Rivista Anarchica Online


dossier Georges Brassens

Tradurre Brassens

Tavola-rotonda tra Fausto Amodei, Giangilberto Monti e Nanni Svampa
coordinata da Laila Sage e Lorenzo Valera

Il 29 e il 30 ottobre 2011, in occasione dei concerti di Nanni Svampa alla Scighera di Milano, si sono tenuti due incontri sull'arte della traduzione, a cui, oltre allo stesso Svampa, hanno partecipato Fausto Amodei e Giangilberto Monti.
Eccone alcuni stralci.

 

Svampa – Facciamo subito una prima precisazione. Rispetto alla traduzione letterale la traduzione in canzone presenta alcuni problemi tecnici: devi mantenere le stesse cadenze interne, le stesse rime, le stesse metriche, e quindi sei costretto a cercare delle soluzioni che siano credibili nella lingua in cui traduci. Se pretendi di essere letterale a tutti i costi rischi di creare qualcosa di piatto, anonimo e scolastico. Dietro a ogni canzone c'è una lingua, una cultura e delle cose che sono intraducibili. Allora un buon servizio all'autore è renderlo credibile, permettendosi delle libertà ma mantenendo intatti i contenuti. Ai tempi delle mie prime traduzioni, alcuni pensavano che fossero nate qui certe canzoni, perché percepivano la veridicità di qualcosa di autentico, credibile. Per esempio: “Nous au village aussi l'on a des beaux assassinat...” (Anche noi al paese abbiamo dei bei delitti) l'ho reso : “Nel noster piccol a Lambrà ghe n'è che moeur mazzà”. È chiaro che non ce ne frega niente che sia “il paese” piuttosto che Lambrate, l'importante è che sia credibile la rima e l'aspetto metrico.

Nanni Svampa

Amodei – Parliamo di traduzione ritmica: una traduzione per cui sull'aria di una canzone si deve cantare un testo tradotto che dia lo stesso piacere, le stesse emozioni al pubblico. E poi occorre raccontare la stessa storia, utilizzando le stesse parafrasi e le stesse perifrasi. Il primo problema che si incontra col francese è la sua economia di sillabe: se dovessimo tradurre un libro di 120 pagine dall'italiano al francese, mantenendo lo stesso corpo e lo stesso formato, perderemmo più o meno una ventina pagine. Ora, nel fare la traduzione ritmica il problema delle sillabe è grosso: le tonali devono restare tonali, i versi senari devono restare senari e le strofe di quattro sillabe devono restare di quattro sillabe. Se ci sono rime ogni tot sillabe occorre mantenerle.
Monti – Tanto più che una particolarità di Brassens è che scriveva i testi ancor prima delle musica già con una scrittura ritmica molto rigorosa. Rispettarne la cantabilità è importante...

Amodei – Certo, ma occorre fare delle scelte; c'è un racconto di Borges in cui un signore vuole disegnare una carta geografica talmente accurata che alla fine si trova a doverla fare in scala uno a uno. Per fare la mappa della terra dovrebbe farla grande come la terra. Ovviamente non è possibile: occorre decidere le priorità, alcune rinunce bisogna farle. Per esempio, “Le mauvais sujet repenti” dice:

Elle avait la taill' faite au tour,
les hanches pleines,
Et chassait l' mâle aux alentours
De la Mad'leine...

Abbiamo una strofa di 8 sillabe, poi una di 5 sillabe, poi una di 8 e un'altra di 5 con una rima alternata. Per tradurla ho dovuto fare delle strofe di tredici sillabe, otto più cinque, con la rima alla tredicesima sillaba:

Aveva il seno colmo e i fianchi a mandolino
Cacciava i maschi proprio attorno al Valentino

cioè ho dovuto rinunciare alla rima in mezzo. Piange il cuore ma non sono riuscito a fare di meglio...

I vantaggi del dialetto

Scighera – A rendere le cose ancora più complesse c'è la lingua di partenza, praticamente un francese reinventato...

Svampa: Si, lui gioca con le espressioni comuni e le ribalta, usa riferimenti letterali e li massacra. Ecco una delle difficoltà del tradurre: devi trovare i parallelismi. Se hai per le mani un modo di dire tipico francese, che per un italiano non ha alcun senso, devi riuscire a trovare un corrispettivo. È per quello che poi con Mario Mascioli abbiamo voluto pubblicare la traduzione letterale delle canzoni, per poter comunicare esattamente che cosa lui voleva dire senza il problema di renderlo cantabile.
Mi ricordo un episodio: ne “Les funerailles d'antan” dice “Les gens avaient à cœur d’mourir plus haut qu’leur cul” (volevano morire più in alto del loro culo). In francese “peter plus haut que son cul” (scorreggiare più in alto del proprio culo) è il corrispettivo dell'espressione italiana “fare il passo più lungo della gamba”. Lui fa una parodia di un'espressione intraducibile. Siamo stati lì due settimane io e Mascioli a capire come renderlo, alla fine abbiamo trovato: “volevano fare il passo più lungo della bara”. Devi trovare il modo di aggirare l'ostacolo.
In “Grand-père” ci sono i nipoti che devono seppellire il nonno, però non hanno soldi e trovano sempre questi mercanti che li mandano a quel paese e uno risponde:

"Chez l'épicier, pas d'argent, pas d'épices
Chez la belle Suzon, pas d'argent, pas de cuisse”
(Dal droghiere, niente soldi, niente spezie
Dalla bella Suzon, niente soldi, niente coscia)

“Pas d'argent, pas de cuisse” è la deformazione di una famosa frase di Carlo V, “Pas d'argent pas de Suisse” (niente soldi, niente Svizzera) riferita ai mercenari svizzeri. Probabilmente i francesi ce l’hanno nell'orecchio e capiscono il gioco di parole, ma per un italiano è assolutamente oscuro. Queste cose è impossibile tradurle, l'unica è godersele in francese. In milanese ci ho provato così:

“Dal cervelé, no grana no salsiccia,
dalla bella Susanna, niente grana niente ciccia”

però vedi che quel gioco lì si perde... alla fine ci ho rinunciato.

Amodei – anche io ci ho provato in piemontese, perdendo il gioco di parole:

“Dal bon basler, nient sold niente cotlutte,
dalla Rosina nient sold niente marchette”
Fausto Amodei

Scighera: Quali vantaggi presenta la traduzione in dialetto?

Amodei – È un po' più facile perché il piemontese, come altri dialetti, è ricco di parole tronche, cioè con l'accento sull'ultima sillaba, come il francese. Tutti i verbi all'infinito funzionano: andé, mangé ecc, come d'altra parte in milanese e in veneto. Per avere parole tronche in italiano occorre ricorrere al passato remoto, al futuro, usare i monosillabi...

Monti – Quindi anche il Dottor Svampa in milanese era avvantaggiato... anche se non è solo questione di lingua, ma anche di ambientazione: tu hai portato un mondo, Parigi, la Senna, a Milano, sui navigli...

Svampa – Già nel gruppo goliardico, a inizio anni '60, c'era stato un tentativo di traduzione, per esempio de “Le mauvais sujet repenti”, per metterlo in una commedia, da parte dei miei amici e colleghi di allora. Però cambiarono la musica e la cosa mi irritò. Poi per altri motivi il gruppo prese strade diverse. Io quando sentivo cantare Brassens capivo poco, nonostante avessi studiato francese per anni, per via della sua pronuncia, del suo modo di cantare, del suo linguaggio che in effetti era reinventato rispetto a un francese normale. Però per me, che già cominciavo a fare canzoni umoristiche e di satira, era il maestro assoluto, quello che avrei voluto essere da grande.
Ho cominciato a capire che forse con il milanese la traduzione veniva più viva, poi andando avanti trovai che queste canzoni ambientate a Milano funzionavano. Fu un'intuizione felice: torni dal militare, metti su un cabaret... son salito a cantare Brassens e non son più sceso.

Monti – Ma quando sei andato da Brassens la prima volta con le tue traduzioni, lui ha voluto vedere la trascrizione in italiano...

Svampa – Andai a incontrarlo nel '73, dopo aver pubblicato tre dischi di traduzioni. Glieli avevo mandati con la traduzione a fronte in italiano. Sapendo che aveva una madre napoletana presumevo che conoscesse l'italiano, in realtà no. Però alcuni suoi amici italo-francesi, critici, giornalisti, verificarono che il lavoro non travisasse i contenuti e lui mi scrisse una bella lettera. Poi ci incontrammo al Bobino, dove io e Lino Patruno gli facemmo sentire un po' di cose.

Giangilberto Monti

Non ci fosse stato Brassens...

Scighera – Poi, il passaggio all'italiano. Perché?

Svampa – Dopo aver passato trent'anni a tradurre Brassens in milanese cercavo una maggior diffusione, anche se è chiaro che nessuno ti fa fare queste cose in televisione o in radio. E quindi ho cominciato a sperimentare, prima ascoltando le traduzioni di Fausto e di Fabrizio in italiano. Anche perché, se negli anni del cabaret il milanese era parlato o comunque capito, piano piano si è andato perdendo e oggi rischia di diventare un'operazione di archeologia della lingua. È inutile picchiare i pugni in cielo e dire “se parla pü milanes”. Globalizzati e coi computer, non possiamo andare alla sera a parlà milanes, dopu te ve in televisiun a parlà ingles, ala mattina te gh'è de ciamà un giappones....

Amodei – E a te va ancora bene: se vieni a Torino cantare in milanese ti capiscono, il torinese fuori dal Torino non lo capisce nessuno! E comunque ormai anche a Torino è una cosa assolutamente di nicchia. Lo era anche allora, io l'ho adoperato ben sapendo che sarei stato gratificato da un piccolo pubblico, ma mi permetteva di tradurre e questo m'importava. Comunque nell'astigiano e nel cuneese ci sono ancora comunità che parlano dialetto. Ci sono anche gruppi musicali che portano avanti questa tradizione.

Svampa – Anche nel Canavese, che potrebbe essere considerato la Brianza piemontese. Solo che nel Canavese si continua a coltivare la terra, a fare il vino, mentre la Brianza è tutta cementificata. È difficile mantenere viva una tradizione quando si perde il rapporto con la terra...

Scighera – Riguardo alla scelta tra italiano o dialetto, c'è anche un criterio legato alle tematiche? Ci sono cose che rendono meglio in italiano piuttosto che in dialetto o viceversa?

Svampa – Si, certi temi in italiano rendono meglio, per esempio il filone più filosofico, penso a “Dans l'eau de la claire fontaine” (Nell'acqua della fonte chiara). Poi anche lì, come nasce l'idea di una traduzione? Becchi la frase giusta del ritornello o del primo verso, o di quello che qualifica la canzone, e su quello cominci a lavorare. Il problema è che usi l'italiano anche perchè non sei più neanche stimolato a scrivere e pensare in milanese. Ci son quelli che dicono: “ma perchè non fate le canzoni come una volta?“. Ma io ho cantato la periferia quando Lambrate era periferia, adesso la periferia è l'hinterland e quello lo cantano i rapper. È cambiato il mondo, io non pretendo niente. Faccio il testimone di un patrimonio che voglio che resti ai giovani e non solo... come il latino, come la letteratura francese.

Scighera – Fausto, all'epoca in cui Brassens cominciava ad essere conosciuto tu militavi nei Cantacronache, il gruppo che si può considerare l'inizio della canzone d'autore in Italia. Come si inserisce l'apparizione di questo autore nel percorso artistico di quell'esperienza?

Amodei – Brassens era ritenuto un'avanguardia. All'interno di Cantacronache le influenze erano varie: per Sergio Liberovici, che era un compositore “serio”, faceva musica per il balletto e per il teatro, il modello erano rappresentato da Brecht e Weil, più una forte componente di musica yiddish. Un'altra influenza, soprattutto dopo aver conosciuto Roberto Leydi, veniva dalla canzone di protesta americana, alla Woody Guthrie. Stilisticamente poi nessuno ha seguito quella via, ma l'idea di fare canzoni di protesta nacque proprio da un libro di Leydi sulle protest songs americane. Per me personalmente c'è poco da dire: il modello era Brassens. Non ci fosse stato Brassens avrei fatto l'architetto punto e basta....

Scighera – Ma con il personaggio Brassens, che avete amato, tradotto e interpretato, c'è stata anche un'identificazione dal punto di vista del percorso umano e politico?

Amodei – No, per me no. Io sono abbastanza un uomo d'ordine... certo che lo adoro anche come personaggio, non solo come poeta e come cantautore. Questo personaggio che, mandato dai tedeschi in un campo di lavoro, ottiene una licenza, ne approfitta per scappare e si rifugia all'Impasse Florimont, dove se ne sta nascosto e compone canzoni per tutti quelli che l'hanno aiutato... E dopo scrive delle canzoni che non sono assolutamente anti-tedesche... non per revisionismo, ma proprio per essere decisamente politicamente scorretto. In una situazione in cui magari sulla resistenza si stava spendendo molta retorica, immediatamente lui ci mette la sua zeppa e fa delle canzoni che dal punto di vista ideologico io non condivido assolutamente, però da un punto di vista stilistico ritengo siano dei capolavori.

Svampa – Si, c'è il rischio dell'identificazione. Però nel mio caso non ho sentito il problema più di tanto. Non mi sono identificato nel rifare lui, ma ho dato il mio contributo nel renderlo accettabile e credibile in italiano o in milanese. Questa tua funzione, che ritieni corretta, ti da una specie di tuo merito. Certo, vivi in quel mondo lì, siamo tutti un po' monomaniacali... Giangilberto forse meno perché non si è concentrato su un solo autore...

Monti – Naturalmente la scelta del repertorio è legata anche al modo con cui uno affronta l'esistenza. Non potrei cantare Aznavour, e difficilmente potrei cantare Brel. Per un lungo periodo della mia carriera sono passato più da interprete che da traduttore e cercavo qualcuno che mi somigliasse. C'è stato un periodo in cui studiavo la comicità musicale e mi sono entusiasmato per Petrolini. L'arte in realtà è proprio non copiare, ma reinventare, con l'arrangiamento o con l'interpretazione.
Ci sono delle canzoni di Boris Vian in cui racconta di personaggi folli, stralunati, per esempio la “Java des bombes atomiques” (La giava delle bombe atomiche) e io mi riconosco molto in quelli.

“Ho un armadio a casa, dove...”

Scighera – Qual è stato il tuo approccio alla traduzione?

Monti – Io ho cominciato a tradurre nel 95. Sono andato a prendere dei repertori che in Italia non si conoscevano: Boris Vian, noto soprattutto come autore de “Le déserteur” (Il disertore), la canzone più tradotta al mondo: più di 200 traduzioni e versioni. Ma Vian ha scritto 484 canzoni, oltre a romanzi e racconti. Mi sono appassionato al suo mondo. Sono partito dalla traduzione letterale, basandomi sul lavoro di Giulia Colace, una traduttrice che si è occupata soprattutto dei romanzi di Vian, e mi sono concentrato sull'adattamento ritmico, che è la parte più difficile, cioè la cantabilità. Bisogna necessariamente abbandonare delle espressioni dell'artista e cercarne delle altre. È per questo che parlo di adattamenti e non di traduzioni.

Svampa – Ma la traduzione letterale “pura” non esiste: È sempre e comunque un adattamento quello che si fa...

Monti – La mia opinione è che c'è comunque una differenza tra traduzione letterale e adattamento. Comunque, la difficoltà nel rendere Vian è che usa dei neologismi, termini completamente inventati, oltre a fare un'operazione straordinaria sulla musica: usa delle musicalità completamente diverse dagli altri, è stato il primo a utilizzare nella canzone d'autore il rock, il jazz, i ritmi latini.
Poi sono passato a Serge Gainsbourg, qualcosa di molto più vicino ai giorni nostri. Gainsbourg è conosciuto per essere una specie di porcone. Uno sente Gainsbourg e pensa: “Je t'aime moi non plus”. E invece no: scrive oltre seicento canzoni ed è l'ultimo dei grandi chanteurs.

Scighera – Svampa ci ha portato da Parigi a Milano, tu come fai a trasporre queste canzoni in un immaginario comprensibile dagli italiani?

Monti – Nonostante siano passati sessant'anni il linguaggio di Vian è assolutamente moderno. È talmente avanti che tradurre esattamente quello che dice è attuale. Invece Gainsbourg è un poeta totale, oltre a essere il padre putativo del punk, per le sue sperimentazioni musicali. Molto più difficile tradurre Ferré...

Scighera – Per concludere, sappiamo che Svampa è anche un grande collezionista di traduzioni...

Svampa: Si, ho un armadio a casa che ho ribattezzato “la fondazione Brassens”, dove ho tutto quello che mi è arrivato nel corso degli anni: traduzioni in italiano, in siciliano, in inglese, nelle lingue più disparate... in una lingua del Sudafrica, in ceco, in svedese... poi le lingue minori, il catalano il piemontese, il milanese... Una volta mi trovavo in un bar a Parigi e stavo facendo ascoltare una cassetta di traduzioni in giapponese a un'amica. Al tavolo di fianco c'erano dei giapponesi che ridevano come dei pazzi... Ancora un mese fa mi è arrivato un italiano che vive a Basilea con un disco di traduzione nel dialetto di Bassano del Grappa. Anni fa mi mandarono una cassetta dei ragazzi di Lumezzane, provincia di Brescia, dove il gorilla lo chiamano “il scimiù”....

a cura di Laila Sage e Lorenzo Valera

7 Esser pagati per cantare? Stravagante

(in occasione della festa per i 10 anni del locale parigino “Trois Baudets”)

È da almeno vent'anni che non si vedevano tanti volti celebri intorno a un tavolo, in pochi centimetri quadrati, non è vero George Brassens?
Brassens – Be' ne mancano comunque: là davanti a me vedo Brel, Yves Robert, Devos... insomma un sacco di gente che ha debuttato ai Trois Baudets. Per me è stato nel '52. E credo che anche per Brel fosse lo stesso periodo.

Visto che è difficile conversare in tanti e c'è molto rumore, vorrei che mi raccontasse lei qualche ricordo del 1952
Brassens – Eravamo degli appassionati di canzoni e non pensavamo che a quello.

Non eravate ricchi...
Brassens – Non eravamo nemmeno poveri... semplicemente ce ne fregavamo. Ci piacevano le canzoni, non ci mancava niente.

Ma avevate delle speranze?
Brassens – Be' sì speravo che le mie canzoni raggiungessero certe persone
Brel – Tutti quelli che erano ai Trois Baudets erano pazzi di gioia la sera, per cinque sei dieci minuti avevano il ruolo che sognavano di avere. Tornavano a casa e avevano mille franchi in tasca per mangiare. Era un regalo, non era dovuto. Io avevo l'impressione ogni sera, facendo le mie tre stupidate, che mi facessero un bel regalo: mi lasciavano cantare e mi davano mille franchi! Ero un uomo felice. Non era ancora un'industria.
Brassens – Credo sia questo. Noi pensavamo vagamente che avremmo potuto un giorno vivere di quel che facevamo, ma non lo facevamo per quello. E dato che c'erano persone che dovevano pagare per cantare, noi pensavamo che essere pagati per cantare fosse stravagante...


“Recuperai il triplo vinile della Durium e...”

Ho conosciuto le canzoni di Brassens durante la mia adolescenza, attraverso le traduzioni milanesi di Nanni Svampa; il papà di un mio grande amico aveva una cassetta audio di “CantaBrassens”, per me, milanese solo di nascita e completamente disavvezzo all'idioma meneghino, fu fondamentale avere vicino il mio amico di acclarate tradizioni lombarde. Fu una scoperta illuminante, canzoni ironiche, ridicole, drammatiche e tragiche, insomma canzoni “vere”; recuperai il triplo vinile della Durium con tutte le traduzioni di Svampa e mi ci immersi per un bel po'. Un altro amico “francofilo” ebbe poi la bontà di erudirmi a dovere sulle canzoni originali, che subito presi ad amare forse più delle versioni che già conoscevo.
Uno dei temi che preferisco in Brassens è quello dell'amicizia, tema che Svampa ha un po' trascurato nella scelta dei pezzi da tradurre, mi mancava un corrispettivo milanese di “les copains d'abord” o, appunto, di “au bois de mon coeur”, canzoni meravigliose che gettano una luce quasi mitica sul rapporto con i veri amici , è stato così che mi son detto: “Perché non provarci?”.
Ho scelto “au bois de mon coeur”, un pezzo che mi ha sempre intrigato armonicamente, con un testo straordinariamente icastico, ho provato a tradurlo in milanese sulle orme del Maestro Svampa, una prima stesura è stata corretta e rivista alla luce dell'incontro provvidenziale con il chiarissimo esimio professore, nonché “milaneson”, Marino Zerbin, che ha avuto la bontà di correggere le incongruenze e benedire alcune soluzioni personali, a lui, al Maestro Georges e a Nanni Svampa vanno i miei più sinceri ringraziamenti.

Fabio Wolf

Denter al mè cœur

(Georges Brassens, “Au bois de mon cœur”)
traduzione in dialetto milanese di Fabio Wolf, supervisione Marino Zerbin

In del bosch de Turr
ghe n'è an' mò de fior
ghe n'è an' mò de fior

Ghe n'è de amis
denter al mè coeur
denter al mè coeur

In la ringhera sont famos
in la ringhera sont famos
mi sont famos
per vess un grand barlafuss
un grande barlafuss

Giò là a Lambrà
ghe n'è an' mò de prà
ghe n'è an'mò de prà

Ghe n'è de amis
denter al mè coeur
denter al mè coeur

Quand in ca' mia l'è finì el vin
quand in ca' mia l'è finì el vin
l'è finì el vin
lor beven l'aqua 'me i fiolin
compagn de fiolin
In del parch de Trènn
ghe n'è an' mò de fior
ghe n'è an' mò de fior

Ghe n'è de amis
denter al mè cœur
denter al mè cœur

E me compagnen bej gioios
e me compagnen bej gioios
e tutti i volt che mi foo el spos
che mi foo el spos

In del parch Sempion
ghe n'è an' mò de fior
ghe n'è an' mò de fior
Ghe n'è de amis
denter al mè cœur
denter al mè cœur

E quand che crèppi lor stann mal
e quand che crèppi lor stann mal
e lor stann mal
E vegnen drèe al mè funeral
al mè funeral

Ghe n'è an' mò de fior
ghe n'è an' mò de fior

Denter al mè cœur
denter al mè cœur