Il dato peculiare di questa crisi che attanaglia l’Occidente e segnatamente l’Europa, è la frattura, non si sa quanto definitiva, tra il tessuto sociale e lo Stato. Intendiamoci, è una frattura che è sempre esistita e che non si è mai sanata, ma, allo stato attuale della vicenda politica europea, è talmente evidente che neppure i più convinti statalisti riescono a mascherarla.
Vediamo concretamente quali sono i principali fattori che segnano il distacco tra le esigenze reali dei popoli e l’agire delle istituzioni statali, nazionali e internazionali.
Banca Centrale europea, Fondo Monetario Internazionale e Commissione Europea impongono ai governi nazionali, che ubbidiscono, di ridurre drasticamente i rispettivi debiti pubblici, promuovendo quelle misure che contraggano in tempi strettissimi il deficit rispetto ai rispettivi Pil. Nel caso specifico si impone un rientro che riduca al 3% massimo tale deficit. Come raggiungere questo risultato? È semplice: contraendo le spese, riducendo le risorse destinate ai servizi sociali e imponendo tasse dirette e indirette che colpiscano, senza alcuna progressività, la base reddituale di ogni nazione dell’area euro. 
A parere degli analisti economici meno organici ai poteri costituiti, questo obiettivo del pareggio dei bilanci nazionali è una bufala colossale, per le ragioni che cerchiamo qui di spiegare.
                  
 Ridurre in povertà la popolazione
                  Vediamo il caso Italia. Il nostro Paese ha un deficit (in 
                    aumento) di 2000 miliardi di euro, che rappresenta il 120% 
                    del suo Pil, che si attesta, quindi, a circa 1600 miliardi 
                    di euro. Questo deficit produce un debito medio annuo per 
                    interessi di circa 70 miliardi di euro, che non viene in nulla 
                    compensato dalla ricchezza prodotta, una ricchezza che la 
                    stessa Banca d’Italia valuta inesistente, anzi in recessione 
                    dell’1,5% per l’intero anno corrente e per i primi 
                    sei mesi del 1913. Con questi chiari di luna, come si può 
                    rientrare del debito? E qui si gioca la partita politica, 
                    una partita truccata perché il semplice ricorso ai 
                    tagli non può risolvere il problema. Infatti quei 70 
                    miliardi che, a regime, lo Stato dovrà pagare agli 
                    acquirenti dei suoi titoli, non essendo compensati dall’aumento 
                    del Pil, si aggiungeranno al debito complessivo, solo che, 
                    per effetto delle scadenze differite, lo Stato incassa subito 
                    l’equivalente dei titoli in scadenza rinnovati (sempre 
                    che gli acquirenti continuino ad esserci), rinviandone la 
                    copertura alle future aste, con le quali la catena di 
                    Sant’Antonio si speri non si interrompa. Se la 
                    catena si interrompesse, è istruttivo vedere quello 
                    che sta succedendo in Grecia, dove si riduce sul lastrico 
                    un’intera popolazione, imponendo impietose e drammatiche 
                    riduzioni di pensioni e di redditi da lavoro (il reddito medio 
                    da lavoro si è ridotto, in media, a 600 euro), e praticamente 
                    si cancella ogni spesa socialmente utile.
                    
Ma 
                    servirà? Pensiamo – e molti altri con noi – 
                    che ridurre in miseria la popolazione non sia una strada percorribile 
                    per uscire dalla crisi. Qualsiasi dottrina economica recita 
                    che la crescita di un aggregato è indissolubilmente 
                    collegata, direttamente, con l’aumento dei consumi, 
                    il che significa che occorre ampliare e incentivare i redditi 
                    della base produttiva. Se cresce la disoccupazione, se, come 
                    in Italia, il 13% della forza lavoro è fuori dal ciclo 
                    produttivo e una quota consistente di giovani non cerca più 
                    un lavoro, disertando persino le liste di collocamento; se 
                    non si allocano risorse, quelle poche che si potrebbe riuscire 
                    a reperire, per incentivare occupazione e la messa in circolo 
                    di una liquidità non drogata, con progetti che riguardino 
                    soprattutto le infrastrutture, di cui l’Italia è 
                    assolutamente carente, e il consolidamento del territorio, 
                    evitando, con un’oculata opera di prevenzione, i disastri 
                    ambientali che, con periodicità sempre più ricorrente, 
                    affliggono la Penisola; se tutto questo non avviene, il risanamento 
                    è solo un miraggio.
                    Il governo di Mario Monti sostiene che l’Italia non 
                    corre gli stessi pericoli della Grecia, perché i suoi 
                    fondamentali sono solidi.
                    Francamente non so di che si parli.
                  
 Il ruolo delle banche
                  Le statistiche ufficiali dicono che 4 milioni di famiglie sono sotto il livello di povertà, percepiscono, cioè, meno di 900 euro mensili, ma questa non è l’unica statistica a testimonianza della crescente povertà dei nuclei familiari che vivono di monoreddito o di redditi precari. La realtà è che la crisi corrode inesorabilmente i risparmi che nel passato, con sacrifici, queste famiglie erano riuscite ad effettuare. Il crescere tumultuoso del costo della vita, il sostegno che si deve offrire ad una popolazione giovanile che non riesce a reperire un posto di lavoro (80mila giovani espulsi dal ciclo produttivo nel 2011 ai quali va aggiunto il 30-50% della forza giovanile in cerca di una prima occupazione), offrono un panorama difficilmente modificabile con manovre che sottraggono risorse alle popolazioni. 
  Bisognerebbe rimettere in moto la macchina produttiva. E qui casca l’asino del sistema industriale decotto. 
  L’imprenditoria italiana ha da sempre investito sul fattore umano, anziché sul costante aggiornamento tecnologico. Il risultato è che l’intero apparato industriale è scarsamente competitivo. È intuitivo, infatti, che se un operaio manovra una macchina con basse capacità produttive, l’incidenza del costo-lavoro sull’unità di prodotto è maggiore di un suo omologo alla guida di una macchina che, nella medesima unità di tempo, produce di più. Da questo punto di vista, il confronto con la Germania è impietoso. Già nel 2008, all’inizio della crisi, la produzione tedesca rispetto all’anno 2000 era cresciuta del 20%, mentre quella italiana era rimasta al palo, anzi con qualche punto percentuale in meno. Nello stesso periodo, mentre le esportazioni tedesche sono cresciute del 60%, quelle italiane solo del 20%. Anche in questo caso sono prevalsi per le esportazioni italiane prodotti con alto contenuto di manodopera. In sostanza, sul fronte industriale già all’inizio della crisi noi partivamo svantaggiati e tale gap negli ultimi tre anni è andato crescendo. 
  A tutto questo si deve aggiungere il ruolo recessivo che ha avuto il sistema creditizio.
  Come è evidente, un fattore determinante della crescita è il corretto e congruo esercizio del credito. Se le banche non prestano soldi all’economia reale, il sistema collassa. Il nostro sistema bancario tradisce questa sua funzione, riducendo il suo campo operativo ad un’autoreferenzialità che, di fatto, lo emargina dal ciclo della produzione della ricchezza.
  Disponibili alle più spericolate operazioni speculative, le banche hanno finito per incamerare titoli ormai incontrattabili sui mercati, con la conseguenza di dover ricorrere a prestiti esterni gravosi e, spesso, irraggiungibili (la diffidenza reciproca ha ridotto all’osso i prestiti interbancari). E quando, invece, questi prestiti si ottengono, vengono quasi sempre impiegati per ricapitalizzare il patrimonio anziché metterli a disposizione del mercato. Ancora ultimamente la Banca Centrale Europea ha elargito ben 116 miliardi di euro che il sistema bancario italiano ha preferito lasciare in deposito alla banca erogatrice, al tasso dell’1%, piuttosto che offrirli ad un mercato interno carente di risorse da investire e disposto a pagare un tasso maggiore.
                  
 Stessa medicina, stessa sorte
                  In questo panorama desolante si inserisce il governo clerico-liberal-bocconiano di Mario Monti. 
  Intendiamoci: era lungi da chi scrive l’idea che il governo tecnico dei bocconiani potesse supplire alle macroscopiche carenze della politica, e di una politica, perdipiù, corrotta – a destra come a sinistra – dalla deriva berlusconiana. E neppure che fosse lecito sperare in una qualche forma di resistenza alle dissennate imposizioni dei vertici di Bruxelles. Ritenevamo, però, che la mannaia sui poveri sarebbe stata calata con maggiore decenza, che l’istanza esclusiva propria di un cattolicesimo integralista sarebbe stata almeno attenuata anche solo per una questione di stile. Invece niente. Il perbenismo ipocrita del doppiopetto e delle gonne sobrie ha subito svelato il volto feroce della gerarchia autoreferenziale che cita spesso il Vangelo per meglio tradirne il messaggio.
  C’è la prospettiva immediata di una stretta che ampli a dismisura il dramma dei poveri e del popolo immenso di chi alla povertà si affaccia.
  Molti credono che la querelle sull’articolo 18 sia un braccio di ferro per una partita simbolica. Invece mira a rendere più precaria la vita di chi lavora, soprattutto di coloro che miracolosamente difendono ancora i propri diritti. Se il governo dovesse averla vinta, avrebbe via libera per attuare quello sfoltimento selvaggio del pubblico impiego, che è l’obiettivo vero della modifica.
  Noi non siamo la Grecia – si proclama – ma la medicina da prescrivere è la stessa, così come la stessa è la sorte che ci attende.