Rivista Anarchica Online



a cura di Marco Pandin

 

 

Venice rock’n’roll

Potrebbe essere un libro che, dopo aver acceso una scintilla di curiosità, scivola via indolore e si fa dimenticare con una certa fretta: alla fine sono solo –e sottolineo solo- ritratti di ragazzi con musiche varie, file under “dramma personale di poveri sbarbi” piuttosto che under “revival degli anni Settanta-Ottanta”. Roba da consumare in fretta, impegnandoci quel giusto di curiosità e di attenzione per cavarsela in poco tempo, con poca spesa. Sembra un libro così così, insomma, e invece no: leggendo si resta invischiati in certe suggestioni come quando capita tra le mani una fotografia inattesa in cui ci si riconosce lì sullo sfondo, ci si vede sì ma non ci si ricorda di cosa e di come e di chi e di quando.
Se non vi accontentate di grattare appena appena in superficie, vi sorprenderà di “Venice rock’n’roll” (ed. Fernandel, 14 euro) il ritmo lento, la velocità ridotta: in queste storie ci si cammina dentro riuscendo ad ascoltare il suono dei propri passi e il battito del cuore, il tempo – le ore, i giorni, gli anni – che prende un peso, una consistenza ed una sua prospettiva, acquista importanza, un significato. La cosa funziona meglio se si ha una certa età: è piuttosto impegnativo conservare quel minimo di credibilità spiegando a un ragazzo di oggi come si poteva sopravvivere a sedici-diciott’anni senza personal computer né mp3, senza telefonino né videogiochi. La cosa funziona ancora meglio se a Venezia ci siete già stati e vi ci siete persi, preferibilmente se vi ci siete persi apposta.
Con il grande pregio della semplicità, Paolo Ganz racconta la vita di un ragazzo di Venezia che ama la musica, e che di essa si nutre, e cresce. La città è un personaggio importante del libro (sarà difficile riconoscerla senza il travestimento ufficiale del carnevale), così come ne sono parte importante i veneziani, la gente normale, che a guardarla da così vicino è tutt’altro che normale. E c’è proprio Paolo dentro le storie: ci siamo incontrati tempo fa e poco dopo persi di vista, ed era curioso che potessimo avere così tanto in comune. Da ragazzini ci separavano i chilometri lunghissimi e tutti diritti del ponte della Libertà, io a crescere confuso in terraferma in un quartiere in crescita sregolata, lui occupato a restare a galla in una zona che avevano destinato a morte lenta. Eppure quanti sogni e quanti suoni abbiamo condiviso.
Sembra ieri. Eccolo che inizia a raccontare e quell’aria l’ho sentita subito familiare: quei pochi soldi in tasca a certificare la fratellanza coi tuoi compagni e a cementarla, quell’intreccio tra frustrazione e meraviglia per una chitarra inaccessibile dentro a una vetrina, la gioia che attanaglia lo stomaco per un vecchio amplificatore usato finalmente tutto nostro, i ragionamenti persi dietro a quelli che cantavano e suonavano dentro ai dischi. I dischi, i dischi: erano le chiavi che aprivano le porte della fantasia, oppure reliquiari da custodire come cavalieri templari. Di certo non li si trattava come banali cerchi di vinile nero da piazzare sul giradischi di Selezione (era la stessa roba velenosa che maneggiavano i nostri padri negli stabilimenti, ma nessuno ci aveva ancora fatto caso): girando, certi erano capaci di scatenare tempeste, arcobaleni, spiriti.

Paolo Ganz

Paolo racconta abilmente lo spaesamento di quegli anni lenti, le fughe timide e brevi dello sguardo verso il cielo, le chitarre di sottomarca con le corde così vecchie e dure da far gonfiare e sanguinare la punta delle dita, gli strati di strafottenza sotto a cui nascondevamo l’incertezza, l’immaginazione nucleare che ci permetteva di trasformare i fustini del detersivo in una vera batteria e una cantina umida in una sala prove attrezzata. Sono storie che sono anche un poco mie. Mi piace questo modo di raccontarsi senza imbarazzo, sapendo prendere le misure di sé stessi con calma: scegliere di non mentire è una scelta politica precisa.
Se seguite il cuore non vi sembrerà poi strano che il blues, quello che di certo conoscete, rimbalzando tra le pareti strette delle calli acquisti un riverbero nuovo, quasi un’eco troppo corta che improvvisamente esplode lanciandolo in volo a pelo d’acqua tra gli spazi orizzontali grigioazzurri della laguna.
Il libro fa ridere, fa riflettere, fa diventare tristi e spesso le tre cose accadono contemporaneamente. Le storie però restano lì sospese, non si lasciano avvicinare più di tanto, restano guardinghe a una certa distanza: a suo modo, l’autore è uno di quei gatti solitari padrone di un tratto di calle non ancora espropriato per ragioni turistiche, cugino povero e senza ali del leone ufficiale ma con la sua dignità intatta. C’è una malinconia di cui è difficile tracciare i contorni e che si incontra spesso, quasi ad ogni giro di pagina: non scambiatela per rimpianto, nostalgia, per voglia di ieri. Prendetela per nebbia, piuttosto, un effetto collaterale della nebbia che cala sulla laguna. Nebbia sempre uguale, grigia, pesante, a cui non ci si abitua mai.

Marco Pandin
stella_nera@tin.it


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