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Stonati a Sanremo

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La mia figlia maggiore, che ha preso da me l’assenza di talento musicale e la tendenza a un approccio intellettuale all’esistenza, ieri ha chiesto a suo fratello più grande: “Ti sembro una secchiona, io?”. Non so cos’abbia risposto il fratello, però ho fondati motivi per credere che la domanda di mia figlia avesse a che fare con un aneddoto che mi ha raccontato qualche tempo fa. Nel tentativo di inserirsi nella conversazione frivola di alcune sue amiche, conversazione che verteva sulle doti, in centimetri, di un certo attore (favoleggiate al di fuori della norma), mia figlia avrebbe esclamato: “Accidenti! Allora è un Priapo!”. Ed è scoppiata a ridere.
Per 5 minuti, ha riso da sola.
Forse non tutti gli adolescenti sanno chi è Priapo e per quale scandalosa ragione lo ricordiamo.
Ora, non mi addolora che la mia figlia maggiore sia un’intellettuale stonata – anche perché la mia figlia minore è intonata per tutti e legge libri a intervalli che si misurano in ere geologiche: c’è un equilibrio, in questo mondo. Quel che mi preoccupa è che un’adolescente intellettuale come lei, specie se donna, ha molte più chance di altri di risultare una disadattata.
Io, ad esempio, ero una secchiona da manuale e una disadattata da guinness. Non avevo interessi né divertimenti nella vita. E sono sempre stata stonata. In modo irreparabile e doloroso. Da bambina, come tutti, ho provato a cantare nel coro dell’oratorio. Al mio secondo tentativo di perdermi nel gruppo, la direttrice del coro – uno scaldabagno sexy come un fiore di carciofo – ha interrotto l’esibizione e mi ha detto, davanti a tutti: “Tu, per piacere, muovi solo la bocca, perché se canti mi distrai gli altri”. Da allora, in compagnia, non ho più osato la benché minima esibizione canora. In compenso, leggevo a iosa. E volevo fare la scrittrice.
Non ci sono riuscita. Nel senso, non come Arisa, Pupo e Faletti. E, disdetta delle disdette, loro sanno pure cantare.
Di questo trio brillante, cantante e scrivente ho una profonda e radicale ammirazione. Sono anni che provo a farmi pubblicare da un grande editore, mi esercito, studio, cerco di scrivere sempre meglio. Eppure eccomi qui, sempre autrice in discesa inarrestabile, accolta a braccia aperte solo dalla mia adorata Guida Apache. Invece per la penna dei tre moschettieri dello spettacolo, nulla di più facile: romanzo autobiografico, narrazione poliziesca, western … qualunque cosa sia, sfonda la porta della letteratura aggiudicandosi il marchio di editori che di letteratura se ne intendono.
Di fronte a questo risultato, resto abbacinata, in tutto simile al personaggio dell’incipit di Pupo: “Gli occhi celesti, spenti per sempre, fissavano un angolo imprecisato della stanza. Sorpresi, delusi, estasiati.” Faccio fatica forse un po’ a provare queste tre emozioni tutte insieme, ma posso esercitarmi davanti allo specchio: sorpresa, delusa, estasiata. Forse da morta ci riuscirò meglio.
Comunque, inutile “battere intorno al cespuglio”, per dirla con Faletti, e si può anche “smettere di sentirsi falene davanti a una candela”: questa è letteratura, certificata dal numero di copie vendute, incontestabili nel caso dello scrittore Faletti, e probabilmente presto tali per i sempre nostri Pupo e Arisa. D’altro canto, le confessioni hanno il loro fascino, e di questo si tratta in entrambi i casi. Il protagonista di Pupo si confessa davanti a un prete, che ha buttato giù dal letto alle due di notte, in una Sanremo in procinto di precipitare nelle glorie del festival. Il prete, che probabilmente dorme senza smettere l’abito talare, non esita ad aprire la chiesa e confessarlo, limitandosi a un “ti ascolto, figliolo” invece di riempirlo di mazzate o, alla peggio, di garbati improperi. E si confessa Marisa, la protagonista del romanzo di Arisa davanti – o meglio di fronte, perché le volta le spalle – la sua analista Marta, munita di casa in centro, due figlie adolescenti, un marito sempre via, un cane labrador, molti libri in biblioteca e una terapia molto complessa e articolata, edificata su un unico efficace mantra: “Scrivi, Marisa. Scrivi”. E Arisa ha scritto. Mondadori ha pubblicato. Noi leggiamo.
“Sai”, mi ha detto una mia collega italianista, “dovresti guardare la cosa da questo punto di vista: c’è una speranza per tutti, mia cara. Se questi signori hanno scritto un romanzo di successo, ce la puoi fare anche tu”. E il mio amico giovane scrittore, quando gli ho detto che dovevamo un po’ abbassare il registro stilistico del romanzo che stiamo scrivendo insieme e cercare di usare il gergo degli adolescenti, ha replicato: “Cioè cominciamo a fare errori di ortografia?”
“Sì”, ho risposto io. “Però si firma con uno pseudonimo, che io faccio la prof e mi vergogno”.
Poi chi glielo dice ai miei studenti che al primo errore di ortografia si vanno a cercare un altro docente con cui fare la tesi? I professori non possono fare né tollerare errori di ortografia. Mica sono scrittori di best seller, che diamine!
“C’è una speranza per tutti”, ha ripetuto la mia collega italianista anche oggi, sollevando un indice verso il cielo e ribadendo che recensirà i romanzi dei cantanti come “nuova narrativa italiana”.
Le ho fatto un sorriso incoraggiante, come a dire: vai, è il tuo momento come cantore dei nuovi primitivi.
E poi ho pensato: e se l’anno prossimo andassi a Sanremo?

Nicoletta Vallorani