Rivista Anarchica Online


scuola



Il funerale coi fichi secchi
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Ho l'impressione che l'università italiana stia vivendo un momento psicotico, e io con lei. Ingabellata in debiti che non riuscirà mai ad assolvere con innumerevoli precari, condannata a uscire da una lunga, felice autoreferenzialità, fa i conti ormai da tempo con i passi di una Riforma che non cestina il vecchio ma, come l'imperatore del detto, veste abiti nuovi per nascondere le pezze. Fa i conti in senso letterale, perché soldi non ce n'è, e nell'ultima spending review, il governo vota di nuovo per l'istruzione privata. E il cambiamento vero è che il futuro della cultura non la faranno gli intellettuali ma i consigli di amministrazione. Ma noi siamo intellettuali, e non badiamo al denaro.
Occupiamoci della sostanza, allora. La sostanza spessa della produzione scientifica. C'è una divaricazione indiscutibile, in questo ambito, tra le cosiddette scienze e le ben più approssimate – dicono – “humanities”. Queste ultime – e uso il termine britannico non per snobismo, ma perché in italiano si direbbe “scienze umane”, che è fuorviante – sono merce avariata, parrebbe, a giudicare da quel che circola nei corridoi del ministero. La sostanza delle scienze, parrebbe, è misurabile, mentre quella delle “humanities” no. Noi umanisti produciamo cognizioni altamente opinabili, la cui misurazione sta mettendo in gravissima difficoltà la neonata (cioè avrebbe due anni, ma continua a esser neonata) Agenzia Nazionale per la Valutazione della Sistema Universitario della Ricerca. Quest'ultima sta studiando complessi metodi per misurare quello che noi parassiti intellettuali produciamo. Così saremo assolti per aver mangiato a lungo il pane degli altri a tradimento. Perciò sono venuti alla ribalta metodi bibliometrici, Impact Factor e misurazioni complesse e articolate del valore di quel che ciascuno di noi ha prodotto.
La verità vera è che, nella mia monumentale limitatezza, non capisco come possa questo sistema censire i meriti culturali. Un mio collega letterato e poeta sta perdendo la ragione per cercare di caricare su AIR (altro acronimo) quel che ha scritto e fatto negli ultimi 8 anni, infilando questa mansione manuale tra un esame e l'altro (perché è pure, per colmo di sconforto, uno che lavora tanto e crede insipientemente di dover offrire il meglio di sé agli studenti. Sempre questo mio collega ha prodotto qualcosa come una cinquantina di pubblicazioni. Se ne avesse prodotte 3, il gioco sarebbe fatto molto in fretta, ma avendo scritto molto, deve essere punito. Oggi ho temuto per la sua salute mentale: quando ho nominato l'acronimo ANVUR, l'ho visto sbiancare, cominciare a tremare, abbassare la voce e dirmi: “Chi se ne frega. Metti che mi licenziano: devasto il PC e mi metto a scrivere a mano. Credi che questo possa essere l'Impact Factor della riforma?”.
Il luddismo, occorre riconoscerlo, potrebbe essere una conseguenza inevitabile di questo nostro scapicollarci verso l'efficienza. E non ci sarebbe niente di male se di efficienza effettivamente si trattasse. La mia sensazione è che invece sia una patina sottile, un sistema di rituali che si risolverà nel solito impiccio: perché la macchina non valuta. Fornisce i dati, al più, ammesso che tutti noi siamo in grado di caricarli correttamente e che i pregevoli tecnici siano in grado di controllarli. Un tecnico, domenica, era davanti al PC come me, presumo ugualmente sudato, a chiedersi perché mai stava lavorando in un giorno festivo a validare i dati che io inserivo: desidero ringraziarlo in diretta. Anche lui sa bene che, alla fine, chi valuterà sono le persone, e se quelle ai vertici non cambiano, c'è poco da emendare. I metodi bibliometrici, per quanto precisi, dipendono da fattori umani molto opinabili, soprattutto in un contesto in cui buona parte della vecchia guardia ritiene di essere pregevole non per quello che fa o per quello che scrive, ma per il mero fatto di esistere.
Avete mai riflettuto sul tasso di mortalità del docente accademico in pensione? Altissimo. In parte questa altezza dipende dal fatto che fino a poco tempo fa si andava in pensione e a più o meno ottant'anni (poi ci si lamenta del fatto che l'età media degli accademici è superiore a qualunque altro luogo nel mondo), ma in parte anche dal fatto che usciti di lì, dopo essere entrati nella scuola a 6 anni e rimasti in quel recinto protetto per tutta la vita, proprio non si sa cosa fare di se stessi. Lì dentro ha conosciuto tutto quello che sa della vita, ha attraversato indenne la pubertà, si è sposato (a volte), ha messo al mondo figli (se era il caso), ha inanellato tradimenti (ogni volta che era possibile), e alla fine, uscendone, non sa cosa fare di se stesso. Cosa gli resta? Un funerale coi fichi secchi.

Nicoletta Vallorani