|  
          
           
  
          
             
              |  
                  scuola 
 |   
              |  
                     Ottuso 
                    è il mondo 
                     
                      |  |   
                      | www.flickr.com/photos/gaia_d |  C’è un problema 
                    fattuale che di recente mi si è posto con sempre maggiore 
                    urgenza. Il problema fattuale è il seguente: com’è 
                    possibile, in un contesto di insegnamento/apprendimento, impartire 
                    delle cognizioni che non si hanno? È una richiesta 
                    quasi contro natura, come pretendere che Caino insegni l’amore 
                    fraterno.
                   Esempio N° 1: non molti anni fa, quando 
                    ai maestri elementari è stato imposto di insegnare 
                    inglese, molti di questi maestri con la lingua angla non avevano 
                    mai avuto nulla a che fare, se non nelle interpretazioni apocrife 
                    di Totò, Alberto Sordi e Bob Dylan o i Jefferson Airplane. 
                    I più avanzati conoscevano anche alcune canzoni di 
                    Janis Joplin, chiaramente non riciclabili come filastrocche 
                    per bambini. Siccome è noto che l’inglese è 
                    una lingua facilissima e chiunque può impararla (e 
                    laurearsi in lingue, come ho fatto io), ai maestri in questione 
                    sono state impartite le ore di addestramento linguistico che 
                    si ritenevano necessarie: dalle 6 alle 8, con punte addirittura 
                    di 10, per i soggetti particolarmente volenterosi. Dopo di 
                    che, via in classe, a insegnare le gioie della Britannia!
 Esempio N° 2: mi sono laureata a 21 anni col massimo 
                    dei voti e quasi senza sapere cosa fosse il mondo. O meglio: 
                    il mondo l’avevo girato abbastanza, ma non avevo idea 
                    di come si pagasse una bolletta e di che ingredienti ci volessero 
                    per cucinare una torta. Quando feci domanda di supplenza – 
                    ed erano tempi molto diversi – mi convocarono all’istante, 
                    dalle Marche all’operosa Padania, per affidarmi – 
                    tra le altre – una classe quinta di un istituto per 
                    periti aziendali, dove le studentesse avevano appena un paio 
                    d’anni meno di me. Parlavo un inglese oxfordiano, conoscevo 
                    la letteratura britannica e americana, e avrei potuto fare 
                    una sfavillante figura in un liceo scientifico discretamente 
                    quotato. Invece lì dovevo insegnare come gestire, in 
                    inglese, una transazione commerciale, documenti amministrativi, 
                    lettere contrattuali e quant’altro. Insegnavo cioè 
                    a fare in una lingua straniera alcune operazioni che non avevo 
                    idea di cosa fossero in italiano. Ricordo di aver camminato 
                    sul filo del disastro per numerosi mesi. E credo di essermi 
                    resa responsabile, in anni successi e per mano delle mie allieve 
                    di allora, poi diplomate, di alcuni disastrosi scambi di missive 
                    commerciali che mancavano completamente l’oggetto del 
                    contratto, ma lo facevano in un inglese molto forbito e ineccepibile. 
                    Ho consumato in scuole di questo tipo qualcosa come 8 anni 
                    della mia vita professionale di insegnante di scuola superiore, 
                    senza avere la minima idea di cosa stessi insegnando, nella 
                    sostanza. Toccai il fondo quando in una quinta di Istituto 
                    Professionale per l’industria e l’artigianato, 
                    mi ritrovai a parlare in inglese di attrezzi metallurgici. 
                    È stato allora che ho scoperto l’esistenza della 
                    brugola.
 Esempio N° 3: ho cominciato a lavorare all’università, 
                    come contrattista e con la funzione di siliconare le falle 
                    del sistema accademico, dopo un dottorato in Letteratura Inglese, 
                    su un autore inglese dell’800. Il primo contratto che 
                    ho avuto in università supportava un corso sul Romanticismo 
                    inglese. Di seguito, prima di diventare ricercatrice, ho insegnato 
                    ogni genere di cosa, studiando (perché sono persona 
                    coscienziosa), e chiedendomi perché quello che sapevo 
                    io lo facessero insegnare ad altri (che probabilmente erano 
                    molto esperti in quello che stavo insegnando io). Poi ho vinto 
                    un concorso come ricercatrice. Oltre a non fare nessuna ricerca 
                    (perché avevo troppa didattica) insegnavo Lingua Inglese, 
                    che a esser rigorosi non è troppo lontano dall’insegnamento 
                    di Letteratura Inglese. Facevo un numero esagerato di ore 
                    a un numero esagerato di studenti. E mi toccava gestire creature 
                    denominate “esercitatori madrelingua”, che sono 
                    una forma di vita complessa, sulla quale mi soffermerò 
                    in altra sede. Oggi, dopo numerosi anni di insegnamento in 
                    università, mi trovo a costatare dolorosamente che 
                    un mio collega anglista tiene corsi di letteratura angloamericana 
                    e un altro mio collega americanista, nella stessa sede, tiene 
                    corsi di Letteratura Inglese. Perché? Non so dirlo. 
                    Per quel che mi concerne, con la gavetta che ho fatto, oggi 
                    posso tenere senza problemi un corso di chimica o, che so, 
                    disegno tecnico per l’illustrazione dei tessuti, purché 
                    sia in inglese. Non è significativa la sostanza di 
                    quello che fai, ma solo la patina formale di cui lo rivesti 
                    E come ci hanno insegnato la vita politica e quella pseudo 
                    culturale in anni recenti, l’importante è figurare: 
                    che poi sia per il bene o per il male, questo non conta.
 Un mio collega attuale, in posizione di responsabilità 
                    e slavista, è interdetto dalla crescente pressione 
                    perché l’università eroghi corsi in lingua 
                    inglese. Dopo le ultime, complesse comunicazioni dell’ateneo 
                    a riguardo, lui mi ha confessato di non aver assolutamente 
                    capito una cippa di quello che venga richiesto a noi docenti. 
                    Gli ho rivelato che anch’io navigo nella nebbia. Allora 
                    lui si è rasserenato. “Bene”, ha detto. 
                    “Almeno siamo in due: non tanti per un’associazione 
                    a delinquere, ma un discreto numero per pensare ad aprire 
                    un club (parola in inglese e quindi ben vista per l’internazionalizzazione)”. 
                    Per parte mia, gli ho raccomandato di non andare a dire troppo 
                    in giro che vogliamo formare un club: potrebbero chiederci 
                    di preparare un leaflet, una brochure, un entry package in 
                    ragione del quale spiegare la nostra mission e forse assumere 
                    dei procacciatori di soci. Preferibilmente di lingua straniera 
                    e per noi incomprensibile. Lui ci ha pensato e poi ha concluso: 
                    “Sai, non mi va di fare ostruzionismo perché 
                    non vorrei sembrare ottuso”.Io: “Non sembri affatto ottuso. Ottuso è il mondo. 
                    Però se vuoi posso dirtelo in inglese, che ci sembrerà 
                    a tutti più chiaro”.
  Nicoletta Vallorani
 |          
  
       |