Rivista Anarchica Online


attenzione sociale


a cura di Felice Accame


Amore e decapitalizzazione



1. Una delle soluzioni più adottate nella modernità è quella di ridurre il politico allo psichiatrico. Si potrebbe quasi dire, invece, che dietro ogni diagnosi psichiatrica ci sia l'occultamento più e meno consapevole di un rapporto di natura politica. I casi più analizzati sono quelli degli oppositori politici in Unione Sovietica e quelli dell'emarginazione sociale dei ribelli alle varie autorità – della famiglia, della scuola, della Chiesa, delle altre istituzioni totalizzanti. Pur non avendone mai sentito parlare prima, non avrei mai dubitato che, nel novero affollatissimo di queste diagnosi, potesse anche starci l'androfobia. Perché no ? Anzi, a dire il vero, la “paura dei maschi” potrebbe sin passare per una delle diagnosi meno discutibili, perché una paura talmente consistente da far sì che una femmina, pur attratta, si inventi praticamente di tutto per giustificare la propria riottosità nei confronti dei maschi, in fin dei conti, un senso può anche averlo. Gratta sotto certi comportamenti maschili e di motivi per averne paura ne trovi a iosa.


2. Dove si parla molto di androfobia è in Ciliegine, il film scritto, diretto e interpretato da Laura Morante, un film che deve il suo nome a due circostanze narrative.
Nella prima, c'è lei e lui – un lui che lei si guarda bene dallo sposare, con cui condivide una relazione frustrata e frustrante, sospettosa e tenuta su alla bell'e meglio nell'infelicità di entrambi –, al ristorante, per la cena di Natale. Si scambiano doni sbagliati – tipo: lei ha deciso di smettere di fumare e lui le regala un accendino – e si accingono ad assaggiare l'elegante manufatto di alta pasticceria coronato da un'unica, fiammante ciliegina, allorché a lei cade qualcosa; si china per raccoglierla e, riemergendo alla tavola, deve constatare che la ciliegina non c'è più. Distrattamente, forse soprapensiero – sopra un pensiero di cui lei evidentemente non è parte essenziale –, lui se l'è mangiata.


3. Da bambino mi era semplicemente piaciuta a sufficienza perché mi rimanesse in mente, ma rilettala poi, più volte, ha sempre finito con il commuovermi non senza innervosirmi. Parlo di quella fiaba di Andersen che si intitola Ciò che fa il babbo è sempre ben fatto. Detta alla svelta, racconta di due poveri contadini che hanno deciso che, per loro, l'unico cavallo posseduto è un lusso che non possono più permettersi. La moglie incarica dunque il marito di andare al mercato a venderlo. Parte il marito in groppa al cavallo e lungo il tragitto si fa prendere la mano da tutta una serie di catastrofici baratti: scambia il cavallo con una mucca, la mucca con una pecora, la pecora con l'oca, l'oca con la gallina e, infine, giunto a destinazione, preso da un irrefrenabile desiderio, scambia la gallina con un sacco di mele marce.
Anche il personaggio interpretato da Laura Morante si riferisce con commozione a questa favola. Le farebbe forse piacere vederle così le cose, ma in effetti non ci riesce. I panni della moglie che constata in ciò che fa il marito tutto il bene e il meglio del mondo – che qualsiasi cosa faccia è sempre ben fatto – le vanno troppo stretti. La soffocano. Per quanto si sforzi, con i maschi ha qualche problema: la loro autoreferenzialità, l'egoismo, l'incapacità culturale e politica di un minimo di attenzione nei suoi riguardi, la volgarità brutale e l'apatìa affettiva la respingono – non riesce a perdonarne la storia si potrebbe dire, e l'eredità che da questa storia volenti o nolenti è loro toccata.


4. La fiaba di Andersen meriterebbe anche un'analisi dal punto di vista dell'economia. Non è solo e semplicemente l'elogio di quella forma primitiva di scambio che sembra essere il baratto – io do a te una cosa che ti serve e tu dai a me una cosa che mi serve e siamo contenti tutti e due –, ma implica anche un processo di decapitalizzazione unilaterale. È sempre il babbo a smenarci e, per quanto possa essere amorevolmente approvato dalla moglie, è avviato ad una morte per fame o, anzi – sperando o fermo restando che non abbiano figli – a due morti per fame.
Tuttavia, nei giorni in cui scriveva questa fiaba, Andersen doveva essere di animo lieto e non ha voluto abbandonare il suo protagonista in un'osteria con un sacco di mele marce. L'amore ha da trionfare e ha da essere remunerato principescamente. All'osteria, due ricchi inglesi si fanno raccontare dal maritino la sua storia e gli predicono botte da orbi da parte della moglie non appena questi torni a casa. Ma lui li rassicura: che la moglie ne sarà felice perché lo ama e quindi baci e niente botte. I due inglesi non riescono proprio a credere che qualcuno possa esser felice dopo aver perduto il cavallo in cambio, alla finfine, di un sacco di mele marce – e scommettono: cento sterline d'oro contro le mele marce. Accompagnano il disgraziato a casa, assistono al racconto e si rendono conto che, uno dopo l'altro, la moglie giustifica allegramente tutti i baratti del marito e, quando sa delle mele marce, al culmine dell'approvazione, gli stampa un bel bacio sulla bocca. Gli inglesi constatano che i due contadini “peggio vanno le cose e più sono contenti” e, quasi con il piacere dello stupore, pagano la scommessa e li fanno ricchi. Quasi venisse anticipata di un paio di secoli l'economia dell'impalpabile, rischiando fin le mele marce, il contadino si vende una storia e il sentimento che le conferisce un senso.


5. Dicevo che il film della Morante deve il suo nome a due circostanze narrative. Ad esser poi più precisi, lo deve ad una, proprio appena accennata sul finire. D'altronde, nella prima circostanza non si parla di ciliegine ma di una ciliegina sola, al singolare. L'esperimento di “psicoanalisi ludica” – lo chiamano così i protagonisti – è andato bene, è riuscito e c'è pronto qualcuno a scriverci sopra un libro. Gli chiedono come lo intitolerà e lui, come ipotesi, butta là un “Ciliegine” – sì, potrebbe intitolarlo “Ciliegine”, usufruendo della nota metafora che vorrebbe le ciliegine sulla torta a rappresentare il coronamento di un'operazione complicata ma riuscita alla perfezione. Un caso fortunato di ingegneria socio-relazionale. Tuttavia, quando ad androfobia fugata, al trionfo dell'amore ed al felice congiungersi dei corpi segue il giusto torpore ed il sonno ristoratore, lui, girandosi nel letto, tira la coperta dalla sua parte e lei rimane scoperta. I suoi occhi sono chiusi e chiusi rimangono per alcuni secondi, ma, alla fine – proprio prima che il buio non sopraggiunga in sala, proprio a smentire ancora una volta che “tutto ciò che babbo fa” sia “sempre ben fatto” –, alla fine, lei riapre gli occhi.

Felice Accame

New York, statua di bronzo di Hans Christian
Andersen in Central Park

Nota
In una versione più sbrigativa, ho letto e interpretato questo testo nella trasmissione “Caccia all'ideologico quotidiano” di Radio Popolare, il 29 aprile 2012. L'avevo dedicato a Emilia Bruna Accame, mia madre, morta due giorni prima, il 27 aprile. Aveva compiuto cento anni nell'ottobre scorso. Il brano aveva cominciato a prendere forma prima che un male di cui so poco nulla la stroncasse, ma contiene almeno un'allusione che, ne sono certo, le sarebbe piaciuta. Per la fiaba di H. C. Andersen – di cui più volte parlai con mia madre –, cfr. Fiabe di Andersen, Einaudi, Torino 1954, pagg. 618-623. Le figure dei due “inglesi ricchi”, forse, meritano un commento. Andersen (1805-1875) va in Inghilterra due volte – nel 1847 e nel 1875. Nella prima è ben accolto e conosce Dickens di cui diventa amico; nella seconda le cose vanno molto peggio – la buona e colta società inglese lo tiene alla larga e anche l'amicizia di Dickens, che l'ha ospitato, traballa non poco. Anche lì, allora, il gruzzoletto di prestigio sociale accumulato va a svanire.