni da sottoporre ad analisi che avrebbero potuto svelare la composizione dell'esplosivo. Secondo il giornalista Gianni Flamini si sarebbe trattato di «gelignite e di semigel/D contenenti entrambi il binitrotoluolo, la sostanza del caratteristico odore di mandorle amare che era stato avvertito nelle esplosioni di Milano del 12 dicembre 1969».

Procedendo a ritroso, le armi, prima di arrivare nelle mani dei due coniugi, erano sotto la custodia di Ruggero Pan. Pan aveva 23 anni e prima di partire per il servizio di leva lavorava come commesso nella libreria di Ventura. Nell'autunno del 1968 aveva accettato di custodire le armi e gli esplosivi presi in consegna da Ventura.
Il giovane per qualche tempo lavorò anche come assistente nell'istituto per ciechi «Configliachi», dove conobbe Marco Pozzan, stretto collaboratore di Franco Freda. Quest'ultimo cominciò a fare confidenze scottanti a Pan, che le avrebbe poi riferite ai giudici. In esse si parlava delle bombe esplose tra il 1968 e il 1969 a Padova.
Freda cercò anche di coinvolgerlo nelle operazioni della cellula padovana: il ragazzo, che non avrebbe voluto immischiarsi, lasciò il lavoro all'istituto, ma approdò nella libreria di Ventura.
Pan non raccontò solo dell'arsenale, si spinse oltre: Ventura gli aveva chiesto, dopo gli attentati di agosto sui treni, di procurargli delle cassette metalliche di marca Juwel per collocarvi dell'esplosivo. Pan disse di essersi rifiutato ma di aver visto, giorni dopo a casa del libraio, una cassetta metallica Juwel, uguale a quella usata per l'attentato di Piazza Fontana.

Intanto i magistrati trevigiani scoprirono che Freda, Ventura e i loro camerati si riunivano spesso in una sala dell'istituto Configliachi, dove lavorava come bidello Pozzan. Lo interrogarono, e gli chiesero di una riunione notturna del 18 aprile 1969: stando ad alcune intercettazioni telefoniche, quella riunione era servita a mettere a punto il piano degli attentati. Pozzan ammise la sua presenza alla riunione e aggiunse che quella sera c'era anche il leader nazionale di Ordine nuovo, Pino Rauti.
Il 3 marzo 1972 Pino Rauti fu arrestato, su mandato di cattura del giudice Giancarlo Stiz. Pochi giorni più tardi, Stiz spedì gli atti per competenza territoriale alla procura di Milano.
Intanto il 23 febbraio 1972 si era aperto a Roma il processo contro gli anarchici del circolo «22 Marzo», ma la corte si dichiarò subito incompetente e inviò anch'essa gli atti a Milano.
L'inchiesta arrivò così nelle mani dei pubblici ministeri Fiasconaro e Alessandrini e del giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio, che imboccarono decisamente la pista nera.
Il 25 aprile Rauti fu scarcerato perché i suoi colleghi del «Tempo» gli avevano fornito un alibi per la sera della riunione padovana del 18 aprile 1969 e perché il magistrato sapeva che il leader di Ordine nuovo stava per essere eletto parlamentare nelle file del Msi, nel qual caso avrebbe dovuto scarcerarlo lo stesso per l'immunità parlamentare.
Nel marzo 1973 Giovanni Ventura, interrogato, cominciò a fare delle ammissioni: disse di essere coinvolto nella collocazione di due ordigni esplosivi nel maggio e nel luglio 1969 rispettivamente a Torino e a Milano. Arrivò persino a riconoscere un ordigno che il giudice gli aveva mostrato. Poi, dando inizio a un gioco di scaricabarile, coinvolse Freda nella trama eversiva. Dichiarò che, nella notte tra il 24 e il 25 luglio, lui e Freda si erano recati a Milano per incontrare un misterioso «corriere delle bombe» arrivato da Roma.
Lo stesso Ventura rese dichiarazioni al giudice istruttore di Milano che delineavano non solo il coinvolgimento della cellula veneta, capeggiata da Freda, negli attentati ai treni, ma anche l'intreccio operativo con una cellula romana. Freda comunicò a Ventura che il ferimento dei passeggeri, negli attentati ai treni dell'8/9 agosto, non era stato un errore, ma l'attuazione di un premeditato disegno della cellula eversiva romana, la quale intendeva progredire nella strategia terroristica con attentati di sempre maggiore gravità.
Un testimone importante fu l'elettricista Tullio Fabris, che ricordò di aver insegnato a Freda le cose più elementari riguardo il funzionamento di un innesco e di avergli consigliato di utilizzare il filo di nichel da attorcigliare attorno a un fiammifero antivento, piuttosto che un normale filo elettrico, perché più resistente. Le perizie rivelarono che fu proprio questo il meccanismo usato per gli attentati ai treni. Fabris raccontò di due visite intimidatorie ricevute nel suo negozio. Riconobbe, insieme alla moglie, in Massimiliano Fachini e Pino Rauti i due protagonisti di quegli episodi.
Il 18 Settembre del 1969 l'impiegata Onidia Tinti, della ditta Elettrocontrolli di Bologna, ricevette la telefonata di un cliente che protestava perché i cinquanta timer da 60 minuti che aveva richiesto con urgenza non erano stati ancora consegnati. La telefonata fu registrata dagli uomini della questura di Padova. Il telefono intercettato era quello di Franco Freda. Freda, messo alle strette dai giudici, ammise l'acquisto, ma disse di averlo fatto per conto di un certo capitano Hamid dei servizi segreti algerini, il quale li doveva dare ai combattenti palestinesi. La pista algerina non resse e fu subito considerata falsa dai giudici. Le perizie confermarono che i timer usati negli attentati del 12 dicembre erano dello stesso tipo di quelli acquistati da Freda.
In tutti gli attentati del 12 dicembre l'esplosivo, il congegno di innesco e il temporizzatore erano contenuti in scatolette metalliche di marca Juwel. Fabris ricordò che Freda nel settembre 1969 cercava una cassetta metallica e ammise di essere stato proprio lui a consigliargli di utilizzare una cassetta portavalori, che si poteva trovare nei supermercati.
Gli ordigni erano contenuti in cinque borse prodotte dalla ditta tedesca Mosbach-Gruber di Offenbach, alcune di colore nero e almeno una di colore marrone. Benché fosse certo il modello, in base ai reperti, non fu possibile stabilire il colore della borsa utilizzata nella strage della Banca Nazionale dell'Agricoltura, perché il rivestimento era andato totalmente combusto nell'esplosione.
Solo tre negozi in Italia vendevano entrambi i modelli: «Biagini» di Milano, «Protto» di Cuneo e «Al Duomo» di Padova. La commessa che lavorava nell'ultimo dei tre negozi, lunedì 15 dicembre 1969, tre giorni dopo la strage, si era recata dalla polizia e aveva riferito di aver venduto, la sera del 10 dicembre, quattro borse simili a quella usata dai terroristi nella Banca Commerciale di Milano, dove era stato ritrovato l'ordigno inesploso, e la cui foto era stata pubblicata su molti giornali. I funzionari di Pubblica Sicurezza di Padova non diedero molta importanza alla segnalazione, ma in ogni caso stilarono un rapporto, rimasto per tre anni nei cassetti dell'Ufficio Affari Riservati. Anche la segretaria di Freda ammise di aver visto nello studio di Freda quattro borse nuove dello stesso tipo.
Tra le varie affermazioni fatte, Ventura raccontò di aver iniziato la collaborazione con un giornalista romano, di cui non poteva fare il nome, che gli forniva rapporti riservati in cambio di informazioni sugli ambienti politici di estrema destra. Il materiale segreto fu effettivamente ritrovato dalla polizia, alla fine del 1971, in una cassetta di sicurezza della banca di Montebelluna, intestata alla zia e alla mamma di Ventura.
Grazie a questi documenti, che raccontavano di piani destabilizzanti e soprattutto preannunciavano gli attentati del 1969, il giudice D'Ambrosio cercò di mettere a fuoco il ruolo dei servizi segreti nella vicenda. I vertici del SID furono interpellati da D'Ambrosio che chiese loro una valutazione sul materiale informativo trovato nella cassetta di sicurezza dei parenti di Ventura. Il 20 marzo 1973 il SID rispose affermando di non aver mai visto quella documentazione transitare nei suoi uffici.
Dopo molte indagini, ammissioni e ritrattazioni, i giudici di Milano identificarono in Guido Giannettini il misterioso giornalista, che probabilmente partecipò anche alla riunione eversiva del 18 aprile 1969 e che lavorava per i servizi segreti. La sua abitazione viene perquisita, gli agenti trovarono materiale che confermava il suo collegamento con i carteggi di Montebelluna (testi dattiloscritti con la stessa macchina da scrivere e timbri uguali a quelli apposti sui documenti). D'Ambrosio chiese al SID di chiarire il ruolo di Giannettini, ma il direttore Vito Miceli gli rispose che tali informazioni erano da considerarsi segreto militare. Solo nel giugno 1974 Giulio Andreotti, durante un'intervista, confermò il ruolo di Giannettini: informatore regolarmente arruolato dal SID. Giannettini lavorava per il servizio segreto dal 1966 ed era in possesso di informazioni sul piano stragista che colpì l'Italia nel 1969. Quindi era possibile che il SID fosse a conoscenza dei piani eversivi ma nulla abbia fatto per evitare gli attentati.
Nonostante le reticenze dei servizi segreti l'inchiesta di Milano fece comunque passi avanti. Al giudice fu consegnato un appunto stilato dai carabinieri più di tre anni prima. Notizia di fonte riservata parlava di collegamenti tra gli attentati italiani e quelli francesi del 1968. La mente e l'organizzazione di questi era indicata in un certo Yves Guerin-Serac, che risiedeva a Lisbona, dove dirigeva l'agenzia Aginter Press. Giannettini risultava fra i giornalisti amici dell'Aginter Press insieme a Pino Rauti, che era stato invitato a partecipare alla manifestazione ateniese del 1968 proprio da Guerin-Serac.
Nel frattempo il procuratore generale di Milano, Enrico De Peppo, chiese il trasferimento del processo agli anarchici nella lontana Catanzaro per motivi di ordine pubblico.
La procura calabrese riunì finalmente i due tronconi di indagine, quello romano sugli anarchici e quello milanese sui neofascisti, imboccando a sua volta la pista della «strage di Stato» con l'incriminazione di Giannettini e del generale del SID Gian Adelio Maletti.
«Esfiltrare»: termine tecnico utilizzato dai servizi per allontanare dal paese persone che potrebbero rivelare questioni spinose.
Questa operazione avvenne attraverso una fittizia casa di produzione, la «Turris cinematografica», che era in realtà una base dell'Ufficio D del SID. A gestire le operazioni furono il capo dell'ufficio, Gianadelio Maletti, e il capitano Antonio Labruna.
Gennaio 1973. Marco Pozzan, il fedelissimo di Freda, era scampato al mandato di cattura emesso dai giudici di Treviso. Massimiliano Fachini contattò gli uomini dell'ufficio D. Accompagnò Pozzan a Roma, presso la Turris, dove li attendevano Labruna e Giannettini. Labruna fece preparare un passaporto falso per Pozzan, che venne poi portato a Fiumicino, dove si imbarcò su un aereo per Madrid.
Marzo 1973. Ventura era detenuto nel carcere di Monza. Sottoposto a continui interrogatori aveva fatto le prime ammissioni. Giannettini fu incaricato da Maletti di farlo evadere. Giannettini contattò la sorella del detenuto e dopo averla convinta sull'affidabilità del piano di fuga le consegnò due bombolette spray per addormentare i secondini, e una chiave che apriva le porte del carcere. Ma Ventura non si fidò, probabilmente temeva di essere eliminato. Fuggì poi dal soggiorno obbligato a Catanzaro il 16 Gennaio 1979.
Aprile 1973. Arrivò il turno di Giannettini. Era nel mirino del giudice D'Ambrosio perché poteva essere l' anello di congiunzione tra i servizi segreti e il gruppo di Freda. Prima sbarcò a Parigi, poi volò a Madrid e da lì a Buenos Aires. Ma le rivelazioni di Andreotti riguardo al suo ruolo complicarono le cose. Riportato in Italia, davanti ai giudici Giannettini non parlò.
I servizi hanno cercato sempre di minimizzare l'opera di Giannettini, colui che li informava dell'attività terroristica a cui partecipava con Freda e Ventura.
Nel 1979 la Corte D'Assise di Catanzaro condannò all'ergastolo per strage Freda, Ventura e Giannettini; Maletti e Labruna rispettivamente a 4 e 2 anni per favoreggiamento. Mentre furono assolti definitivamente Valpreda e Merlino.

Il cantastorie Franco Trincale (a destra)
e la canzone inedita su Piazza Fontana

... Autunno del 69
Gli studenti con i lavoratori
E si allarga la lotta di classe
Occupando fabbriche e case.

Era il 12 dicembre
Un boato improvviso si sente
Treman le case, fugge la gente
16 morti rimangono la.

E la stampa e la televisione
Danno tutti la stessa versione
La versione che gli ha passato
L'omicida, padrone lo stato.

Per lo stato e' gia' chiara la trama
E gli anarchici subito infama
Sono loro lo dice la storia
Con le bombe che cercan la gloria.

Testo di Franco Trincale con la collaborazione
del Nucleo Libertario di Crescenzago