Rivista Anarchica Online


cultura


La ferriera
occupata

Che la classe operaia sia scomparsa sia da un punto di vista sociologico che politico, lo si può capire anche dalla scarsità di ricerche e pubblicazioni che le sono state dedicate in questi ultimi 20-25 anni.
Alla copiosa produzione degli anni '60 e '70, si è passati alla rimozione del problema anche da un punto di vista storiografico. Lo sconquasso istituzionale, la sconfitta dei movimenti, l'egemonia culturale del capitale sui processi di ristrutturazione del sistema in tutte le sue articolazioni, hanno accompagnato la disintegrazione sociale del soggetto operaio come collettività politica capace di autorappresentazione. In questo quadro, il libro curato da Mauro Abati e Umberto Ghirardi La nave e la burrasca. Condizione operaia a Nave dal miracolo economico alla crisi della siderurgia (Comunità Montana dei Valle Trompia/Comune di Nave/Brescia, Monografic, 2012, pp. 94, € 10,00) rappresenta una felice eccezione, in quanto ci ripropone questa parabola partendo da un osservatorio particolare: l'occupazione, da parte delle maestranze, di una ferriera dell'hinterland bresciano, la “Fenotti e Comini”, nei primi anni '80.
Il volume è diviso in due parti: nella prima Abati ricostruisce questa vicenda all'interno di una cornice spazio temporale più ampia, mentre nella seconda, l'obiettivo fotografico di Ghirardi si concentra sull'episodio “dall'interno del movimento”. Come la ricostruzione del primo autore si avvale delle memorie di alcuni militanti sindacali “di base”, per narrare in sintesi l'ascesa e il declino di una realtà industriale geograficamente periferica ma per niente tale se la si guarda dal punto di vista delle logiche di sviluppo, culture imprenditoriali, qualità e livello del conflitto sociale, così le immagini di Ghirardi ci restituiscono in un bellissimo bianco e nero, ritratti onesti, persuasivi, in grado di riconsegnarci una storia di uomini e donne fuori da clichè estetici in voga in quegli stessi anni, in cui i soggetti ripresi diventavano spesso comparse di una esibizione sollecitata dall'esterno.
Lo scatto racconta ciò che la parola scritta riesce solo ad evocare giovandosi della documentazione cartacea e testimoniale. Una storia collettiva fatta dei corpi dei suoi protagonisti in cui la “classe”, come monolite sociale e ideologico, sembra decantarsi riconsegnandoci una realtà umanamente riconoscibile nei suoi singoli ed irriducibili elementi vitali, fatta di individualità silenziose, attente, interroganti. E quando invece la parola è agita, non è più gridata, nemmeno nei cortei, non è “arma impropria” di un'indignazione generosa, ma piuttosto forma di pensieri da condividere, strumento di relazioni dialogiche, di vicinanze calde. Quei volti rubati dall'obiettivo dentro il piazzale della fabbrica occupata piuttosto che durante le manifestazioni, ci restituiscono più che altro le preoccupazioni, le attese, le domande, ma anche i sorrisi divertiti o appena accennati dei singoli, che portano l'osservatore a immaginare i loro pensieri e sentimenti.
Se un senso c'è, è quello dello “stare insieme”, del condividere, prima che la storia di quella comunità operaia sconfitta, si perda nei rivoli dei destini individuali. Partiti in 280, alla fine rimarranno poche decine: i lavoratori più sindacalizzati, quelli immigrati dal Sud, gli anziani e gli invalidi. Gli altri troveranno nuove occasioni ricollocandosi nelle altre aziende della zona. Nave - questo il nome del paese al centro della ricerca - tra gli anni '50 e '70 si farà “nuova frontiera” del “miracolo economico” della provincia bresciana: da paese agricolo, nell'arco di vent'anni, diventerà la capitale delle mini acciaierie più famose nel mondo, ma anche di uno sfruttamento intensivo della forza lavoro, di un uso scriteriato del territorio, di amministrazioni locali prone alle volontà di questi particolari “padroni delle ferriere”, di leggi trasgredite e contratti non rispettati, di una catena senza fine di infortuni sul lavoro, anche mortali. E tutto ciò accompagnato da un ostentato livore antisindacale che troverà sponde politiche in un neofascismo non estraneo alla strage del 28 maggio del 1974. La solidarietà che si costruirà attorno a questa lotta, vedrà momenti alti ma anche sempre più marcate prese di distanza. Da esperienza positiva di resistenza, sarà negli anni additata a esempio negativo, usato dai padroni come ricatto e visto da alcuni settori operai come anticipazione del loro possibile destino. E così sarà.
La crisi del comparto, le regole sulle “quote” produttive imposte da Bruxelles faranno il resto. La “grande guerra” dell'acciaio avrà anche in questa landa siderurgica le sue vittime, radendo al suolo aziende ed impianti, provocando come “danni collaterali” lo smantellamento di centinaia di posti di lavoro. Quello che fu il “regno del tondino” oggi è un sito di archeologa industriale: lì ci sono ancora i capannoni di quella ferriera di cui questo libro parla. Per sempre muta.

Roberto Cucchini




L'esperienza e il pensiero
di Joyce Lussu

Nelle estati tra il 1984 e il 1998 ha luogo a Fano il Meeting Anticlericale. Appuntamento libertario e anticlericale organizzato dagli anarchici e dalle anarchiche del Circolo Culturale Napoleone Papini, il Meeting nasce come momento di critica radicale al potere politico della Chiesa cattolica e all'ingerenza di quest'ultima nella vita degli individui. Festa, spettacolo, dibattiti politici e culturali tingono di grande vivacità l'appuntamento, il quale, almeno dal 1991 al 1995, vede la partecipazione di un'energica Joyce Lussu. Spinta da una critica politica e morale al ruolo della Chiesa cattolica e da una grande fiducia nelle possibilità di cambiamento delle nuove generazioni, Lussu apporta con grande energia la propria esperienza di vita e il proprio pensiero in riguardo a una vasta gamma di argomenti, che spaziano dall'antimilitarismo e anticlericalismo fino al femminismo, all'etica, alla filosofia e a una lucida interpretazione della storia e dell'attualità sociale.
La Chiesa e l'esercito sono descritti come delle monarchie assolute, istituzioni “basate sul principio dell'assoluta autorità e dell'assoluta obbedienza” che permettono nei secoli l'affermarsi delle oligarchie sulle maggioranze di subordinati; come “complici e addirittura promotrici di tutti i maggiori delitti contro l'umanità”, a cominciare dalla conquista dell'America nel quindicesimo secolo e dal genocidio delle sue popolazioni indigene, passando per la schiavizzazione dell'Africa, fino al nazismo e alle guerre più recenti. Altro tema che si riscontra frequentemente tra gli interventi di Joyce è quello legato alla questione della donna, collocato all'interno del più ampio discorso del progetto Osservatorio delle donne libertarie sugli integralismi, avviato all'interno del Meeting. “C'è stato un movimento femminista fino in fondo? Avete mai incontrato una contadina, un'operaia, una colonizzata che si definisse femminista?”. Questi alcuni dei quesiti posti dalle riflessioni di Lussu, cui la ex-partigiana e scrittrice cerca di rispondere con un'argomentazione che ricorda l'importanza delle donne appartenenti a movimenti che vengono dal basso e di figure come Louise Michel, “che le femministe hanno sempre snobbato”. Senza la pretesa di affermare delle verità, ma anzi con la volontà di avviare dibattiti con i numerosi giovani che partecipavano alle sue relazioni, Lussu tocca numerosi tasti dolenti della società occidentale, cercando di fare critiche che portino alla nascita di soluzioni concrete, mirate a creare una società più equa, libera da dogmi di ogni genere e caratterizzata invece da un concetto di cultura intesa come libertà di scegliere, di utilizzare la propria intelligenza per partecipare attivamente alla costruzione sociale.
Al fine di evitarne la decadenza causata dal trascorrere del tempo, i numerosi interventi di Joyce Lussu al Meeting Anticlericale, registrati su audiocassette e videocassette, sono stati recentemente digitalizzati dall'Archivio-Biblioteca “Enrico Travaglini” (Un'eretica del nostro tempo. Interventi di Joyce Lussu al Meeting Anticlericale di Fano (1991-1995), a cura di Luigi Balsamini, introduzione di Mimmo Franzinelli, Gwynplaine Edizioni, Camerano, 2012).
All'interno di questo volume, il curatore Luigi Balsamini li raccoglie e li trascrive, puntualizzando nella prefazione la difficoltà incontrata nel rendere per iscritto degli interventi orali, difficoltà cui ovvia ripulendo a volte i periodi, per permettere al lettore una facile lettura e comprensione. Ogni documento è introdotto da una breve premessa che lo colloca in un contesto ben definito ed è accompagnato da note che chiariscono i diversi riferimenti. Oltre all'introduzione di Mimmo Franzinelli, che ritrae la scrittrice come una figura estremamente sicura, capace di catalizzare l'interesse degli interlocutori e di fungere da elemento di stimolo e coordinazione all'interno dei dibattiti, il testo è arricchito da due “ricordi di Joyce Lussu”: il primo, Anticlericale e non solo di Donato Romito e l'altro, Nella calura d'agosto di Antonia Sani.
Nei nove capitoli di cui è composto il volume emerge tutta l'energia di una donna che, nonostante l'età avanzata e i gravi problemi alla vista, ha avuto la capacità di trasmettere ai giovani che hanno partecipato ai Meeting (ma anche a chi, come me, non li ha vissuti) un'idea di giustizia e libertà da cui far partire un radicale cambiamento sociale.

Pamela Galassi



Per una storia
del pensiero vegetariano

“In nome di ciò che è sacro nelle nostre speranze per il genere umano, io scongiuro quelli che amano la felicità e la verità di fare un ragionevole esperimento del sistema vegetariano”. Queste parole di P.B. Shelley sono poste come esergo al volume Che cos'è il vegetarismo? di Edmondo Marcucci (1900-1963). La recente ripubblicazione da parte delle Edizioni dell'asino (www.gliasini.it) di questo libriccino ha un merito: quello di aver indirettamente posto la questione, in una maniera affatto originale, di una ricognizione riguardante la storia del pensiero antispecista (e vegetariano in particolare) in Italia, tutta ancora da indagare e da raccontare. Il testo in questione è apparso infatti la prima volta nel 1953 per conto della Società vegetariana italiana, organizzazione che Marcucci fondò in quegli anni insieme ad Aldo Capitini.
Questa nuova edizione la troviamo arricchita da una partecipata prefazione di Goffredo Fofi e da un'altrettanto lucida postfazione di Annamaria Manzoni, nonché da un'appendice costituita da alcune pagine animaliste di Aldo Capitini e da altri materiali (la Dichiarazione universale dei diritti dell'animale e il Manifesto per un'etica antispecista) che forniscono il lettore di ulteriori elementi di riflessione sul tema.
Che cos'è il vegetarismo? sviluppa, con grande anticipo rispetto ai tempi in cui vide la luce (decine di anni prima delle pubblicazioni di Peter Singer e di Tom Regan), un ampio discorso riguardante la necessità di rivedere in modo radicale il rapporto tra la specie umana e le altre, riflettendo, tra l'altro, sull'illegittimità delle sofferenze inferte dall'uomo agli altri animali. Come l'amico Capitini, il quale divenne vegetariano negli anni Trenta in segno di aperto dissenso verso la visione violenta e totalitaria del fascismo e della cultura ad esso ispirata, pure Marcucci, che nel medesimo periodo fu indotto al vegetarianesimo dalla frequentazione di Tatiana Sukhòtin Tolstoj, figlia dello scrittore russo, motivò la propria decisione come una forma di opposizione antiassolutistica.
Che cos'è il vegetarismo? si presenta come un percorso articolato attraverso la letteratura, la religione, la medicina e le scienze naturali, toccando trasversalmente i temi della nonviolenza a lui cari. L'opzione vegetariana viene illustrata da Marcucci non sotto il profilo – alla fine riduttivo – del benessere salutistico, ma direttamente dal punto di un'etica antispecista, una radicale presa di distanza dal totalitarismo antropocentrico e dai suoi fondamenti filosofici e religiosi (cfr. tutto il paragrafo “Religioni e vegetarismo”). Non a caso Marcucci riflette, scavando tutti gli esiti possibili, sulla nota frase di L.Feuerbach – “L'uomo è ciò che mangia” – con cui il filosofo tedesco, ponendosi in una prospettiva radicalmente anti-hegeliana, giungeva a sostenere che noi coincidiamo precisamente con ciò che mettiamo dentro la pancia.
Rileggendole oggi, le pagine di Marcucci rimangono a distanza di anni un riferimento importante per tutti coloro che riconoscono nella sensibilità animale tracce di somiglianze con quella umana. Come afferma, in fondo lapalissianamente (ma a quanto pare c'è ancora gran bisogno di simili affermazioni…), Fofi nella prefazione: “non solo l'umanità soffre (e certi individui molto più di altri) ma anche gli animali” e, per queste ragioni, con Marcucci, ci rivolgiamo verso la “costruzione di una nuova morale”, poiché crediamo “nel vegetarismo come una delle indispensabili tappe nella lotta per la difesa della natura e per la dignità dell'uomo”. Come aveva precedentemente sostenuto Capitini, “il vegetarianesimo è in stretto rapporto con i problemi morali e religiosi, ed anzitutto con il problema dei fini e dei mezzi”.
Ma chi era Edmondo Marcucci? Umbro di nascita, ma marchigiano di adozione (trascorse a Jesi gran parte della sua vita), studiò all'Università di Roma, dove conobbe Ernesto Buonaiuti (ex prete, scomunicato da Pio X, fu uno dei tredici docenti universitari che rifiutarono di giurare fedeltà al regime fascista), di cui fu amico e seguace. Divenuto insegnante di materie letterarie nelle scuole medie, si dedicò allo studio delle religioni e della nonviolenza.
Risale agli anni Quaranta l'incontro con Aldo Capitini, da cui nacque un sodalizio che segnò in maniera significativa gli ultimi venti anni della sua vita. A questo proposito, sarà interessante poter leggere la corrispondenza fra i due, che l'editore Carocci dovrebbe pubblicare entro l'anno in corso, a cura di Amoreno Martellini (centocinquanta lettere dal 1941 al 1963). Marcucci collaborò fattivamente a numerose iniziative religiose e sociali promosse da Capitini: non solo all'interno della Società Vegetariana, ma anche iniziative pacifiste, come le battaglie per l'obiezione di coscienza. Furono queste attività che gli procurarono nuove amicizie, italiane e straniere, con anarchici, protestanti, quaccheri, ex-sacerdoti, nel corso di raduni e convegni nazionali e internazionali. Ricordava lo stesso Capitini: “Poteva accadere nei molti nostri convegni a Roma, a Firenze, a Perugia ed altrove di arrivare prima dell'inizio e trovare già nella sala un amico di media statura e di aspetto vigoroso che passeggiava su e giù, toccandosi i piccoli baffi che ricordavano un po' l'Ottocento e i primi decenni del secolo” (cfr. Aldo Capitini, Ricordo di Edmondo Marcucci, in AAVV, Ricordo di Edmondo Marcucci. Commemorazione tenuta nella Sala maggiore del Palazzo della Signoria, Jesi, Amministrazione civica, 1963).
Oltre a Capitini, Marcucci entrò in contatto anche con Ferdinando Tartaglia (co-fondatore nel '47 con Capitini del Movimento di Religione). Viene descritto da Marcucci come una persona dall'aspetto magro e pallido, d'abito modesto, ma che era in grado di suscitare immediato entusiasmo in chi lo ascoltava. Anch'egli, come Buonaiuti, ex prete scomunicato, avvicinatosi per un breve periodo al movimento anarchico, era considerato dal mondo cattolico un pericoloso eretico, anche per la sua elevata preparazione in ambito filosofico e teologico. Così infatti dirà Marcucci di Tartaglia: “Questo scrittore, parlatore, organizzatore che non si risparmia è, naturalmente, l'oggetto dell' ‘odio teologico': in altri tempi avrebbe fatto ‘la fine della castagna' degli eretici!”.
Si tratta di un mondo pochissimo conosciuto, quello costituito dagli autori qui citati, meritevole pertanto di essere riportato alla luce e degnamente apprezzato; per questo la riproposizione del libro di Marcucci rappresenta un tassello importante all'interno di questo percorso in via di costruzione.

Federico Battistutta



Spagna '36/
Miliziano e operaio agricolo

Il 30 dicembre del 1907 nasceva nella contea di Södermanland (Svezia) il futuro militante, agitatore, giornalista anarchico Nils Lätt, pure denominato Nisse Lätt, noto in Spagna come Nils el rubio o “il rosso”. A 15 anni si arruolò nella marina mercantile, si affiliò all'organizzazione anarcosindacalista Sveriges Arbetares Centralorganisation (SAC) e iniziò ad imparare l'esperanto.
Durante gli anni Trenta prese diretto contatto con la CNT a Bilbao, prima e dopo l'ottobre rosso del 1934. Nel 1936 lasciò il suo paese e ottenne a Parigi un salvacondotto dal Comité Anarcho-syndicaliste pour la Défense et la Libération du Prolétariat Espagnol; all'inizio del 1937, attraversò i Pirenei con alcuni compagni e il 5 gennaio si mise al servizio del movimento libertario catalano a Barcellona: dapprima, per poco tempo, nella formazione guidata da Antonio Ortiz, successivamente nel Gruppo internazionale della colonna Durruti, che raggiunse a Pina de Ebro (Saragozza), sul fronte di guerra. A metà aprile del 1937 fu gravemente ferito dallo scoppio di una granata nella terribile battaglia di Santa Quiteria (Huesca), perdendo l'occhio sinistro. Dopo le cure ospedaliere a Tarragona, non potendo tornare a combattere, si integrò nella collettività agricola di Fabara (Saragozza).
Tornato in Svezia nel 1938, raccolse immediatamente i suoi ricordi in un opuscolo: Som milisman och kollektivbonde i Spanien (Miliziano e operaio agricolo in una collettività in Spagna), che qui è presentato in versione italiana (Nils Lätt. Miliziano e operaio agricolo in una collettività in Spagna, a cura di Renato Simoni, Lugano, Edizioni la Baronata, 2012, 77 pagg). N. Lätt continuò la sua militanza nella SAC di Göteborg, distinguendosi per l'impegno nella diffusione del pensiero libertario.
L'esperienza del nostro miliziano nella Spagna del 1937 si articolò in tre momenti, altrettanto significativi: la partecipazione alla guerra nella Colonna Durruti, la più nota formazione libertaria sul fronte d'Aragona, il ricovero in ospedale a Tarragona che gli permise di vivere da vicino i tragici eventi del maggio 1937 in Catalogna e, ciò che risulta abbastanza eccezionale nell'esperienza dei combattenti nella guerra di Spagna, il soggiorno prolungato in una collettività rurale libertaria.
Il marinaio anarchico Lätt, con questa attenta testimonianza scritta ancora a caldo, ci offre una lettura appassionata e appassionante degli eventi, di una straordinaria lucidità e ricchezza di dati, che trovano ampio riscontro nella storiografia più aggiornata. Alle nitide descrizioni degli episodi vissuti, si alternano più ampie considerazioni storiche e filosofiche che ci fanno rivivere la tragedia della guerra, ma anche le speranze suscitate dalla rivoluzione.
La traduzione in lingua francese ad opera di Anita Ljungqvist ci ha permesso di accedere al testo, stimolandoci ad elaborarne una versione per il pubblico di lingua italiana.
La ricerca sul periodo passato da Nils nella località aragonese di Fabara è stata facilitata dall'aiuto della maestra Lola Bielsa Masdeu; senza il suo apporto difficilmente avremmo potuto abbozzare in tempi brevi un quadro storico della borgata durante la guerra civile. Grazie alla sua generosa collaborazione ci è stato possibile intervistare alcuni testimoni dell'epoca e disporre del suo archivio privato, ricco di fotografie e di documenti, tra cui il prezioso regolamento della collettività “Renacer”.
Il volume comprende pure, in appendice, un documentato articolo scritto per l'occasione da Marianne Enckell, responsabile del Centre International de Recherches sur l'Anarchisme (CIRA), dal titolo Sui volontari svedesi nella guerra di Spagna.
La pubblicazione di questo lavoro va ad affiancare i ricordi di due altri miliziani libertari, Albert Minnig e Antoine Gimenez, già stampati presso La Baronata1.

Renato Simoni

1 Albert Minnig, Diario di un volontario svizzero nella guerra di Spagna, Lugano 1986.
Antoine Gimenez, Amori e rivoluzione. Ricordi di un miliziano in Spagna (1936-1939), Lugano 2007.




Personali e viscerali
convinzioni anarchiche

Il Maggio di Fabrizio De André. Un impiegato, una storia, il poeta di Claudio Sassi e Odoardo Semellini, con prefazione di Mario Capanna, con contributi di Brunetto Salvarani, Raffaele Fiore, Alberto Bazzurro, Romano Giuffrida, Giovanna Panigadi, Lucia Coccia (Edizioni Aereostella, Milano 2012) è un libro dettagliato e molto ben documentato, per far rivivere, a molte voci, la stagione della canzone d'autore, in cui i pensieri, le parole, la musica e la poesia si misurano con scelte coinvolgenti che segnano la Storia.
“Storia di un impiegato” di Fabrizio de André, nella profondità e intensità del racconto, è un atto di coraggio e di onestà intellettuale, che rispecchia un periodo storico fecondo e rivoluzionario: il disco è concepito durante il pieno fermento sociale del Sessantotto. Quando comincia a scrivere questo album, Fabrizio De André vive un momento magico della personale carriera: Mina registra “La Canzone di Marinella” in 45 giri, sottraendo Faber ad un tranquillo anonimato e ad un destino inquadrato nei dettami stantii di un'esistenza borghese e decadente. La pubblicazione del disco, in un periodo storico come quello dell'Italia di metà anni '70, scatena una scia polemica, sia tra i giornalisti musicali, sia nell' area militante della sinistra. “Storia di un impiegato” è considerato l'album più controverso e tormentato di De André. È stato definito il disco più “ideologico” dell'artista genovese, che in seguito non si esprimerà più in modo così politicamente manifesto.
Lasciata definitivamente alle spalle la stagione degli esordi artistici, fondata su due capisaldi spaziali e autorali, la Genova periferica e marginale e il suo maestro, ovviamente, il francese Georges Brassens, Faber mostra un'attenzione nuova al contesto sociopolitico dell'epoca e sembra alla ricerca dell'acquisizione di una consapevolezza maggiore della parola in sé e per sé, che deve rispecchiare un'enfasi rivoluzionaria, un pathos politico e sociale emergente, dove i più deboli, gli ultimi, si emancipino dalla sottomissione autoritaria, dalla demagogia del potere.
“Storia di un impiegato” è un disco importante, non solo in relazione al periodo storico e sociale in cui uscì, ma soprattutto nell'ambito dell'itinerario artistico di De André, come riflessione sul presente, che dal G8 di Genova, ai recenti movimenti ispirati a Occupy Wall Street, insegna quanto sia velleitario “buttare bombe” sui parlamenti, quando il vero potere risiede in ben altre e più occulte sedi. L'album esprime un messaggio chiaro ed incisivo: è necessaria una prassi politica militante di tipo collettivo, nella partecipazione attiva, per porre al centro della comunità l'individuo e per cambiare un sistema che, adesso più che mai, sembra inesorabilmente immutabile, arroccato sull'egemonia autoritaria del potere speculativo dei mercati finanziari. Infatti, in un concetto anarchico di società, non esistono “poteri buoni”, ma solo sistemi violenti e autoritari che cercano di perpetuarsi, magari chiamando in servizio permanente effettivo i “ rivoluzionari” di ieri.
È il 1973 e un'Italia postsessantottina in piena rivoluzione artistica, politica e culturale, lo sfondo su cui Fabrizio de André compone questo nuovo album: la storia di un uomo che rifiuta le proprie convenzioni borghesi e che agirà secondo personali e viscerali convinzioni anarchiche e rivoluzionarie, ma comprenderà che la ribellione ha senso solo se collettiva e partecipata, in una dimensione comunitaria dell'esistenza sociale, dove la prassi politica e militante sia volta al raggiungimento della pace come bene comune.

Laura Tussi



Per una storia dell'ORA
(con l'accento sulla “a”)

Mi è sempre sembrato discutibile fare “storia” di esperienze i cui protagonisti sono ancora, in massima parte, vivi e vegeti e questo per ovvi motivi“ mi scrive Guido Barroero. Eppure per quanto possa apparire incredibile – alla “veneranda” età di 55 anni – ciò che si è, intensamente, vissuto in gioventù è diventato oggetto di studio e di ricerca nell'ambito della... Storia contemporanea.
Ovvero con la pubblicazione della tesi di laurea (in Storia contemporanea) di Luca Lapolla (Gli anarchici di Piazza Umberto – La sinistra libertaria a Bari negli anni '70, a cura del Centro Documentazione Franco Salomone www.archiviofrancosalomone.org) in cui si descrive la nascita, lo sviluppo e l'inesorabile declino dell'ORA (ma a noi piaceva dirlo “alla francese” con l'accento sulla À) ovvero “la microstoria di poche decine di anarchici che stavano da tutte le parti, che amavano fregiarsi con grande serietà del nome di organizzazione rivoluzionaria con tanto di sezioni in tutta la Puglia – tanto per scrollarsi di dosso qualche stereotipo che vede gli anarchici sempre disorganizzati – e che se la giocavano alla pari per seguito ed influenza con le altre formazioni della sinistra extraparlamentare” (cfr. Introduzione di Donato Romito). Non entro qui nel merito dei contenuti della ricerca storica che rimangono – ahimé – circoscritti alla sola città di Bari limitandomi a formulare due considerazioni. La prima di carattere “dottrinario” la seconda di carattere storiografico.
Sulla prima questione (quella dottrinaria) l'Autore privilegia la tesi cara alla (futura) Federazione dei Comunisti Anarchici della cosiddetta “responsabilità collettiva” in contrapposizione al principio tuttora vigente tra tutti i gruppi libertari di tutte le tendenze (ad es. della Federazione Anarchica Italiana) che le decisioni prese a “maggioranza” coinvolgono solo coloro (gruppi o individualità) che le hanno sostenute e non implicano, necessariamente, l'accettazione da parte della minoranza che non le condivide. Questo concetto (una vera e propria rivoluzione “copernicana” che rovescia il principio malatestiano della responsabilità soggettiva) unitamente alla, rigida, divisione tra militanti e simpatizzanti operati dall'ORÀ sono state alla base dell'uscita – nel 1978 – dell'intero gruppo (o sezione come ci si definiva all'ora) di Molfetta (di cui facevo parte) e di numerose altre individualità che non hanno mai condiviso i postulati della, cosiddetta, “Piattaforma di Archinoff” che, in seno ai gruppi archinovisti, ha portato alla fondazione (nell'81 se non ricordo male) del Partito Anarchico Italiano (sigla PAI) un'aberrazione (dal punto di vista libertario) sia teorico che... lessicale.
Dal punto di visto storico, poi, probabilmente perché gran parte della documentazione cartacea è andata perduta (i volantini, ad esempio, venivano ciclostilati manualmente a seconda delle esigenze contingenti... previa preventiva colletta collettiva per comprare la matrice, la risma, l'inchiostro) manca completamente l'apporto dei molfettesi la cui sede storica – situata in pieno centro storico di fronte alla Cattedrale con a fianco la Camera del Lavoro e la sede del PSI – è stata fino all'ultimo sempre aperta a tutti per ospitare ed organizzare tutte le genuine espressioni di lotta dal basso, autogestite ed auto organizzate. Questa sua “centralità” la espose inevitabilmente anche agli attacchi, violenti dello squadrismo fascista visto che - nei tumultuosi mesi che seguirono l'omicidio di Benedetto Petrone - subì anche un attentato incendiario. Un attentato che solo per fortuna non ebbe esiti infausti dal momento che in sede, in quel momento, erano presenti 2 compagni (Onofrio e Chiara) che ancora oggi ricordo con affetto.
E come non ricordare, poi, la robusta contestazione al Ministro Lattanzio che – reduce dalla “fuga in valigia” di Kappler – ebbe la faccia tosta di presentarsi a Molfetta per inaugurare la prima “Festa dell'Amicizia” democristiana. Al “nostro” fu semplicemente impedito di parlare e, per evidenziare ancor più i rapporti di forza esistenti in quel momento, quel magma composito che si autodefiniva “movimento” e nel quale gli anarchici erano parte integrante improvvisò anche un corteo che attraversò tutte le principali arterie della città.
A dimostrazione che “quel pugno di anarchici” era un elemento naturale della rivolta sociale in atto perché non era composto da “alieni piovuti dall'alto“ che si mettevano alla testa del movimento ma era formato - in una sorta di “simbiosi sociale” - da studenti tra studenti, donne tra donne, lavoratori tra lavoratori, residenti di quartiere tra residenti.
Al di là del vissuto esperienziale e delle scelte individuali operate da ciascuno – a partire dai primi anni '80 – la pubblicazione di questo, parzialissimo, studio su quello che fu il movimento libertario in Puglia negli anni '70 rappresenta indubbiamente uno stimolo di riflessione interessante per chi – senza settarismi o ambiguità – si propone di ricostruirlo o, più prosaicamente, di studiarlo.

Pasquale Piergiovanni




Sulle tracce
di Ugo Fedeli

“Amo la lotta e la carta stampata”. Questa la citazione in esergo opportunamente scelta da Antonio Senta per il suo libro su Ugo Fedeli e l'anarchismo internazionale (1911-1933), edito da Zero in condotta (pagg. 273, € 20,00) e intitolato A testa alta!. Nonostante abbia conosciuto per lunghi anni le asperità dell'esilio, le espulsioni e la clandestinità, Ugo Fedeli ha infatti costantemente accompagnato la propria militanza anarchica con una formidabile passione per la salvaguardia delle testimonianze scritte del movimento.
Alla sua morte, tramite la moglie Clelia Premoli e lo studioso Arthur Lehning, la biblioteca e l'archivio personali sono stati acquisiti dall'Internationaal Instituut voor Sociale Geschiedenis di Amsterdam, prestigioso istituto attivo fin dagli anni Trenta nella conservazione delle carte del movimento operaio e socialista internazionale. Il fondo archivistico non è rimasto inutilizzato, ma fino a tempi recenti si presentava privo di un inventario analitico. Nel 2006 l'istituto ha affidato la redazione di questo strumento di corredo ad Antonio Senta, che ha completato il lavoro nel 2008 rendendo un apprezzabile servizio a quanti vorranno consultare tale documentazione e utilizzandola egli stesso, come fonte primaria ma non unica, per ricerche storiche culminate nella stesura di questo volume. Scorrendone l'inventario (disponibile anche online sul sito http://socialhistory.org) si percepisce subito come gli Ugo Fedeli papers rappresentino una miniera di materiali sul movimento operaio internazionale, con una copertura cronologica che si estende per quasi cent'anni, dal 1869 al 1964.
La ricerca proposta da Senta procede in un'alternanza di piani, dal particolare al generale e viceversa, da una storia di vita alla rete del movimento anarchico, nel quadro del movimento operaio del primo trentennio del Novecento. Per la chiarezza espositiva e per la sintesi storica che viene complessivamente delineata il libro si inserisce tra i contributi significativi e di alto livello della produzione storiografica attenta alle tematiche del conflitto sociale. In particolare è la storia dell'anarchismo a risaltare, una storia che come puntualizza l'autore è un intreccio di idee, di movimenti, di fatti e di persone, lungo un filo conduttore da cui si dipanano mille modi diversi d'intendere la teoria e l'azione, che nella loro complessità e disomogeneità mal si prestano a rassicuranti e univoche chiavi di lettura.
La ricostruzione della biografia di Fedeli accosta storia politica ed economica, con calzanti incursioni nella storia sociale e nella teoria politica dell'anarchismo. Attraverso le tappe del suo percorso biografico (Milano, la Russia, Parigi e l'Europa, l'Uruguay) Senta ne rintraccia l'attività politica e pubblicistica, ma investiga anche l'evoluzione del suo anarchismo e ripercorre le difficoltà esistenziali di una vita in esilio. Non trascura inoltre di soffermarsi sul ruolo di Clelia Premoli, compagna di Ugo, complice nella vita e nelle lotte, nonostante abbia lasciato poche tracce documentarie com'è consuetudine in un attivismo politico, anche tra gli anarchici, tradizionalmente declinato al maschile.
Viene poi rivalutato il lavoro storiografico di Fedeli rispetto a giudizi forse ingenerosi sulla sua carenza di scientificità. Se il difetto di quest'ultima è difficilmente negabile, va d'altra parte valutato sulla base di alcuni decisivi fattori: il carattere pionieristico delle sue ricerche, le notevoli difficoltà nel reperimento delle fonti, il disagio nello storicizzare avvenimenti recenti e spesso vissuti in prima persona ma, soprattutto, la preoccupazione di base che muove l'autore, ovvero, quasi una missione da adempiere, la necessità di tramandare alle future generazioni la memoria storica del movimento. Pertanto, il ruolo del militante, dell'archivista conservatore, dello storico e del bibliografo si fondono senza soluzione di continuità.
Fedeli nasce a Milano nel 1898 (esattamente l'8 maggio, mentre i cannoni di Bava Beccaris mettono a tacere i tumulti popolari). Giovanissimo, si avvicina al movimento anarchico tra il 1910 e il 1911, in occasione dei moti pro-Ferrer e contro la guerra di Libia, subendo il primo arresto all'età di quindici anni. Nell'ambiente milanese la sua formazione politica è fortemente influenzata dalle teorie dell'anarchismo individualista, che si vanno però a intrecciare e sovrapporre alla solidarietà di classe: “la militanza anarchica è per lui il mezzo attraverso cui trova sintesi una doppia emancipazione, sociale e individuale” (p. 55). Chiamato alle armi per la Grande guerra diserta e si rifugia in Svizzera, dove constata che le autorità elvetiche non lasciavano vita facile ai disertori politici, soprattutto se quest'ultimi perseveravano nelle loro attività di propaganda e agitazione.
Rientra quindi a Milano per vivere tutti gli entusiasmi e le aspettative rivoluzionarie del Biennio rosso, fino al “fattaccio” del Diana. Una serie di attacchi e sabotaggi sono in quel periodo messi a segno dagli individualisti milanesi, nell'illusione di provocare una sollevazione di massa: “tutto un complesso di cose non ci permettevano di vedere la realtà non deformata dalla passione” (p.106), scriverà più tardi Fedeli. La febbre d'azione si spinge fino al gesto inconsulto: con l'intenzione di colpire il questore, giovani compagni compiono una strage attentando al caffè-teatro Diana. Quel “maledetto Diana” segna uno spartiacque nella vita di Fedeli che, pur estraneo all'attentato, è costretto a oltrepassare la frontiera con un mandato di cattura sulle spalle.
Zurigo, Berlino e poi la Russia “patria della rivoluzione”, dove si consuma rapidamente la parabola da un'iniziale simpatia non aliena da diffidenze verso i bolscevichi alla totale disillusione di fronte alle repressioni del regime. Mentre va rivalutando in positivo il ruolo dell'organizzazione anarchica, nel 1923 giunge a Parigi. Qui si ricongiunge con Clelia ed è in prima fila nelle reti di solidarietà antifascista e in tutte le iniziative politiche ed editoriali del movimento. Infine, nel 1929, Ugo e Clelia s'imbarcano alla volta di Montevideo dove di nuovo Fedeli è al centro delle attività del movimento anarchico, persevera nella raccolta dei materiali, nello studio e nell'attività pubblicistica fino al 1933, quando la polizia lo arresta e consegna alle autorità italiane. Si chiude così un capitolo nella vita di Fedeli, l'ultimo analizzato in questo libro, ed è sorprendente realizzare che, arrivati a questo punto, dopo averlo seguito in una lunga biografia mai quieta, Fedeli sia ancora poco più che trentenne.
A testa alta! si conclude con un accurato apparato bibliografico: generale, di e su Fedeli. Le segnalazione dei suoi articoli, che si limitano a quelli effettivamente consultati dall'autore, sono oltre trecento. D'altra parte, come scrive lo stesso Fedeli a Pietro Ferrua nel 1959 “si può dire che abbia collaborato a tutti i giornali nostri che si pubblicano e si sono pubblicati in lingua italiana da quarant'anni a questa parte” (p. 234).

Luigi Balsamini


Un gagè
in un campo Rom

Si è affacciato di recente, con timidezza, sul panorama editoriale italiano un piccolo libro che affronta la difficile tematica del rapporto tra rom e gagè. Vicini distanti. Cronache da via Idro (Ligera edizioni, collana Idee, Milano 2012, pagg. 128, € 14,00) è una sorta di diario, una cronistoria apertamente partigiana della vita del campo comunale di via Idro, al limitare di via Padova, aperto nel 1989 e ospitante circa 130 rom harvati.
L'autore, Fabrizio Casavola, è un gagè e, prima ancora di essere un attivissimo blogger specializzato in cultura rom e sinta, è un comune cittadino che, per ragioni occasionali e personali, è entrato in contatto con questo microcosmo e non l'ha più abbandonato. Dalla sua esperienza, basata su una lunga e assidua frequentazione del campo e un dialogo diretto con i suoi abitanti è nato un blog (www.sivola.net/dblog/) e successivamente un libro, che della scrittura in rete conserva molte forme e stilemi. L'autore, che apprezza la peculiare bellezza della cultura orale, è anche consapevole di quanto quest'ultima non fornisca gli strumenti per fronteggiare una “società esterna molto più numerosa, organizzata e strutturata” – di qui la scelta di mettere per iscritto i frutti di anni di conoscenza reciproca, maturata “sul campo”.
La struttura del lavoro è piuttosto eterogenea, non a caso il nome dell'autore è riportato con la dicitura “a cura di”, perché ospita interventi e contenuti provenienti da voci diverse: mediatrici culturali, insegnanti, giornalisti; nonché differenti forme testuali, dalla piccola fiaba al comunicato stampa fino alla lettera – ancora in attesa di risposta – spedita dagli abitanti di via Idro alla nuova giunta cittadina. Si tratta di una sorta di collage, tenuto insieme dal commento asciutto e allo stesso tempo appassionato di Casavola, che non a caso si autodefinisce un “collezionista di notizie”.
La stessa scansione temporale degli avvenimenti non segue un lineare andamento cronologico ma procede attraverso rimandi di natura tematica: una scelta precisa che richiede al lettore uno sforzo in più per approssimarsi ad una dimensione del tempo più vicina a quella percepita dal popolo rom. Nei vari quadri tematici che si susseguono – infanzia, scuola, lavoro... – trovano quindi spazio, tra i ritagli di giornale e gli interventi più tecnici, anche frammenti dal taglio più intimista e poetico.
Ne è un esempio il capitolo denominato “Spazio bambini” che offre due brevi storielle incentrate sul rapporto tra i rom e l'animale a cui forse più di tutti questo popolo è legato: il cavallo. Il primo è una favola della buona notte per i più piccoli, il secondo – un “raccontino per i più grandi” – attraverso una storia amara di evoluzioni urbanistiche e vecchi mestieri divenuti obsoleti, apre timidamente una riflessione niente affatto banale, auspicando un'accezione di cultura che non si limiti alla cosiddetta 'cultura alta' delle opere d'arte, o peggio, sia ricondotta, con uno sguardo di sufficienza dentro le griglie del folclore, ma tenga conto del lavoro dell'uomo e dei suoi riti quotidiani: “quando si parla di cultura e di possibilità di esprimersi, pensiamo alla musica, alla poesia, ma lo è anche una vita di lavoro passata ad allevare i cavalli”.
Sicuramente personali sono anche l'apertura – una sorta di presentazione e dichiarazione di intenti – e l'epilogo del libro, che chiude il cerchio con il racconto della mattina del 1 gennaio 2012, in cui ha preso forma l'idea di scrivere questo resoconto: “è la storia di una sbronza mancata”, spiega con ironia Casavola durante le presentazioni del libro, “ve la racconto, così potete dire di averlo letto anche se non lo farete – lo so bene che in Italia ci sono più scrittori che lettori...”. E personale lo è il libro in genere: Casavola non è né uno studioso di antropologia né tanto meno un professionista del sociale; può essere considerato una sorta di testimone che parla solo di ciò che conosce direttamente e lo fa con umiltà ironica ma anche con intento militante, invitando al dialogo e alla conoscenza reciproca, da milanese fermamente convinto che “se Milano dovesse campare dei soli milanesi, sarebbe ancora uno sperduto villaggio celtico.”.

Laura Antonella Carli

 

 

Dove Milano muore

Laggiù in fondo, laggiù in fondo alla via
Ci sono posti poetici a prescindere
Altri lo diventano per qualche
ragione personale
Altri non lo sono e non lo saranno mai
Ma laggiù, in fondo a via Padova la poesia c'è
L'acqua della martesana scorre veloce,
ma non troppo
Insomma scorre
E poi una anatra e un bambino rom
Dove Milano, Sesto San Giovanni
e Cologno Monzese si scontrano
in quel punto Milano muore, o meglio vive.

Federico Riccardo Chendi




La depressione post-parto
delle donne (forzate) madonne

Ho visto Maternity Blues, il bene dal male di Fabrizio Cattani all'arena di Faenza, la sera del 28 giugno. Era spiazzante ascoltare urla e trombette dalle case vicine, poi i clacson per strada, mentre scorrevano le immagini di un film assolutamente diverso da ogni altro, per il tema scelto e per la sensibilità del regista.
A vederlo non eravamo poche e pochi a vederlo ma - ancor più del solito – è importante precisare il maschile e il femminile invece di rifugiarsi nell'ingannevole neutro. Quattro o cinque uomini per 50-60 donne: per il tema (l'infanticidio) e per la concomitanza con la partita di calcio, sport “maschio”? A mio avviso due bugie – che la maternità sia affare di femmine e gli sport roba virile – sia pure con un grande e convinto seguito.
Dopo il film abbiamo – intendo noi 50/60 più 4/5 – a lungo chiacchierato con il regista. Fuori cresceva “la festa” coprendo spesso le nostre parole.
A me è sembrato uno dei film italiani più belli di sempre: per il coraggio, per la direzione delle attrici (e di due bravi attori), per il rifiuto degli effetti – e dei giudizi – facili. Dagli applausi, dalla gran voglia di parlare con il regista, mi è parso che quasi tutte le persone lì abbiano avuto la stessa impressione: di avere assistito a un evento eccezionale, sorprendente in tempi come questi (di ignoranza e di totale conformismo).
È probabile che, anche se il cinema vi appassiona, non abbiate sentito parlare di «Maternity Blues». Gira poco, nonostante lo distribuisca Fandango. E i media ovviamente non possono/vogliono informare su un film che affronta un tema rimosso, ma soprattutto che evita di dare giudizi, che non colloca il bene tutto da una parte e il male tutto dall'altra. Prima di incontrare la pièce teatrale («From Medea» di Grazia Verasani che continua a girare nei teatri ma si può leggere anche nel libro pubblicato da Sironi) che lo ha ispirato, il regista era uno di quelli con le idee chiare; pensando di fare un film «ho voluto capire di più, incontrare alcune di queste donne». Le sue certezze sono sparite strada facendo. In modo sommesso ma profondo (è il suo stile nel parlare come nel far cinema) Fabrizio Cattani ha ricordato quanto sia pesante sulle madri, soprattutto nei Paesi cattolici, l'obbligo di essere madonne, sante per forza. Qualunque cosa succeda loro, quale sia la loro età e il contesto, molto spesso le concrete, fragili donne credute “madonne” restano sole: se la depressione post partum (che viene appunto definita maternity blues oppure baby blues) si protrae, se per mille motivi non reggono, se intorno a loro crolla tutto... si ritrovano senza aiuti, magari con vicino tante e tanti capaci solo di pontificare, a garantire che l'istinto della maternità risolverà ogni cosa, che “le creature” sono sempre e solo una benedizione.



Ho rivolto tre domande a Fabrizio Cattani. Eccole con le sue risposte.

Dicevi a Faenza di avere certezze che si sono sgretolate. Come è accaduto? Quanto ha pesato il testo di Grazia Verasani e quanto gli incontri successivi con le donne?
«Su questo tema anche io, come molti, mi limitavo al giudizio nei confronti di queste donne: non concepivo il fatto che una madre potesse arrivare a uccidere un figlio e quindi la condannavo a priori. Attraverso il testo di Grazia e poi nell'incontro con queste donne e soprattutto con il dottor Calogero che le cura da molti anni, questo mio senso di giudizio veniva sempre meno, lasciando spazio a una sensazione di pietas, quel sentimento che si prova nel momento in cui si smette di giudicare e si inizia a cercare di comprendere. Ho capito che spesso una donna arriva a tanto anche per un “concorso di colpa”, in situazioni familiari disastrose o per infanzie violente; ho capito che se la depressione post partum non viene curata può portare a una psicosi e quindi a gesti estremi».

È sempre l'Italia delle donne-madonne ma lasciate sole oppure qualcosa sta cambiando?
«Purtroppo si fa ancora troppo poco per le donne, in generale. Nulla si fa a esempio contro la violenza nei loro confronti. Sono le istituzioni italiane che, nonostante più volte sollecitate, non hanno ancora firmato la “Convenzione Europea per la prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne” approvata l'anno scorso a Istanbul. Questo vale anche per la maternità: si accompagnano le madri, magari amorevolmente, fino al momento del parto per poi abbandonarle a loro stesse una volta partorito. Se alcune hanno un compagno che è presente o familiari che stanno loro vicino sono fortunate. Ma spesso accade che non abbiano nessuno e loro stesse si vergognano di ammettere che sono in difficoltà, di chiedere aiuto per la vergogna, che deriva appunto da una nostra cultura dove la madre deve essere perfetta. Ma fortunatamente stanno nascendo centri in Italia, ancora troppo pochi, che aiutano queste madri: mi vengono in mente Ca' Maman a Genova o Il Melograno ad Arezzo, dove psicologhe e psichiatre visitano gratuitamente a casa queste madri in difficoltà, aiutandole e sostenendole psicologicamente».

Cosa racconta e cosa tace il cinema italiano di oggi? Ti va di dirlo da regista e da spettatore-cittadino?
«Se uno vuole fortunatamente ha la possibilità di raccontare in un film ciò che magari in altri tempi non era possibile. Magari ha difficoltà a trovare una produzione o una distribuzione visto che per lo più sono interessate solo al riscontro economico. Non è tanto l'impossibilità di parlare attraverso il cinema di temi tabù quanto di trovare chi, con te, ci crede. Certi argomenti purtroppo non hanno un grosso seguito di pubblico e di conseguenza i produttori non vogliono esporsi. Oggi chiedono solo commedie, divertimento e spensieratezza possibilmente al limite dell'idiozia. Adesso, dopo il successo del film francese “Quasi amici”, vorrebbero tutti la commedia divertente e commovente con sfondo sociale, ma solo perché hanno riscontrato che ha avuto un grande successo di botteghino. Mi auguro che i nostri giovani autori, perseguano invece ciò in cui credono, al di là delle leggi di mercato. È l'unico modo per fare un cinema di qualità in Italia».

Daniele Barbieri

Se volete sapere di più andate sul sito cioè http://www.maternityblues.it/film che indica anche le prossime proiezioni e i dibattiti con il regista. È importante che un film così circoli, sia discusso. Dà speranza un film così.



Intervista a Felice D'Agostino
Fare film (e politica) in Calabria

Fanno un cinema radicalmente politico, autarchico (e anarchico). Con materiali d'archivio e gente comune, girano nella propria regione (la Calabria) e in estrema povertà docu-film che, cozzando contro il muro dei casi irrisolti della storia d'Italia, codificano una poetica che chiede a chi guarda lo sforzo di interpretare. Felice D'Agostino e Arturo Lavorato sono cugini e al momento hanno all'attivo un pugno di opere, tra cui “Il canto dei nuovi emigranti” (2005) e “In attesa dell'avvento” (2011).
Grazie al primo, un omaggio al conterraneo poeta Franco Costabile, sono stati premiati al Festival di Torino e Bellaria, mentre con il secondo, firmando un breve e corrosivo trattato sulla retorica del Risorgimento e dell'Unità d'Italia, si sono aggiudicati lo scorso anno al Festival di Venezia il primo premio nella sezione cortometraggi. Del loro lavoro, della loro ricerca documentaristica sulla Calabria e il Meridione e di quella tensione artistica e politica che vuol essere pure rilancio del conflitto sociale, abbiamo parlato con Felice D'Agostino.

Quando è iniziato il sodalizio cinematografico D'Agostino-Lavorato?
Io ed Arturo è da un bel po' di anni che facciamo cinema insieme, entrambi autodidatti abbiamo iniziato ad appropriarci del mezzo audiovisivo lavorando per il cinema e la televisione. Io vengo da una passione prematura per la fotografia, mentre Arturo ha coltivato un impegno politico negli anni dell'università, creando pure una cooperativa di produzione di documentari. La molla di avvicinamento all'audiovisivo è stata (e rimane ancora oggi) la necessità di raccontarci come individui e come calabresi. Se non ci fossimo imbattuti in questo linguaggio sicuramente avremmo cercato in qualche modo di cantare la nostra terra con altri strumenti.

Il canto dei nuovi emigranti” e “Prima dell'avvento” sono i film che vi hanno fatto conoscere a livello nazionale, ma prima ci sono state altre opere…
Insieme ad Angelo Maggio, fotografo e animatore culturale calabrese, per anni abbiamo portato avanti un progetto di documentazione audiovisiva delle feste popolari calabresi. Questa è stata la nostra vera “palestra cinema”. E mentre archiviavamo, abbiamo realizzato un paio di documentari etnografici che sono stati proiettati in ambienti accademici.

Le vostre due opere più importanti sono state molto apprezzate. Oltre che per rassegne e festival, dove hanno circuitato?
“Il canto dei nuovi emigranti” e “In attesa dell'avvento” sono stati proiettati durante molte iniziative politiche. Non affermo niente di nuovo se dico delle reali carenze distributive presenti nel nostro paese. Se poi si pensa che registi come Tonino De Bernardi e Fabrizio Ferraro trovano difficoltà a far entrare i loro film in sala, non credo che ci si debba stupirsi più di tanto se i nostri film gravitano solo intorno a festival e rassegne. Ora, possa piacere o meno, questi contenitori sono l'unico canale alternativo per vedere un certo tipo di cinema.

In questo momento a cosa state lavorando?
Stiamo preparando un lungometraggio di cui “In attesa dell'avvento” costituisce un piccolo studio iniziale. Un film sull'Unità… un film contro il Risorgimento: vogliamo far vedere l'Unità d'Italia dalla parte delle periferie più lontane del Regno, raccontare come si è generato un ulteriore processo di colonizzazione del Meridione.

Verso quali registi e cinematografie si rivolge in particolare la vostra attenzione?
Tra i nostri “sguardi preferiti” ci sono sicuramente Godard, Straub-Huillet e Rocha, ma anche Tarkovskij, Anghelopulos, Bela Tarr, De Oliveira, Herzok, Rouch, Jarman, Marker, Bresson. Insomma, siamo attratti da un certo cinema autoriale e d'impegno.

Fate un cinema politico, ma di là della macchina cinema come manifestate la militanza politica e civile?
Il nostro cinema è un prolungamento del nostro fare politica in Calabria. Raccontare l'emigrazione meridionale, ricercare una lingua che ci aiutasse contemporaneamente ad esprimerci e a riconoscerci comunità ci ha portato a confrontarci con la storia. E da qui che siamo stati sollecitati altresì a sostenere in Calabria battaglie contro discutibili mega-investimenti come l'inceneritore di Gioia Tauro, la Turbogas di Rizziconi e il Ponte sullo stretto. Da un anno e mezzo io e Arturo abbiamo contribuito alla nascita e alla crescita di una sorta di consorzio/movimento, Equosud, che agevoli i piccoli produttori della nostra terra a bypassare la grande distribuzione, vero cappio al collo della nostra economia agricola e causa di molte tensioni, come quella che sfociò nella rivolta di Rosarno. Inoltre, per la vicinanza nei confronti di chi ha sempre lottato per la nostra terra, abbiamo voluto dedicare “In attesa dell'avvento” all'economista marxista e meridionalista Nicola Zitara e a Ciccio Svelo, avvocato di movimento e compagno di tante battaglie, purtroppo prematuramente scomparso lo scorso anno.

Dei partiti e dell'attuale governo cosa pensate?
Noi siamo comunisti libertari. E come tali non abbiamo mai creduto alla forma partito e nemmeno nel voto come espressione di partecipazione alla vita politica. Crediamo che la politica si faccia nelle strade, nelle piazze e non nelle sedi partito. A proposito di forma di partito, voglio ricordare che su questo tema Weil ha scritto un bellissimo pamphlet (Manifesto per la soppressione dei partiti politici, ndr) consiglio a tanti di leggere.

Mimmo Mastrangelo



Tra i minatori
disoccupati

Wigan Pier, cittadina mineraria dell'Inghilterra settentrionale, costituisce il punto di partenza e il simbolo dell'indagine politica e sociologica condotta da George Orwell nelle pagine di questo libro-documento pubblicato nel marzo del 1937; il viaggio che l'autore compie nell'inferno delle miniere rappresenta, infatti, un tentativo di entrare nel mondo della classe operaia per scoprirne sofferenze e valori. Opera commovente, tragica e attualissima.

Potrete leggere passaggi come questi:

  • (...) in breve il treno raggiunse l'aperta campagna, e ciò parve strano, quasi innaturale, quasi che l'aperta campagna fosse stata una specie di parco; ché nelle zone industriali si ha sempre la sensazione precisa che fumo e sporcizia debbano continuare per sempre e nessuna parte della superficie della terra debba sfuggire loro.
  • (...) tutte le specie di lavori manuali ci tengono in vita e noi dimentichiamo che esistono. Più di ogni altro, forse, il minatore può rappresentare il prototipo del lavoratore manuale.
  • Questa faccenda di meschini disagi e mancanze di decoro, di essere tenuti ad aspettare in piedi, di dover fare ogni cosa secondo il comodo altrui è implicita nella vita della classe operaia. Mille influenze costringono di continuo l'operaio in una parte passiva. Egli non agisce, ma subisce l'azione altrui. Si sente schiavo di una misteriosa autorità ed è fermamente convinto che “quelli” non gli permetteranno mai di fare questo, quello o quell'altro.
  • (...) la gente ha cessato di scalciare sotto le frustate.
  • (...) lo sviluppo postbellico di generi voluttuari a buon mercato è stato una fortuna per i nostri governanti. È molto verosimile che pesce e patatine fritte, calze di seta, salmone in scatola, cioccolata a prezzi modici (...), il cinematografo, la radio, il tè forte e i Football Pools abbiano fra tutti evitato la rivoluzione. Così che ci sentiamo dire ogni tanto che tutta la faccenda è un'astuta manovra della classe dirigente (...) per tenere a bada i disoccupati. Ciò che ho visto della nostra classe dirigente non mi convince che abbia molta intelligenza. La cosa è avvenuta, ma attraverso un processo inconscio: l'interazione affatto naturale tra la necessità da parte dell'industriale di un mercato e il bisogno, da parte di gente semiaffamata, di palliativi a basso prezzo.
  • (...) meno quattrini si hanno e meno ci si sente disposti a spenderli in cibo sano. Un milionario può apprezzare a colazione, la mattina, succo d'arancia e biscotti leggeri; un disoccupato no.
  • (...) Quando si è disoccupati, quando cioè non si mangia abbastanza, e si è tormentati, annoiati e depressi, non si ha voglia di mangiare tediosi cibi sani. Si ha voglia di qualcosa un po' “stuzzicante”. C'è sempre qualche cibo appetitoso e a buon mercato che vi tenta.
  • In una casa della classe operaia – non penso per il momento a case di operai disoccupati, ma ad altre relativamente prospere – si respira un'atmosfera calda, onesta, profondamente umana, che non è molto facile trovare altrove.
  • (...) l'orribile arma della disoccupazione ha sottomesso l'operaio.
  • (...) erano stati in guerra ed erano ritornati a casa col tipico atteggiamento del militare nei riguardi della vita, atteggiamento che in modo fondamentale è, nonostante la disciplina, da fuorilegge.
  • (...) il peggior criminale che abbia mai camminato su questa terra è moralmente superiore al giudice che lo condanna alla forca.
  • È solo quando s'incontra qualcuno di cultura ed educazione differenti dalle nostre che si comincia a scoprire quali siano realmente le nostre opinioni.
  • (...) l'uomo occidentale inventa macchine con la stessa naturalezza con cui un polinesiano nuota nelle acque della sua isola. Affidate a qualunque individuo dell'occidente un lavoro manuale e subito comincerà a ideare una macchina che faccia quel lavoro per lui; dategli una macchina e lui penserà a vari modi di migliorarla.
  • È qualcosa peggio che inutile scartare il fascismo come “sadismo collettivo” o “di massa”, o qualche altra facile etichetta del genere. Se sostenete che è soltanto un'aberrazione che in breve tempo si esaurirà da sola, vi cullate in un sogno dal quale vi desterete nel momento in cui qualcuno vi darà una manganellata sulla testa.
  • Chiunque conosce il significato della povertà, chiunque nutra un odio genuino per la tirannide e la guerra, è, potenzialmente, dalla parte dei socialisti.
  • Ogni impiegato di banca che trema all'idea del licenziamento, ogni negoziante che vacilla sull'orlo della bancarotta sono essenzialmente nella stessa posizione. Essi rappresentano il ceto medio che sta sprofondando e molti di loro si aggrappano alla loro signorilità con l'idea che essa possa mantenerli a galla.
  • (...) gli interessi di tutti gli sfruttati sono gli stessi.
Volete sapere qualcosa di più di questo libro? Sappiate che questa esperienza di Orwell tra i minatori disoccupati non si esaurisce in una testimonianza viva e drammatica sulla crisi degli anni Trenta del Novecento, ma si propone soprattutto come uno studio approfondito del complesso problema dei rapporti fra socialismo e civiltà industriale.

Marco Sommariva
marco.sommariva1@tin.it



I treni (e la nave)
per Reggio Calabria

Anno esplosivo, il 1972. Letteralmente. Cominciamo da Milano. 11 marzo: Il Comitato di lotta contro la strage di Stato indice una manifestazione contro un raduno della “Maggioranza silenziosa”, la “buona” borghesia milanese più fascista che democristiana. La città è in stato d'assedio, la tensione alle stelle; furibondi, scoppiano di scontri tra servizi d'ordine della sinistra extraparlamentare e polizia e carabinieri. Candelotti e proiettili di pistola sono sparati ad altezza d'uomo; muore un pensionato, Giuseppe Tavecchio, e per questo crimine saranno rinviati a giudizio un ispettore e alcuni agenti di polizia. 110 arrestati, tra cui la sottoscritta, che sarà scarcerata tre mesi dopo, alla chiusura dell'istruttoria. Il 17 marzo, sui tralicci di Segrate, salta per aria l'editore GianGiacomo Feltrinelli. Il 5 maggio il compagno Franco Serantini viene barbaramente ucciso dalla polizia sul Lungarno Gambacorti, a Pisa. Il 17 dello stesso mese viene assassinato a Milano il commissario Luigi Calabresi. Tutto il carcere brinda all'evento; nonostante da anni si tenti di farne un eroe buono, anche i detenuti comuni lo conoscevano come un duro, un picchiatore. Nel corso dell'anno centinaia di attentati a sedi sindacali e di partiti e associazioni di sinistra, fino a quelle sui treni che dal Centro Nord portavano gli operai e gli edili, e lavoratori di altri settori, a Reggio Calabria, il 22 ottobre, pochi giorni prima del cinquantesimo anniversario della marcia su Roma.
Durante la mia detenzione scoppia una rivolta nel carcere di San Vittore, che si estende anche al braccio femminile; la repressione è violentissima, non ho mai avuto tanta paura in vita mia: nessuna possibilità di sottrarsi alle botte, ai vetri in frantumi che diventavano proiettili sotto i getti degli idranti, e colpivano anche le donne e i bambini del nido. Persino alcune suore sentirono sulla testa e sulle spalle i manganelli dei poliziotti.
Per tutto l'anno si susseguono senza soluzione di continuità scioperi, manifestazioni, occupazioni di fabbriche, scuole, case. L'anno si conclude con la scarcerazione di Pietro Valpreda e dei compagni anarchici, mentre sotto i bombardamenti USA su Hanoi muoiono 2000 civili vietnamiti. In tutto il mondo il 1972 fu un anno esplosivo.
I fatti che voglio ricordare hanno origine nel 1970, quando furono indette le prime elezioni per la costituzione dei Consigli delle Regioni a statuto ordinario, la più importante riforma istituzionale italiana dopo il passaggio dalla monarchia alla repubblica nel 1946. La riforma era stata bloccata per oltre vent'anni dai partiti di centro destra, DC in testa, che temevano il costituirsi di “regioni rosse”, e soprattutto di perdere il controllo, e i relativi privilegi e affari, che il potere centralizzato garantiva.
In Calabria si pose subito il problema del capoluogo, conteso tra le città di Catanzaro e Reggio. Quando fu chiaro che il governo propendeva per la prima, a Reggio esplose la rivolta: era il 14 luglio (presa della Bastiglia!) 1970, e già il giorno successivo ci fu il primo morto, Antonio Labate. I partiti di sinistra presero subito le distanze, e le sedi di PCI, PSI e Camera del Lavoro furono assaltate da squadristi fascisti, infiltratisi nella rivolta, le cui origini in realtà erano nella miseria e nella disoccupazione, che costrinsero milioni di lavoratori ad emigrare, dopo la lunga stagione dell'occupazione delle terre e l'inutile attesa della riforma agraria: era dai tempi di Garibaldi che l'aspettavano! Il 22 luglio il Treno del sole Palermo Torino deraglia a Gioia Tauro a causa delle bombe poste sui binari della ferrovia: 6 morti e 54 feriti il bilancio delle vittime. Il 3 agosto nasce, su iniziativa del sindaco DC di Reggio e del sindacalista della CISNAL Ciccio Franco, che al grido del famigerato “boia chi molla” cerca di capeggiare la rivolta, il Comitato per Reggio capoluogo.
Junio Valerio Borghese, comandante della X MAS, noto golpista e tessitore di trame nere, cerca di tenere un comizio a Villa San Giovanni, vietato però dalla questura. Il 17 settembre Ciccio Franco e alcuni suoi compari vengono arrestati per l'omicidio di un autista di autobus (alla fine i morti furono sei). Il 26 dello stesso mese muoiono in un misterioso incidente sull'autostrada cinque giovani, Gli anarchici della Baracca (un quartiere di Reggio), i quali stavano portando a Roma dei documenti comprovanti le infiltrazioni fasciste e relativi mandanti nella rivolta. Il governo invia l'esercito a controllare la ferrovia Salerno Reggio Calabria, ma col nuovo anno una manifestazione del Comitato, cui partecipano 20.000 persone, e l'occupazione del quartiere Sbarre, inducono il ministro dell'interno Restivo a sospendere le garanzie costituzionali, fino alla fine dell'anno (1971). Il presidente del Consiglio Colombo si barcamena, promettendo in TV che Reggio sarà la sede del Consiglio regionale (Catanzaro della Giunta) e soprattutto la creazione del V polo siderurgico IRI, che occuperà 7500 lavoratori. Almirante soffia ancora sul fuoco, e tiene un comizio, rivendicando il capoluogo per Reggio; ma restano solo le braci, che piano piano si spengono.

La cantautrice Giovanna Marini
(foto di Carmelo Giordano)

Dal 20 al 22 ottobre del 1972 i sindacati confederali, che hanno molto da farsi perdonare, indicono a Reggio una Conferenza sul Mezzogiorno; la città è in stato d'assedio, come ai massimi livelli della rivolta. Per il giorno della chiusura, viene organizzata una manifestazione di solidarietà tra lavoratori del Centro Nord e del Sud. Nella notte tra il 21 e il 22 ottobre vengono poste diverse bombe lungo la ferrovia che porta i manifestanti a Reggio; a Roma i treni restano in attesa delle ore prima di poter partire. La tensione è altissima e la paura tanta: chi ha messo le bombe sta cercando la strage. Anche molti pullman vengono bloccati alle porte della città, dove i fascisti hanno organizzato una contromanifestazione. Sembra che la manifestazione sindacale non possa partire, ma la forza di volontà vince sulla paura e, tra i sassi e gli insulti, il corteo riesce a muoversi; quando a pomeriggio inoltrato si scioglie, arrivano ancora operai che erano rimasti bloccati lungo il percorso; da Genova arrivò persino una nave coi lavoratori dell'Ansaldo.
Il viaggio da Roma a Reggio, con la sua drammaticità, le paure, ma anche la voglia di lottare e la gioia e l'orgoglio di avercela fatta, sono raccontati quasi in cronaca diretta, con voce nitida ed emozionata da Giovanna Marini, che vi partecipò personalmente, ne I treni per Reggio Calabria, la sua canzone più bella, ex aequo con il Lamento per la morte di Pasolini.
Nonostante il tentativo di appropriarsene delle destre clerico fasciste, favorito dall'astensionismo e dalle diverse letture dei fatti da parte delle sinistre, quella di Reggio fu la più grande rivolta sociale dell'Italia repubblicana, e la richiesta di lavoro e giustizia sociale ne furono l'elemento centrale; ma, come sempre, la risposta furono le bombe fasciste, un nuovo anello della strategia della tensione. Dopo quarant'anni il Sud è, se possibile, ancora più abbandonato a se stesso e dimenticato. Di tutti i manuali di storia che mi sono capitati tra le mani (tanti) nessuno la menziona. Un'omissione colpevole e offensiva, ma purtroppo solo una delle tante che riguardano la storia di lotte e il tributo di sangue di questo nostro popolo, che Gramsci definì “grande e terribile”.

Sandra D'Alessandro



I finanziatori
del fascismo

Chi ha finanziato il primo movimento fascista? Un elenco completo, inedito, accurato e rigoroso, di oltre tremila finanziatori del primo fascismo è stato finalmente reso noto dallo studioso salernitano Gerardo Padulo nell'opera I finanziatori del fascismo, pubblicato nel primo quaderno Le carte e la storia della Società italiana di storia delle Istituzioni curato dalla casa editrice Nuova Immagine di Siena nel 2010 (pag. 112, €. 10,00, da richiedere al n. 0577.42625 email: nuovaimmagineeditrice@tin.it). Un lungo elenco di nomi e cifre che comprende banche, industriali, agrari, principi, conti, marchesi, baroni, nobildonne, avvocati, notai, editori, massoni, geometri, cavalieri, bottegai, editori, armatori, imprenditori, officine, ingegneri, medici, farmacisti, albergatori, ecc. e che copre il periodo che va dal 1 ottobre 1921 al 3 marzo 1925. Accanto ad ogni nome l'indirizzo, la data e la somma versata. Le offerte vengono da circa duecentocinquanta località, comprensive di trentuno capoluoghi di provincia come Alessandria, Ancona, Ascoli Piceno, Bari, Benevento, Bergamo, Brescia, Caltanissetta, Catania, Como, Firenze, Genova, L'Aquila, Macerata, Messina, Milano, Napoli, Novara, Padova, Palermo, Pavia, Pesaro-Urbino, Porto Maurizio (l'odierna Savona), Roma, Siena, Siracusa, Sondrio, Teramo, Torino, Trapani e Verona. L'elenco non comprende oblazioni provenienti dalle provincie di Bologna, Forlì, Salerno, Cremona, Ferrara, Trieste, ecc. ed è improbabile che nessun contributo sia stato dato dagli uomini di queste provincie, alcune delle quali hanno espresso un fascismo e uno squadrismo violento e robusto. Per la verità anche Renzo De Felice aveva parlato dei finanziatori, senza però pubblicarne l'elenco, che è conservato all'Archivio Centrale dello Stato nella busta 47 del fondo della Mostra della Rivoluzione fascista. E' un notevole documento su una delle prime forme di finanziamento occulto della politica italiana. Sono più di cinquecento carte, manoscritte e dattiloscritte, raccolte in cinque fascicoli e non è da escludere che l'elenco è mutilato, nel senso che ci furono tanti altri finanziatori del fascismo, che l'autore – recuperando una felice intuizione contenuta nel titolo di un libro dell'anarchico Luigi Fabbri, pubblicato nel 1922 dalla Casa editrice Cappelli di Bologna e recentemente riproposto da Zero in condotta di Milano nel 2009 – definisce «contro-rivoluzione preventiva». Viene inoltre pubblicato l'elenco degli oblatori dal 13 giugno 1919 al 9 gennaio 1920, che è in ordine cronologico e telegrafico, nel senso che vi sono solo i nomi ma non gli indirizzi e si tratta di una lista di circa 780 oblatori completamente sconosciuta e ritrovata all'ultimo momento dall'autore, il che conferma che ulteriori ricerche potrebbero fornire altri elenchi.
Le offerte oscillano tra le duecentomila lire del Credito italiano e le cinque lire. A volte gli oblatori non si accontentano di aver dato un solo contributo e mettono nuovamente mano al portafoglio per finanziare il movimento e la violenza fascista. Per dare un valore alle oblazioni bisogna ricordare che il valore di mille lire del 1924 corrisponde ad un valore attuale di 900 euro.
L'universo dei finanziatori è variegato: vi risaltano tutti i nomi dei «padroni del vapore». Ci sono quasi tutti quelli dell'epoca. Tra i sovvenzionatori i Fratelli Feltrinelli e Carlo Feltrinelli che insieme danno ben ventisettimilacinquecento lire; Lorenzo Allievi, Max Bondi, Giacinto Motta e Giovanni Agnelli. Padulo spiega: «Allievi e Motta erano uomini forti e rappresentativi dell'industria elettrica. Bondi era notissimo tra i “pescicani“: alla testa dell'Ilva era stato protagonista di mille imprese durante la guerra». Se all'epoca si fossero conosciuti questi finanziamenti «sarebbe stato possibile ai fascisti e ai loro estimatori sostenere che il fascismo era antisocialista quanto anticapitalista?» si chiede nel saggio introduttivo all'elenco. A ragione Gerardo Padulo sottolinea e commenta che «generalmente, chi la mano destra impegnata a ricevere denaro non alza la sinistra per minacciare il donatore» e difatti le squadracce fasciste danneggiarono sempre ed esclusivamente Camere del lavoro, Cooperative, Leghe di resistenza, giornali, sedi dei partiti popolari, circoli popolari, giammai una direzione aziendale o una struttura padronale. Inoltre nottetempo le squadracce picchiano i contadini e gli operai, devastandone le abitazioni, ma mai i padroni. Ribadisce che la grande industria non ebbe alcun timore delle proclamate volontà rivoluzionaria dei fasci e dal 1919 finanziò tranquillamente Mussolini e il movimento fascista. Il ministero dell'Interno sapeva di questi contributi, molti prima del 1922, e tacque.
Infine la ricerca di Gerardo Padulo dà conto del ruolo della «scuola quadri» che il fascismo assegnò, dopo la marcia su Roma, alla casa editrice, «Imperia» di Milano, la prima casa editrice del PNF, voluta da Dino Grandi nell'ottobre 1922 per formare la classe dirigente del partito e ampiamente sovvenzionata dalla massoneria, che, «con forti capitali uomini della massoneria; entrano e governano, costituendo la maggioranza del consiglio di amministrazione». La massoneria poi cercò di contrastare il fascismo a partire dal 1925.

Giuseppe Galzerano

Ricordando Misiano

Si chiamava Misiano Barbieri, ma con quel nome originale per noi è sempre stato Misiano e basta: Misiano dell'Infoshop Mag6, di Reggio Emilia. Il solito “brutto male“ se lo è portato via poco più che cinquantenne, nel bel mezzo di questa estate torrida. E tra i nostri compagni e amici della Mutua AutoGestione, Mag6, e in particolare dell'Infoshop di via Vincenzi, ora Misiano non c'è più. Lui che una ventina di anni fa aveva contribuito a fondare questo bel centro di “smistamento“ di materiali alternativi, ecologia, diritti, zingari, lotte e tanti altri temi “giusti“: e anche l'anarchia.
A Renato, Matthias, Giovanna, Romano, Fabio e a tutte/i gli altri del “suo“ giro reggiano e non solo, un abbraccio fraterno da noi di “A”, di Elèuthera, del Centro Studi Libertari/Archivio “Giuseppe Pinelli”.