Rivista Anarchica Online


(anti)psichiatria

Foucault e la follia

di Francesco Codello

L’approccio sostanzialmente anti-psichiatrico del filosofo francese è tutto teso ad analizzare la follia attraverso le varie epoche prese in considerazione. Superando una mera cronologia dei singoli eventi, Foucault scrive una genealogia della follia, contribuendo a innovare, sia metodologicamente che concettualmente, l’intera storia delle idee.

 

Michel Foucault, filosofo, storico, e molto altro ancora (senza peraltro lasciarsi ingabbiare in una disciplina particolare), ha, tra l’altro, tenuto diversi corsi al Collège de France, uno dei quali, nell’anno accademico 1973-1974, dal titolo «Il potere psichiatrico» (1). Durante queste lezioni-seminari sviluppa un’indagine storico-filosofica, ma anche letteraria, sulle modalità attraverso cui si è costituito un sapere medico sulla follia e la corrispondente nascita del manicomio. Ma già agli esordi del suo percorso di ricercatore egli aveva espresso in nuce tutte le sue formidabili intuizioni rispetto a questi temi.
Folie et déraison. Histoire de la folie à l’âge classique esprime i contenuti di una grande genealogia della follia. In questo testo pubblicato nel 1961, Foucault sviluppa una conoscenza molto più ampia, vasta e pregnante, di quanto non possa sembrare a una prima lettura, della storia della follia, nell’età che va dalla fine del medioevo alla prima metà del secolo XIX.
Superando una mera cronologia dei singoli eventi, ricostruendo il suo profilo storico e attualizzando la sua immagine, Foucault scrive una genealogia della follia, contribuendo significativamente a innovare, sia metodologicamente che concettualmente, l’intera storia delle idee.
Egli fonda il suo modello ermeneutico su un approccio multidisciplinare (scientifico, sociale, antropologico, filosofico, artistico, ecc.), attraverso una versatilità di prospettive di osservazione dei fatti indagati e una puntuale coerenza d’indagine storica. La follia diviene sia l’oggetto che il soggetto del discorso, del suo sviluppo, della sua evoluzione, attraverso le varie epoche prese in considerazione, in una storia che non parla solo di cose ma anche di fatti, ai quali non vengono attribuiti solo significati ma li si fa anche significare.
Questa storia, ci dice Foucault, è anche la nostra, poiché indaga la realtà delle nostre stesse fondamenta, una storia della ragione che si intreccia con quella della sragione e viceversa.
Proprio perché tutto questo ci appartiene, è parte di noi, i materiali vivi e le riflessioni stimolanti che Foucault mette a disposizione in questa opera, costituiscono un insieme di possibilità di indagine che non possono non stimolare anche una visitazione interiore in ciascuno di noi. D’altro canto lo stesso studioso francese, come ha ben evidenziato Mario Galzigna nell’incipit alla sua introduzione nella nuova edizione italiana dell’opera (2), teorizza la necessaria utilizzazione del pensiero altrui per esplorare se stessi e per riconoscere la validità (spendibilità) di una riflessione: «Le persone che amo, le utilizzo. Il solo segno di riconoscimento che si possa testimoniare a un pensiero […] è precisamente di utilizzarlo, di deformarlo di farlo stridere, gridare. Allora, dicano pure i commentatori se si è o non si è fedeli, ciò non ha alcun interesse» (3). Questa considerazione è parte della posizione filosofica di Foucault, l’affidare il destino di un pensiero, di un’opera (a partire dai propri lavori) all’insieme delle riutilizzazioni, delle riprese e persino degli stravolgimenti che di tutto ciò è possibile fare, in altre opere, altri pensieri, altre forme, in luoghi e tempi diversi.
La psichiatria e l’istituzione asilare, secondo il ragionamento del nostro autore, sono frutto di un’evoluzione, non sempre lineare e conseguente, ma pur tuttavia decisa, che muove da una concezione intellettualistica e approda a una visione morale della follia. In questo passaggio sostanziale di significato, noi possiamo trovare e riconoscere la storia della cultura occidentale, nelle declinazioni che, di volta in volta, i meccanismi di esclusione e di criminalizzazione, hanno assunto assoggettando ogni forma di diversità e di devianza.
Naturalmente è possibile e doveroso mettere in evidenza alcuni concetti e nuclei teorici decisamente fondamentali, che hanno caratterizzato questa storia, e che rappresentano il passaggio da una concezione della follia considerata come un errore di giudizio, un autoinganno della ragione, un sogno, a una vera e propria malattia morale (4), «malattia della civilizzazione», riprendendo il pensiero degli inizi dell’Ottocento di Jean-Étienne Dominique Esquirol (1772-1840).

Michel Foucault

La nozione di errore

Nell’introduzione all’opera in questione Mario Galzigna sottolinea, riprendendo alcune riflessioni di Jean-Paul Sartre (5), come lo sperimentatore sia parte del sistema sperimentale, che occorra costruire un’epistemologia realista che situi la conoscenza nel mondo: «che spezzi la dicotomia tra osservatore e osservato, riconoscendo il coinvolgimento del soggetto nella realtà osservata come parte costitutiva ed essenziale del processo conoscitivo» (6). In questo senso quindi l’incipit foucaultiano suggerisce come non sia possibile, come dirà Clifford Geertz (1926-2006), capire la gente senza interagire con essa dal punto di vista umano, perché la «comprensione» implica sempre «l’immersione» (7). Scrive Galzigna: «Possiamo pensarci, in ultima analisi, come soggetti costituiti (prodotti, determinati, inglobati nella realtà di conoscere) e come soggetti costituenti (produttivi, determinanti, capaci di cooperare alla costruzione della realtà che ci ingloba)» (8).
Questo filo che lega Sartre a Foucault viene individuato da Galzigna nel passaggio, per certi versi anche significativo e consistente, dalla genealogia degli anni Settanta agli scritti ultimi, a testimonianza delle straordinarie capacità critico-evolutive che il filosofo francese sviluppa nel suo itinerario culturale. Sartre e Foucault sono accomunati da una medesima difficoltà: «quella di concepire, di comprendere e di vivere gli aspetti attivi e gli aspetti passivi che definiscono il soggetto costituito e il soggetto costituente» (9). Problematiche importanti in questo quadro di ricerca teorica che vede protagonisti tra gli altri anche Cornelius Castoriadis e altri pensatori francesi, come quelli costituitesi nel gruppo della rivista Libre.
In questa dialettica tra costituito e costituente, tra costituzione e personalizzazione, Foucault innesta una «variabile anarchica – la follia – che sparapiglia i giochi della dialettica: già nella Prefazione la concepisce al tempo stesso come gesto originario e costitutivo, come esperienza-limite, come fattore imprevedibile, come livello precategoriale che rimane estraneo alla storia, ma che al tempo stesso, … la instaura e la rende possibile» (10).
Si tratta di un’esperienza-limite, di partizione tra ragione e sragione, un gesto costitutivo di rottura. Ma, ripensando la questione del soggetto, appannaggio tradizionale della fenomenologia e dell’esistenzialismo, Foucault, muovendosi dal lavoro di Georges Canguilhem (1904-1995), la situa nello spazio di una filosofia dell’errore. Nella sua opera, Il normale e il patologico del 1943, lo storico e filosofo della biologia Canguilhem, intende demolire le pretese della medicina positivistica di definire la malattia come pura differenza quantitativa rispetto a norme oggettive, radicandola invece nell’esperienza del soggetto in quanto individuo vivente. Riflettendo sulla norma e sull’errore egli contesta le tesi tuttora diffuse secondo le quali «i fenomeni patologici sono identici ai fenomeni normali corrispondenti, tranne che per variazioni quantitative» (11). Ciò che invece attrae Foucault è la ripresa del vitalismo e della sua funzione e, al contempo, la ricostruzione del processo di formazione dei concetti riguardanti la vita, così come sono espressi da Canguilhem. Scrive Foucault: «L’errore è per Canguilhem l’alea permanente attorno a cui si avvolgono la storia della vita e il divenire degli uomini. È questa nozione di errore che gli permette di legare ciò che sa della biologia e la maniera in cui ne fa la storia, senza che mai abbia voluto, come si faceva al tempo dell’evoluzionismo, dedurre questa da quella. È questa nozione che gli permette di segnare il rapporto tra vita e conoscenza della vita e di seguirvi, come un filo rosso, la presenza del valore e della norma. Questo storico della razionalità, tanto razionalista lui stesso, è un filosofo dell’errore, voglio dire che è a partire dall’errore che egli pone i problemi filosofici, diciamo più esattamente il problema della verità e della vita» (12).
Non esiste cultura senza follia, scrive Foucault nel 1961 (13), ci sono civiltà che l’hanno celebrata, altre che l’hanno esorcizzata tenendola a distanza, altre ancora che l’hanno curata. Tra i folli ci sono persone interessanti o non, come tra quelle normali: ciò che gli preme sottolineare è che «non esiste cultura senza follia, e quel che mi sono proposto di studiare è appunto il problema assolutamente generale dei rapporti che una cultura intrattiene con la follia, a partire dall’analisi di un caso preciso, vale a dire quello delle reazioni della cultura dell’età classica a un fenomeno, quello della follia, che sembrava opporsi radicalmente al razionalismo del XVII e del XVIII secolo» (14).

La nascita del manicomio

La follia dunque come lettrice della nostra cultura sembra essere una delle prospettive che il filosofo francese intraprende in questo studio archeologico pluridisciplinare (15). Il XVII secolo rappresenta per Foucault una svolta sostanziale poiché fino ad allora, fino all’età barocca, il folle ha condotto un’esistenza interamente libera. Aveva una presenza visibile di superficie nella cultura: feste dei folli, teatro dedicato ai folli, un posto significativo nella letteratura, c’era una vera e propria iconografia della follia. Hieronymus Bosch e Brueghel, tra gli altri, hanno dipinto la follia, così come il Don Chisciotte di Cervantes, ma anche in Shakespeare, ne ha narrato la tragicità, assieme a una vera e propria tradizione letteraria della follia e sulla follia, lungo tutto l’arco di tempo che arriva fino alla seconda metà del seicento. La poesia, la letteratura diventano, agli occhi di Foucault, indispensabili per comprendere l’enigma di questa dimensione non classificabile, sfuggente, dell’essere e del non essere degli uomini e delle donne. Con la nascita del manicomio, l’imporsi di una società mercantile e capitalista, l’affermarsi nella società di un modello familiare borghese, tra la fine del settecento e i primi anni dell’ottocento, il folle cessa di essere ciò che era stato considerato per essere ritenuto e classificato innanzitutto come un asociale. La scrittura cambierà, la narrazione si avvarrà di nuovi strumenti e nuove tecniche analitiche e descrittive, che troviamo ben analizzate nel lavoro di Galzigna (16) a partire dalla documentazione raccolta negli archivi dell’ex ospedale psichiatrico di San Servolo a Venezia.
Questa dimensione letteraria e artistica della follia, che esprime almeno una parte della verità di una cultura, è stata espressa da individui che erano ai limiti della follia stessa o che ne facevano un’esperienza personale profonda. Nella seconda metà dell’ottocento sarà ripresa da Nietzsche, da Raymond Roussel, da Van Gogh, da Artaud, per sottolineare nei fatti (più che nelle intenzioni) come la follia sia un fenomeno di civiltà straordinariamente importante.
Il 5 febbraio del 1960, ad Amburgo, Foucault scrive la prefazione alla prima edizione della sua storia (17), che rappresenta, a mio giudizio, una straordinaria prosa stilisticamente significativa oltre che contenutisticamente qualificata.
Per Foucault è necessario fare la storia di quella forma di follia «per mezzo della quale gli uomini, nel gesto di sovrana ragione che chiude il prossimo in manicomio, comunicano e si riconoscono attraverso il linguaggio spietato della non-follia» (18). Raggiungere una sorta di grado zero della storia della follia, quando è ancora esperienza indifferenziata e quindi esperienza non ancora scissa della scrittura stessa. Per fare questo però, continua il nostro autore, è necessario rinunciare alla comodità delle verità terminali e non lasciarsi mai guidare da quello che noi possiamo sapere della follia. Ecco perché troviamo in questa opera una quantità di fonti pluridisciplinari, ecco perché le espressioni artistiche in vario modo declinate, trovano nel ragionamento di Foucault, così ampio spazio.

Un classico dell’antipsichiatria

L’uomo moderno, dice Foucault, non comunica più col folle. Da un lato l’uomo di ragione ha delegato il medico attraverso l’universalità astratta della malattia, dall’altro c’è il folle che comunica solo l’intermediario di una ragione (altrettanto astratta) fatta di ordine, conformità, costrizione, pressione. Insomma non c’è più un linguaggio comune perché la definizione-costituzione della follia come malattia mentale, alla fine del settecento, certifica la rottura del dialogo, facendo sprofondare nell’oblio le parole «imperfette», attraverso le quali si realizzava l’incontro tra ragione e follia.
Invece, scrive Foucault, «bisognerebbe dunque tendere l’orecchio, chinarsi verso questo borbottio del mondo, cercare di scorgere tante immagini che non sono mai state poesia, tanti fantasmi che non hanno mai raggiunto i colori della veglia» (19). Egli ci ricorda come per secoli invece la parola del folle «o non era intesa, oppure, se lo era, veniva ascoltata come una parola di verità» (20).
Questo ascolto realizza il filosofo francese nella sua opera quando ricorre all’arte di Bosch, di Brueghel, al teatro di Artaud, alla letteratura di Cervantes e di Shakespeare, alla filosofia di Sade e di Nietrzsche (solo per citare alcune delle fonti), per dare voce a tutto ciò. Anche in questo aspetto sta la novità della scrittura e della ricerca archeologica intorno a questa straordinaria genealogia della follia.
Foucault subisce una vera e propria fascinazione davanti al tragico della pittura di un artista come Bosch. Ma nella sua concezione «la pittura non è disvelamento ontico, la terra non sorge nell’opera, l’opera non rivela l’essere istituito nell’ente o un’origine, ma ripete sempre più oscuramente attraverso la storia il tragico di un’esperienza del limite, del vuoto, della morte, l’opera aggroviglia i segni di questo invisibile troppo visibile» (21).
Il suo scopo è rendere conto della follia come esperienza e non come sintomo.
L’opera Storia della follia nell’età classica si presenta come una sorta di antistoria della psichiatria per poi essere considerata come un classico dell’antipsichiatria (22). Foucault rifiuta una visione da conquistatrice della psichiatria perché, a suo giudizio, la follia non costituisce, in primis, un oggetto medico ma, piuttosto, una decisione culturale complessiva, «un modo di definirsi come uomini di ragione, rigettando i folli dall’altra parte della separazione… È il contrario rispetto alla storia tradizionale della psichiatria, che fa apparire l’oggettivazione medica come liberatrice. Alla radice del nostro rapporto con la follia, c’è piuttosto un gesto di separazione, una maniera di escludere l’altro per liberarci della sua ossessione e per poterci definire all’interno di una integrità culturale determinata» (23).
In questo monumentale lavoro sulla follia Foucault ci accompagna attraverso la mutazione di significati che la malattia mentale attraversa nel corso della storia moderna e getta le basi per una ricerca a tutto campo anche nella contemporaneità (post-modernità?).
Nel Rinascimento infatti prevale, secondo il filosofo francese, un’esperienza cosmica della follia. Questa condizione di erranza fondamentale, ben evidenziata dall’opera di Bosch La nave dei folli, provoca il timore del caos, anche dietro ad apparenze regolate, la minaccia della distruzione del mondo, ogni angoscia dell’esistenza (24). Alla fine del settecento e nei primi anni dell’ottocento, l’alienista francese Philippe Pinel (1745-1826) avrebbe scoperto che i folli, considerati dei criminali, delle bestie selvagge o esseri posseduti dal demonio, erano in realtà degli malati, ed era quindi necessario trattarli con umanità e dolcezza, dentro quadri clinici via via più precisi e puntuali. In mezzo tra questi due poli storici, Foucault descrive una storia che va dal momento del grande internamento dell’Hôpital général (assieme ai vagabondi, ai blasfemi, ai libertini, ecc.), alla nascita del manicomio, che libera i folli dalle catene, ma li irrigimenta nella moderna psichiatria. Il folle dopo essere stato un personaggio inquietante, diviene un problema di natura sociale, per approdare infine alla condizione di malato.
Ad annunciare questa esperienza moderna della follia ecco, nel testo di Foucault, citata l’opera di Diderot Il nipote di Rameau, nella quale è evidente questa trasformazione: «lui che sapeva imitare tutto, i canti della natura e i contegni del bel mondo, lui che conosceva tutte le lingue e non era più nessuno a forza di essere tutti, ma lui che allo stesso tempo, alla fine della sua pagliacciata, si ritrovava solo e recluso, con un sorriso vuoto» (25). Rameau mostra questo ventaglio di possibilità andando da una soggettività completamente sguarnita a una oggettività tremolante fatta di apparenze: «Cento buffoni come me! Signor filosofo, non sono così comuni. Sì, dei buffoni banali. Si è più esigenti in materia di idiozie che in materia d’ingegno o di virtù. Io sono raro nella mia specie, sì, molto raro. Ora che non mi hanno più. Che cosa fanno? Si annoiano come cani. Io sono un sacco inesauribile di impertinenze. In ogni momento avevo una battuta che li faceva ridere fino alle lacrime; ero, per loro, un manicomio al completo» (26).
Queste tre grandi visioni della follia sono sempre, per Foucault, colte e penetrate a partire da opere artistiche e letterarie, perché non si tratta, a suo giudizio, di conoscere la follia quanto, piuttosto, di comprendere in virtù di quale esperienza questa follia sia divenuta oggetto di conoscenza. La sua Storia della follia è una requisitoria contro la razionalità scientifica che pretende di esaurire l’essere della follia.

Francesco Codello

Note

  1. Cfr.: Michel Foucault, Il potere psichiatrico, Milano, Feltrinelli, 2010.
  2. Cfr.: Michel Foucault, Storia della follia nell’età classica, trad. it. F. Ferrucci – E. Renzi – V. Vezzoli – M. Galzigna – B. Catini – D. Borca, Milano, BUR Rizzoli, 2011.
  3. Ibidem, pag. 5.
  4. Cfr.: Mario Galzigna, La malattia morale, Venezia, Marsilio, 1988. Di prossima ripubblicazione per le edizioni Mimesis.
  5. Cfr.: Jean-Paul Sartre, Critica della ragione dialettica, I, Milano, Il Saggiatore, 1963.
  6. Mario Galzigna, Introduzione, in: Michel Foucault, Storia della follia…, cit., pag. 8.
  7. Ibidem., pag. 9.
  8. Ibidem, pag. 10.
  9. Ibidem, pag. 12.
  10. Ibidem, pag. 13.
  11. Georges Canguilhem, Il normale e il patologico, Torino, Einaudi, 1998, pag. 11.
  12. Michel Foucault, La vita: l’esperienza e la scienza, in: Georges Canguilhelm, Il normale e il patologico, cit., pag. 282.
  13. Cfr.: Michel Foucault, Non esiste cultura senza follia (1961), ora in: Aut aut, n. 351 del luglio-settembre 2011, Milano, Il Saggiatore, 2011.
  14. Ibidem, pag. 7.
  15. Archeologia proprio perché si tratta infatti di scavare, di scoprire strati profondi sotto la superficie degli enunciati e delle istituzioni.
  16. Cfr.: Mario Galzigna, La malattia morale, op. cit.
  17. Grazie all’edizione del 2011 curata da Galzigna, noi oggi possiamo leggere, per la prima volta in lingua italiana, questa straordinaria prefazione che non era più comparsa nelle varie edizioni francesi.
  18. Michel Foucault, Storia della follia… , cit., pag. 41.
  19. Michel Foucault, Storia della follia… , cit., pag. 47.
  20. Id., L’ordine del discorso, Torino, Einaudi, 1972, pag. 11.
  21. Daniel Defert, L’altra scena della pittura, in: Aut-aut, cit., pag. 21.
  22. Su concetto e sulla storia dell’antipsichiatria e sulla posizione di Foucault rispetto a questo tema vedi: Michel Foucault, Storia della follia e antipsichiatria (1973), in: Aut-aut, cit. pagg. 91-107. Vedi inoltre Roland Laing, L’io diviso, Torino, Einaudi, 1969; Erving Goffman, Asylums, Torino, Einaudi, 1978; Franco Basaglia, L’istituzione negata, Torino, Einaudi, 1968; Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia, La maggioranza deviante, Torino, Einaudi, 1971; David Cooper, La morte della famiglia, Torino, Einaudi, 1972; Thomas S. Szasz, Disumanizzazione dell’uomo. Ideologia e psichiatria, Milano, Feltrinelli, 1974.
  23. Frédéric Gros, Nota sulla “Storia della follia”, in: Aut-aut, cit., pagg. 10-11.
  24. Per una lettura della follia invece nell’antichità greca, e quindi alle origini della medicina occidentale, si può leggere il bel saggio di Giulio Guidorizzi, Ai confini dell’anima. I Greci e la follia, Milano, Raffaello Cortina, 2010.
  25. Frédéric Gros, Note… , cit., pag. 15.
  26. Denis Diderot, Il nipote di Rameau, Milano, Garzanti, 2000, pag. 55.