Rivista Anarchica Online


in direzione ostinata e contraria

Mi sento zingaro e compositore

Intervista a Piero Milesi di Renzo Sabatini

Nel 2007 il musicista Piero Milesi viene intervistato da una radio in italiano che “copre” l’Australia. A dialogare con lui è un nostro collaboratore, che allora viveva là.
Con Piero si parla soprattutto di Fabrizio De André, con il quale Milesi aveva lavorato per realizzare Anime Salve.

 

Prima di parlare di De André vorrei presentarti al pubblico di Rete Italia. Nato nel 53 a Milano, hai studiato violoncello ma anche composizione sperimentale ed elettronica e poi architettura. Alle spalle una lunga carriera come compositore in molti ambiti ma anche come esecutore di installazioni sonore. Chi è Piero Milesi?Quale parte della tua produzione ti definisce meglio?

Quello che posso dire è che il fatto di aver avuto a che fare con attività in fondo molto diverse è stata per me sia una fortuna che una sfortuna. Sfortuna nel senso che poi è anche più difficile gestire, sia a livello professionale che artistico, una variegata possibilità di interventi. La fortuna invece è che anzitutto non mi annoio e secondo che mi rimanda sempre a vedere le cose da prospettive diverse. Questo perche, ovviamente, gli interlocutori, le committenze, sono diverse. Quindi non saprei dire con quale ambito posso identificarmi meglio. Le installazioni sonore sono nate un po’ per caso… probabilmente lì hanno inciso i miei studi di architettura. Riuscire a lavorare in grandi spazi è una cosa che col tempo ho raffinato e messo a punto e mi ha dato la possibilità di affrontare la musica, indipendentemente da quello che la musica ha in sé stessa, ma anche condizionata da dove la musica viene rappresentata. E questo è un fenomeno che era molto sviluppato in Italia, soprattutto a Milano, negli anni 80. Adesso è un po’ andato nel dimenticatoio. E poi l’aspetto più direttamente musicale: pur avendo un background di studi classici, questa cosa mi ha permesso di essere piuttosto “eretico” in questo senso, per cui i miei interventi musicali si sono rivolti anche alla musica cosiddetta “leggera”, e le virgolette le metto due volte, perché in certi casi la musica leggera può essere più intelligente rispetto a certa musica cosiddetta colta, che però è tutt’altro che intelligente!

Piero Milesi

Nel 1990 arrangiamenti e direzione d’orchestra per “Le nuvole”, nel 1996 “Anime salve” anche come co-produttore e poi la produzione della tournée del 1997 nei palasport. Com’è accaduto che hai cominciato a lavorare anche con Fabrizio De André?

Con Fabrizio è nato perché sono stato convocato da Mauro Pagani, che era il produttore de “Le Nuvole”. Io Mauro lo conoscevo già dai tempi non sospetti, da quando lavoravo ancora insieme con Moni Ovadia e facevamo già musica chiamiamola così “etnica”, la “World Music” degli anni settanta. Noi c’eravamo già! Poi è esploso il fenomeno negli anni Ottanta. Mauro è venuto a lavorare con noi, è stato convocato in un mio disco dove lavoravo per una scrittura d’orchestra. Lui è stato chiamato in qualità di violinista. Lui poi mi ha convocato per “Le Nuvole”, per arrangiare due pezzi da orchestra sinfonica, cosa che ho fatto di buon grado ed è stato un lavoro, direi, anche piuttosto semplice, lineare. Lì ho avuto modo di conoscere Fabrizio.
Fabrizio evidentemente non si era dimenticato di me e nel 1995, quando era ancora nella fase di pre-produzione di “Anime salve”, mi aveva convocato per la scrittura degli archi. Allora, forse lo sapete, si pensava che il disco sarebbe uscito con il doppio nome: “Fabrizio de André e Ivano Fossati”, perché tra l’altro Fossati è coautore delle canzoni. Poi lì, per vari sviluppi, che non sto ad approfondire ora più di tanto, mi sono trovato ad arrangiare tutto l’album. Fabrizio me lo aveva chiesto, prima mi aveva messo un po’ alla prova, chiedendomi di arrangiare un paio di pezzi e mi sono trovato anche ad essere co-produttore dell’album. E li è cominciata questa via crucis, chiamiamola così, insieme a Fabrizio, però che ha portato a un disco che, insomma, più o meno tutti conoscono, perlomeno tutti gli amanti di De André!

Nel filmato “Faber” di Bigoni e Giuffrida c’è una tua breve apparizione dove sottolinei due aspetti della personalità di De André. Uno di questi è la sua capacità di ascolto e profonda comprensione degli altri. Tu dicevi che è una qualità rara in tempi in cui tutti parlano e nessuno ha voglia di ascoltare. Questa capacità di ascolto verso chi era rivolta e come si manifestava?

Mi fa piacere che me l’hai fatto ricordare, perché mi ero dimenticato di averlo detto. Questa sua capacità di ascolto è verissima: Fabrizio era molto empatico con il suo circostante e con le persone con cui aveva a che fare riusciva sempre a innescare un rapporto molto profondo, non solo un rapporto positivo, ovviamente, anche negativo, perché Fabrizio non aveva un carattere accomodante, tutt’altro. Però era il suo modo di cercare di capire le persone, di cercare di coglierle, in qualche modo di radiografarle… non so.. solo il fatto che si divertiva a dare soprannomi a tutti, fin dall’inizio. Soprannomi tra l’altro estremamente appropriati ed azzeccati, molto simpatici, ovviamente, ecco: questo era un suo modo di inquadrare, definire le persone. Ma questo con tutte le persone, a tutti i livelli, dall’amico antico al collaboratore occasionale oppure, come nel mio caso, al collaboratore con cui condivideva alla fine una parte della sua vita piuttosto lunga. Questo lo vedevo… questa sua perenne curiosità nel cercare di capire… riusciva a capire addirittura le sfumature di una persona, i pensieri più reconditi… e anche nei momenti di difficoltà, purtroppo a Fabrizio non gliela si faceva! Perché in questo senso era più forte: conosceva di più l’altra persona. E questo era un aspetto che non permetteva mai di… mi vien voglia di dire che non permetteva di barare, però è un termine sbagliato. Diciamo che non permetteva mai di farla franca su qualsiasi questione.
Il lato positivo era che alla fine il rapporto, pur essendo estremamente conflittuale, come è stato nel mio caso ma anche di altri suoi collaboratori che mi hanno preceduto, era comunque un rapporto molto onesto. Onesto perché evitava gli arzigogoli devianti dalle verità.

Milano 1996 - Piero Milesi durante la realizzazione di
Khorakhanè

Mettere in musica il dolore universale

… Ci puoi allora rivelare qual era il tuo di soprannome?

…beh, in realtà me ne aveva dati tantissimi! All’inizio ero Geppetto, perché avevo i capelli bianchi. Questo qui, vabbé, era il più facile. Poi “Tentenna”, perché musicalmente sono, così, un “caga dubbi”, peggio di Fabrizio, per cui ogni tanto ci preoccupavamo a vicenda perché nella nostra estrema ricerca della perfezione a volte da certe situazioni, anche banali, facevamo molta fatica ad uscire. Infatti Fabrizio in queste occasioni diceva: “Belìn, proprio da qui non ne usciamo più, andiamo bene, siamo a posto!” e probabilmente Fabrizio aveva bisogno, proprio lo richiedeva, di una figura come un sergente, un personaggio spiccio che in quattro e quattr’otto risolvesse le situazioni più delicate. Comunque ce l’abbiamo fatta, riuscendo sempre con lui a valutare, nota per nota, tutto lo sviluppo della costruzione di questo album. Poi me ne aveva dati altri di soprannomi però… beh, uno non lo dico, quello gli usciva nei momenti di cattiveria, quindi non lo dico!

È coperto dalla privacy! Hai appena sottolineato che avete lavorato: “nota per nota” e questo introduce l’altro aspetto che sottolineavi in quella tua testimonianza, che è più legato all’aspetto professionale. Mi riferisco al fatto che De André fosse uno che cercava di raggiungere livelli alti di perfezione nel suo lavoro e quindi, per usare le tue parole, “tormentava” i suoi collaboratori. In che modo vi tormentava?

Sì, nello stesso tempo penso di aver detto che, allo stesso modo, tormentava anche se stesso. Il fatto è che Fabrizio era una persona tormentata. Lui cercava sempre di raggiungere un livello estremamente alto, questo probabilmente anche per appagare, giustamente, la sua vanità, ma anche, soprattutto, per poter veicolare meglio dei messaggi che lui riteneva opportuno di lanciare. L’aspetto musicale, quindi un aspetto estetico, retorico, aiutava ovviamente la comunicazione di quello che lui voleva dire. Tormentava nel senso che molte cose lui non sapeva come dovevano essere. Lui diceva magari che delle cose dovevano essere bellissime, però senza sapere come arrivarci. Allora è difficile, specialmente quando si parla di musica. È difficile traslare dei sentimenti in note musicali. Anche perché lì interviene l’aspetto culturale, che è estremamente soggettivo, per cui un dato suono o una data sequenza di note per me potrebbe avere un significato emotivo di un certo tipo e magari per te ce n’ha un altro e in quel senso la comunicazione verbale diventava ardua. Però c’è una cosa che mi aveva molto stupito di Fabrizio: ricordo di un brano sul quale avevo riflettuto tutta la notte per capire come affrontarlo. A un certo punto decido di chiamare Fabrizio per chiedere soccorso a lui e ho chiesto a Fabrizio come lui se lo immaginasse, come lui se lo aspettasse, questo brano. Anche perché andava a toccare un momento importante dell’album. In pratica si doveva cercare di capire come mettere in musica il dolore universale! Ho chiesto aiuto a Fabrizio e mi aspettavo da lui una risposta molto ben articolata e molto ben motivata, come Fabrizio sapeva fare: era la sua specialità questa. E lui, un po’ spiazzandomi, a un certo punto mi dice: “Piero, deve essere bello!”. Ed è finita lì. Al momento mi sono detto: “beh, grazie tante, questo lo so anche io!”. Però è come se con questo mi avesse provocato una piccola illuminazione, nel senso che a questo punto sapevo che la responsabilità era tutta mia e in quel senso mi sono anche auto incoraggiato. Ho avuto da lui un incoraggiamento che mi ha innescato un auto incoraggiamento. E difatti da lì mi è arrivata l’idea che ha funzionato. Per cui la comunicazione con lui era spesse volte molto spiazzante, probabilmente anche perché a lui piaceva essere sempre fuori dalle righe. Però il discorso andava sempre su dei temi molto alti e questo voleva dire andare sempre a cercare in sé stessi le parti più profonde e riuscire a tradurle in musica, evidentemente nel modo migliore. Però che fatica!

A quale pezzo ti riferivi?

Era Disamistade, che fra l’altro, sia per me che per Fabrizio, è il pezzo che abbiamo preferito. Però questo ce lo siamo detti ad album già uscito. Erano i due brani strumentali, uno a metà e l’altro che è la coda strumentale. Disamistade l’abbiamo amata entrambi, su questo, dopo, perché l’amore per quello che abbiamo fatto l’abbiamo manifestato soltanto dopo, perché durante il viaggio, in realtà, si navigava fra i perigli. Questo brano c’è piaciuto moltissimo perché nella sua semplicità… sono quattro accordi, se vogliamo, tipicamente “deandreiani”… però siamo riusciti, musicalmente, a dargli, almeno così pensavamo noi, dargli una veste molto contemporanea. Contemporanea forse è anche un termine sbagliato, nel senso che lo limita a un tempo. Diciamo che siamo riusciti a dargli una veste così anacronistica che poteva essere contemporanea, ecco, mettiamola così.

Ci siamo chiusi in casa senza vedere nessuno

Realizzare un CD o mettere assieme una tournée non è come scrivere un libro. L’artista in questi casi deve rapportarsi con molte altre persone e il prodotto finale è il frutto di un lavoro di gruppo. De André come sceglieva di volta in volta i suoi collaboratori? Per esempio tu entri in scena come arrangiatore solo in una certa fase.

Non so come scegliesse i suoi collaboratori, però so che Fabrizio difendeva il nostro operato in modo egregio. Perciò in due siamo riusciti a fare l’album quasi come se fosse un libro. Nel senso che sia la casa discografica che le pressioni dall’esterno, come l’informazione e quant’altro, lui riusciva a tenerli a bada. Per cui tutta la pre-produzione di questo lavoro l’abbiamo portata avanti io e lui, e tutto quello che abbiamo fatto lo abbiamo ascoltato solamente io, lui e Dori Ghezzi. Lui è riuscito a proteggere questo lavoro. Perché altrimenti se avessero iniziato i discografici a dire: “no qui faremmo così” oppure: “qua questa cosa c’è il rischio che non venda”, e così via, questa cosa sarebbe stata l’inizio della fine. Invece i musicisti che poi sono intervenuti lavoravano su cose che erano non solo state scritte ma anche estremamente valutate nel dettaglio, precedentemente da me e Fabrizio. Qualcosa ovviamente, lungo la strada, è cambiato. Perché, per esempio, nel caso delle percussioni di Naco, certe proposte fatte da lui, lì per lì, io e Fabrizio le abbiamo ben accolte. Però in sostanza tutto il lavoro di pre-produzione, che è durato sei sette mesi e si è svolto a casa mia, è stato molto intenso.
Ci siamo chiusi in casa per tutto questo tempo senza vedere nessuno. È stato un po’ come fare con lui un viaggio in barca, al di fuori c’era il nulla e nella barca c’eravamo solamente noi. Questo nel bene, per la produzione dell’album e a volte anche nel male, fra di noi, per il nostro rapporto, anche perché sembra che sia normale, se due persone fanno un viaggio in barca di sei sette mesi… sarebbe anormale se di tanto in tanto non si andasse a litigare anche in modo pesante.

Ecco questo viaggio in barca, questa frequentazione molto intensa porta anche, come dicevi adesso, a dei momenti di conflitto. In linea generale il rapporto umano che si stabiliva con Fabrizio lavorandoci assieme come lo definiresti?

Estremamente conflittuale! Del resto la creatività non è altro che il frutto di un conflitto, questo in tutti i sensi anche se magari poi si potrebbe discutere sulla parola “conflitto”. Comunque conflittuale non solo per i momenti di confronto in cui ci si dice: “io la penso così, tu la vedi colà”. Lì intervengono anche gli ego. Allora uno difende non tanto la propria idea musicale, in quel momento, ma difende se stesso, difende il suo pensiero rispetto al mondo e questa cosa era inevitabile in un lavoro di questo tipo. In un lavoro più sulle righe, più leggero, su certe cose si sarebbe, ovviamente, passati sopra. Potrei definirlo così: intensamente e meravigliosamente conflittuale. Poi naturalmente ci sono stati anche momenti di grande divertimento, di lasciarsi andare, dire grandi stupidaggini, farsi le battute stupide, prendersi in giro in modo bonario, o lasciarsi andare anche a confidenze estremamente private. Anche se il disco incombeva sempre su di noi. Guarda, mi fai venire in mente una cosa. Finito il disco io ricordo che, proprio in occasione della presentazione dell’album, al ristorante, ho detto: “Fabrizio tu, veramente, proprio mi hai tormentato all’inverosimile!”. E lui: “Ma, Piero, certo! Io volevo che tu mantenessi sempre alta la tensione”. Perbacco, infatti l’ho mantenuta la tensione! Per cui lui aveva proprio un ragionamento logico, una strategia, proprio da Machiavelli. Però su una cosa, alla fine, eravamo veramente d’accordo: che non doveva vincere né Fabrizio De André né Piero Milesi. Doveva vincere l’arte. Doveva vincere il disco. Questa cosa ci ha permesso di andare avanti. Io non nascondo che in più di un momento ho pensato, veramente, di declinare il mio impegno e rinunciare alla produzione. Meno male che, così, anche inconsciamente, sono andato avanti.

Visto il mistero che aleggiava all’inizio sulla sua persona e visti i testi di certe canzoni, per anni si è pensato a un De André chiuso nella sua figura di poeta maledetto, scontroso e musone. Ma era questa davvero la sua personalità?

No, non è vero, perché un conto è l’immagine che lui dava di sé… sai, come capita a tutti noi personaggi pubblici, a volte si rimane come ingabbiati nell’immagine che si è deciso di dare di sé stessi. Però Fabrizio, anzitutto non era un omologato, questo è vero. Lui quello che odiava erano gli stereotipi. Che c’è anche il pericolo che adesso si faccia un po’ l’icona, l’immaginetta di Fabrizio e si stia stereotipizzando, a sua volta, l’immagine di Fabrizio De André. E questa cosa qui lo so già che gli darebbe un enorme fastidio, perché tutta la vita di Fabrizio è stata mirata a sgretolare i miti, a smantellare le sicurezze e le certezze, a detestare ciò che era omologato. La legge del branco, per intenderci. E c’è il rischio che adesso, su di lui, venga fuori questa cosa qua. Poi quella del poeta maledetto diventa un’espressione, direi, un po’ romantica che potrebbe far comodo anche ai media e ai giornalisti per scriverne. Io capisco naturalmente l’aspetto editoriale per cui certe terminologie incuriosiscono il lettore. Però Fabrizio era veramente una persona a trecentosessanta gradi e anche negli aspetti, così, bonari, o quando parlavamo di calcio e siamo andati anche allo stadio assieme, potrei raccontare delle sue manie di segnarsi nei taccuini le partite, come fanno i bambini, lui ha continuato a farlo, dando i voti ai calciatori! Uno magari rimane spiazzato quando sente queste cose. Come? Fabrizio de André che da i voti ai calciatori e si tiene il calendario delle partite dell’annata? Ma certamente anche questo fa parte del Fabrizio De André uomo e artista. Io mi stupirei del contrario. Sennò rischia di essere un politico, nella sua accezione peggiore, dove il controllo di se stesso è portato sempre agli estremi eccessi. Fabrizio tutt’altro. Anzi! Molte volte lui non si controllava.

… anche tu sei tifoso del Genoa?

No! Io son milanista! Siamo andati a vedere Milan-Genoa, me lo ricordo. Zero a zero, una partita orribile! Adesso però sono abbastanza genoano perché sto vivendo in Liguria. Sono anche un po’ genoano per quieto vivere… diciamo così!

Non il personaggio ma la sua caricatura

Hai accennato a quello che è successo dopo la morte di De André: gran produzione di libri, artisti che ricantano le sue canzoni a volte in maniera discutibile, sindaci che dedicano vie e piazze… tu come la vedi questa profusione di tributi post mortem?

Mah… non lo so. Da una parte sono estremamente contento perché i semi che Fabrizio aveva lanciato stanno germogliando da soli, senza bisogno di concimarli più di tanto. Ormai sono semi potenti che stanno venendo su da tutte le parti. Fabrizio evidentemente è andato a toccare, con le sue canzoni, certi argomenti che nel più profondo molte persone avevano già intuito ma che, probabilmente, molti non avevano il coraggio di esternare e Fabrizio l’ha fatto per loro, per noi. Per cui il fatto che il fenomeno (perché ormai è diventato un fenomeno) Fabrizio De André si sia sviluppato in questo modo è senz’altro positivo, soprattutto vedendolo anche all’estero. Io lo vedo, anche in questa intervista che stiamo facendo.
Purtroppo noi italiani all’estero siamo identificati ormai come “spaghetti-Paolo Rossi-Sofia Loren”, più o meno. E questo è ovviamente molto frustrante per noi. Allora il fatto che, specialmente anche nelle comunità straniere, il messaggio di Fabrizio sia così preso in considerazione, altro non è che il superamento dell’immagine che gli italiani hanno del proprio paese, standone fuori. E questo qui è l’aspetto estremamente importante e bello. Poi c’è l’aspetto un po’, diciamo così, esteticistico, che mi disturba un pochino.
Ogni tanto mi chiamano a certe manifestazioni come testimone di colui che ha lavorato con Fabrizio De André (cosa che peraltro adesso sto cercando di evitare di fare) e c’è un po’ questo aspetto del: “io tocco te, quindi tocco lui” e questa cosa mi frustra un pochino, mi fa venire in mente un po’… hai presente il film “Buffalo Bill e gli indiani” di Altman, dove alla fine quello che rimane non è il personaggio ma la sua caricatura? Ecco, questo potrebbe essere il pericolo. Però, pensando sempre che a Fabrizio, in questo senso, il suo essere famoso non gli sarebbe piaciuto, io questo aspetto cerco sempre di evitarlo.

Comunque quelli che hanno scritto i libri e fatto i dischi quasi mai sono persone come te che hanno lavorato assieme a De André. Come mai, per una sorta di riservatezza, di pudore?

Secondo me sono questioni di business. Nel mercato il fenomeno De André è un fenomeno che tira. Fare una biografia su De André ormai, con l’informatica, con il copia/incolla, è una cosa facilissima. Ogni editore, grande o piccolo, ormai deve fare il suo libro su De André, perché comunque se ne vendono tanti. E questo qui non è molto bello, perché poi la maggior parte dei libri che vengono fuori non sono altro che riedizioni di quello che già era stato letto. Ecco, quello lì è proprio l’aspetto omologante dove poi, veramente, si rischia di fare l’immaginetta di Fabrizio. Questo qui è un fenomeno assolutamente da combattere. Una questione è l’intervista o l’incontro di approfondimento Un altro conto è… spiattello una bella foto, faccio il festival di Fabrizio De André perché so che almeno la gente ci arriva…anzi, peggio ancora! Faccio il festival su Fabrizio De André perché so che le amministrazioni mi danno il finanziamento! Per cui in pratica c’è anche una giustificazione culturale sull’operazione.
Poi c’è una pletora di “cover band” che girano per tutta l’Italia… benissimo, buon per loro! Però ogni tanto mi piacerebbe sentire anche qualche canzone di Fabrizio, completamente stravolta e riarrangiata. Adesso per la verità c’è anche chi inizia a farlo così e lo preferisco piuttosto che sentirmi la fotocopia, spesse volte fatta male, di quello che Fabrizio aveva già fatto. Anzi spesse volte mi coinvolgono anche in situazioni del genere e io non nego di trovarmi in notevole imbarazzo.

Al di là del lavoro che hai fatto per Le Nuvole e Anime Salve, del resto della produzione artistica di De André c’è qualcosa che ti importa in maniera particolare? Che ti piace e ti emoziona più di altre o che ti sembra più importante?

Si, è “La buona novella”. Ti dirò, di Fabrizio, prima di lavorare con lui sapevo poco o niente, anche perché della musica cosiddetta leggera, o dei cantautori, sapevo poco perché i miei studi erano classici per cui ascoltavo molto Beethoven, Stravinskij e Bach. Avevo però ascoltato un po’ di Fabrizio de André di sponda, perché avevo un fratello che comprava i suoi dischi. Per cui dall’altra stanza sentivo le sue canzoni e ricordo che La buona novella, allora, mi aveva veramente trapassato. Mi aveva veramente colpito. Tanto è vero che poi, dopo l’ultima produzione live di Fabrizio, si parlava con lui di recuperare La Buona Novella, perché è una tematica, veramente che, a dire attuale mi sembra anche di limitarla un po’. Però è attuale perché è veramente fuori dal tempo. Specialmente in un periodo come questo dove i Vangeli sono stati così abusati. Adesso non voglio dire cose pesanti sul sistema religioso in Italia, però un album come La buona novella è un certo modo di rimettere i puntini sulle i, rispetto a certe questioni estremamente delicate. E difatti Fabrizio l’ha ripresa, da ultimo, ne presentava alcuni brani nell’ultima tournée, fra l’altro uno glielo avevo riarrangiato io. Poi, a parte La Buona Novella, ci sono alcune canzoni qua e là che mi piacciono, forse quelle più o meno note per tutti. Comunque la cosa interessante di Fabrizio è che, se andiamo a vedere, non è che lui ha avuto un’attività estremamente prolifica come numero di canzoni. Non sono tantissime. Però una cosa è certa: quasi tutte le canzoni di Fabrizio sono state importanti. Se noi guardiamo ad altri autori del passato, per esempio Modugno, vediamo che hanno scritto tantissime canzoni, però alla fine sono stati identificati in alcune canzoni, le canzoni che conosciamo di questi autori alla fine sono quattro o cinque. Invece chi segue Fabrizio De André, al di là di Bocca di Rosa, Marinella e La guerra di Piero, ne conosce molte di più. Diciamo che ci sono almeno una quarantina di sue canzoni che ci accompagnano continuamente.

Il mio lavoro con i Rom

Nel percorso di questa trasmissione abbiamo intervistato soprattutto gente che potesse ritrovarsi nei personaggi delle canzoni di De André. La prostituta, la palestinese, il detenuto, il Rom e così via. Volevamo indagare su quanto De André avesse colto nel segno parlando di queste persone. Tu ti sei mai sentito in qualche modo rappresentato in qualcuna delle sue canzoni o ti senti più un osservatore del mondo cantato da De André?

No, mi sento anche rappresentato. Io mi sento abbastanza uno zingaro e anche Fabrizio me lo diceva, che lo ero. Non sono zingaro, non sono Rom, però mi sento molto zingaro. Ma non perché continuo a cambiare casa e mi sposto. È proprio nello spirito. Tra l’altro ultimamente sto lavorando con dei musicisti Rom. Zingari di cui sono molto amico e con cui mi trovo molto a mio agio. Tra l’altro mi invitano alle loro feste, matrimoni, battesimi…. Io mi sento zingaro nel senso che la legge che determina i comportamenti del popolo zingaro non è una legge scritta: non esistono tribunali, non esistono forze dell’ordine. Ma è una legge tutta morale. Talvolta può essere una legge estremamente discutibile, però, in questo senso mi ci ritrovo. E Fabrizio tra l’altro me lo diceva…

… allora abbiamo scoperto un altro dei soprannomi che ti aveva appioppato Fabrizio!

(ridendo) eh, sì!

Questo tuo rapporto con il gruppo Rom ci interessa! Queste persone con cui siamo venuti a contatto, che abbiamo intervistato, ci hanno quasi sempre confermato di essersi sentite ben raccontate in queste canzoni, senza essere giudicate. Tu che sei anche stato vicino a De André hai qualche esperienza simile da raccontare? Per esempio questo gruppo Rom con cui lavori… magari conoscono Khorakhané!

Certamente! Difatti stiamo pensando di fare una versione di Khorakhané cantata tutta in lingua Rom e con il finale in italiano, riarrangiata da loro. Purtroppo io li ho conosciuti dopo l’esperienza con De André, altrimenti, sicuramente, li avrei coinvolti nell’album. Tra l’altro ce ne sono un paio che sono veramente dei talenti, musicalmente parlando. Generalmente gli zingari sono bravi musicalmente, cosa tra l’altro un po’ cliché da dire. Tanto quanto a noi dà fastidio essere identificati solo con Paolo Rossi e Sofia Loren, a loro dà altrettanto fastidio essere identificati con quelli che rubano e però suonano bene il violino, perché più o meno questa è l’immagine corrente. In realtà c’è un universo veramente interessante. Loro, lungo i secoli, sono portatori, dall’India e attraverso tutta l’Asia e l’Europa, di cultura. Non dimentichiamo che, ad esempio, gli strumenti che noi abbiamo adottato, dal violino allo stesso pianoforte (che in origine arriva dal cimbalom), beh, sono strumenti provenienti dall’area indiana, ed è il nomadismo che ha permesso a questi strumenti di divulgarsi in Occidente.

Tornando, in coda di intervista, alla tua vicenda professionale, dopo De André ti sei trovato a lavorare con altri “big” della canzone d’autore. Come è stato questo rapporto?

Sì, ho fatto un paio di brani con Ligabue, tra l’altro mi è piaciuto perché sono andato a Londra, negli studi di Happy Road che è un po’ un obiettivo importante e dove ho anche avuto un incontro simpatico con Paul Mc Cartney. Quindi ho lavorato con Luciano e ho fatto anche qualche altra piccola cosa, però ho cercato di limitarmi, perché non volevo finire a fare l’arrangiatore, come lavoro.
Io mi sento un compositore e non di canzoni (purtroppo, perché in realtà il portafoglio ne risente) quindi quello che mi preme e che mi urge è di continuare a scrivere, più che lavorare sui brani di altri. Certo, ogni tanto faccio qualche lavoro di arrangiamento, che non mi dispiace fare, anche perché con la crisi della discografia bisogna anche pensare, ahimè, alla pagnotta.

Piero Milesi nella sua casa a Mattarana (Sp)

La notte della Taranta

Qui a Rete Italia ci siamo occupati a fondo della world music italiana e della rinascita della musica popolare. La tua esperienza come direttore artistico della “Notte della Taranta” rientra in questo filone. Ce ne puoi parlare?

Questa per me è stata una tappa estremamente importante perché sulla Notte della Taranta io ho cominciato con la seconda edizione, quando ancora non ci scommetteva nessuno. La prima edizione era stata curata da Daniele Sepe. La seconda l’ho curata io e lì ho capito che poteva essere una cosa veramente importante, più che interessante. Importante perché sulla pizzica tarantata si sapeva poco o niente. Si sapeva qualcosa di striscio, più che altro sull’aspetto terapeutico di quella musica. Ricordo che da ragazzino avevo ascoltato delle trasmissioni radiofoniche di Diego Carpitella sui “tarantati”, e mi ero anche piuttosto spaventato! Circa quarant’anni dopo sono stato coinvolto in questa attività e mi si sono risvegliate le parti più recondite della coscienza. È stato molto interessante, in primo luogo perché c’è un fermento musicale impressionante nel Salento, probabilmente dovuto anche al fatto che, pur essendo sempre stato tagliato via dalle comunicazioni importanti, soprattutto per motivazioni geografiche (il “tacco” dell’Italia era proprio fuori dal mondo, si può dire), però nello stesso tempo è riuscito a conservare una propria identità molto forte.
L’esclusione è diventato un aspetto positivo. Per me è stato importante perché scoprire un mondo musicale con una identità così forte… basti pensare che ad ogni concerto della Taranta… adesso ormai, all’ultima edizione c’erano oltre centomila persone di cui tantissimi erano ragazzi, tutti armati di tamburello a suonare assieme. E suonato bene, non suonato in modo pasticciato. E questa cosa qui non fa che riempirmi di gioia. Ovviamente anche lì il fenomeno di quella musica, nello stile, nel modo di suonare, è soggetto a mutamenti. Ma questo è normale perché vuol dire che il linguaggio di quella musica è un linguaggio vivo, quindi in continuo movimento. Altrimenti non sarebbe altro che una riproduzione congelata e filologica di quello che c’era un tempo e adesso non c’è più, un po’ come i giorni dell’addio.
E questo della taranta è un fenomeno che ormai è esploso in Italia e presto esploderà anche fuori, e io sono anche un pochino orgoglioso di averci creduto e di avere lavorato molto su questo per alcuni anni ed è molto importante che questo fenomeno esploda nei suoi termini più positivi.
Mi fai venire in mente, tra l’altro, che, quando stavo arrangiando Anime Salve con Fabrizio, come sai abbiamo usato tantissimi strumenti particolari, cosiddetti etnici e fra questi, allora, che eravamo ancora in tempi non sospetti, io pensavo di usare anche il Didjeridoo, che è uno strumento tipicamente vostro, dei nativi australiani. Avevo dei campioni che avevo recuperato da qualche parte e questo suono estremamente ammiccante ci intrigava molto. Il problema era trovare allora chi lo suonasse, per cui è stato scartato per motivi più che altro tecnici, perché venire in Australia diventava una cosa un po’ complicata. Però è quasi stato un bene, perché quello strumento è stato usato adesso in tutte le salse e forse, purtroppo, rischia di essere un po’ snaturato nel suo aspetto semantico, proprio di significato. Perché uno strumento che ha, come quello, una tradizione così radicata, rivisto ad esempio nella pubblicità di un detersivo, devo ammettere, mi sciocca un pochino.

Vuoi dire che è diventata una cosa quasi folcloristica?

Esatto, folcloristica è la parola giusta. Mi viene in mente che sulla differenza fra musica etnica e musica folcloristica Fabrizio aveva dato una definizione bellissima: “la musica folcloristica è quella che i musicisti suonano per gli altri, mentre la musica etnica è quella che i musicisti suonano per se stessi”. Questo rende molto l’idea. Per gli altri, nel senso che è per i turisti, insomma.

I tuoi progetti per il futuro? Il violoncello è solo un ricordo oppure lo suoni ancora?

Mah, lo sto un po’ riprendendo però io l’ho lasciato da tempo. A un certo punto della mia vita ho deciso di fare il compositore per cui l’ho abbandonato. Ultimamente lo sto riprendendo, lo sto ristudiando, sto facendo anche qualche piccola registrazione, però non mi sento di essere un vero violoncellista. L’ho lasciato per troppo tempo a dormire. Progetti, se riesco a vincere le mie pigrizie e le mie paure, vorrei andare avanti sul mio nuovo album, quello sì. Che poi, dopo l’esperienza con De André e con la Notte della Taranta, ovviamente molti parametri in me sono cambiati. E dal momento in cui cambiano i parametri, per me è molto difficile ricostruirmi delle regole.

Infatti, tu nasci come musicista classico, come ci ricordavi all’inizio. Però queste esperienze ti avranno influenzato in qualche misura.

Sicuramente, anche se, ti dirò, io sono un musicista classico però Jimi Hendrix da ragazzino lo ascoltavo. Anzi, quando avevo quattordici anni avevo una band e facevamo Hendrix e i Led Zeppelin. Nella mia cameretta avevo due manifesti: quello di Beethoven e quello di Jimi Hendrix!

Si assomigliano anche!

Sì, nella capigliatura si assomigliano! Ma sicuramente si assomigliano anche nel loro modo di sconquassare certe regole di comunicazione musicale che a loro erano diventate estremamente ingombranti e nello stesso tempo anche insufficienti.

In questo mondo di furbi

A proposito del tuo ultimo album… i tuoi dischi sono soprattutto sul mercato americano e non su quello italiano. Come mai?

Io i miei dischi li faccio là, perché qua non me li facevano fare. Quando ho fatto il primo album ho girato per due anni tutte le case discografiche italiane e più che qualche pacca sulla spalla non ho trovato. Poi ho provato a mandarlo in Inghilterra e subito, immediatamente, ho avuto due contratti. Per cui il primo l’ho fatto in Inghilterra. Poi da lì, una casa discografica americana (evidentemente gli americani ascoltano le musiche un po’ di tutto il mondo), beh, mi è arrivata questa lettera dove mi proponevano di fare un disco. Io non avevo neanche risposto perché pensavo che fosse uno scherzo di qualcuno. Poi mi è arrivato un sollecito e ho cominciato a preoccuparmi perché lo scherzo stava diventando pesante. E poi ho capito che non era uno scherzo. Quindi, in quel caso lì, ho faticato tanto in Italia per trovare una casa discografica e non ho fatto nulla per trovarne una negli Stati Uniti. E ricordo anche il motivo. In Italia i discografici non potevano prendere la mia musica perché dicevano di non sapere come classificarla, come promuoverla e quindi come venderla. Le edizioni di musica classica mi rimandavano a quelle di musica leggera e pop, quelle di pop mi rimandavano a quelle di classica e io stavo impazzendo in questo girare a vuoto. Ricordo invece che in Inghilterra mi dissero: “ci piace perché questa cosa non l’abbiamo mai sentita”. E questa cosa mi ha fatto ovviamente un enorme piacere. Ci ho messo tre minuti a firmare il contratto! Prima l’ho firmato e poi l’ho letto.

Questa tua storia la dice lunga sulla salute del mercato discografico italiano. Ti va di salutare gli ascoltatori con un tuo ultimo commento su Fabrizio De André uomo e artista? O un tuo ultimo ricordo, se preferisci.

Guarda ne ho talmente tanti che non saprei da dove cominciare. Posso dire questo, quello che mi viene in mente adesso: Fabrizio non sapeva per niente nascondere le sue emozioni, era come un bambino. Nei momenti in cui era incazzato (scusate il termine, non so se si possono dire le parolacce per radio!), proprio trapelava da tutti i pori. Così anche nei momenti in cui era buono, affettuoso. Era estremamente trasparente in questo senso qui, estremamente aperto, e sicuramente questo aspetto non può essere disgiunto da quella che poi è stata la sua produzione artistica, che comunque era estremamente aperta. Fabrizio non aveva assolutamente paura di quello che non conosceva. Io ricordo che Fabrizio lo diceva spesso: ogni persona generalmente abbraccia le tipologie di persone con cui si è in confidenza, a cui assomiglia. Per cui si formano le mandrie, i greggi, e c’è grande diffidenza rispetto a chi è diverso da noi. Fabrizio in questa trappola non ci cascava mai. Il suo essere aperto, il suo modo di essere letto da un certo punto di vista era, credo, anche un po’ la sua dannazione, perché poi gli creava dei problemi anche nei rapporti di lavoro. Insomma è un mondo pieno di furbi e il cosiddetto furbo sa bene come nascondere le proprie carte.

Piero, ti ringraziamo di questa tua testimonianza.

Vi ringrazio io! Mi ha fatto piacere ed ho anche avuto modo di fare un ripasso su quello che è stato un pezzo importante della mia vita.

Renzo Sabatini

(Intervista realizzata via telefono nel settembre 2007. Registrata presso gli studi di Rete Italia – Melbourne. Andata in onda nell’ottobre 2007 nell’ambito della trasmissione settimanale: “In direzione ostinata e contraria”, dedicata ai personaggi delle canzoni di Fabrizio De André).

Grazie per le foto di Piero Milesi a Walter Pistarini dal sito viadelcampo.com.

Questa intervista (e le prossime)

Con questa intervista a Piero Milesi, iniziamo la pubblicazione su “A” di una parte significativa delle 27 interviste radiofoniche realizzate da Renzo Sabatini e andate in onda in Australia nel programma “In direzione ostinata e contraria” sulle frequenze di Rete Italia fra il maggio 2007 e l’agosto 2008. In tutto si è trattato di sessanta puntate (ciascuna della durata di circa quaranta minuti, per un totale di quasi 40 ore di trasmissioni), nel corso delle quali sono state trasmesse le 27 interviste e messe in onda tutte le canzoni di Fabrizio De André. Si tratta dunque della più lunga e dettagliata serie radiofonica mai dedicata al cantautore genovese.
Rete Italia è la sola radio nazionale australiana che abbia una programmazione “no-stop” in italiano ed è ascoltata in tutti gli stati della Federazione dalla grande comunità italiana, che rappresenta il più numeroso gruppo linguistico dopo quello anglosassone.
La trasmissione ha presentato ad un vasto pubblico che abbraccia tre generazioni (dai vecchi che emigrarono in Australia negli anni cinquanta fino ai loro giovani nipoti italo-australiani) la figura e l’opera di De André, a partire da un insolito punto di vista: quello dei personaggi che affollano la poetica dell’artista.
Dal momento che Rete Italia copre “solo” il continente australiano, si tratta di materiali assolutamente inediti... negli altri continenti.
La decisione redazionale di pubblicarle si inserisce naturalmente nel contesto del particolare legame che per un quarto di secolo, dal 1974 al 1999, noi di “A” abbiamo avuto con Fabrizio e – conseguentemente – nell’ampio spazio che, soprattutto dopo la sua morte, abbiamo riservato al suo pensiero e al suo “mondo”. Grande stima, un affetto profondo, ma nessun culto della personalità.
Se proponiamo questi testi, è innanzitutto per dare ancora una vlta spazio e voce a quelle tematiche e a quelle persone che di spazio e voce ne hanno poco o niente nella “cultura” ufficiale. E che invece anche grazie all’opera del cantautore genovese sono state sottratte dal dimenticatoio e poste alla base di una riflessione critica sul mondo e sulla società, con quello sguardo profondo e illuminante che Fabrizio ha voluto e saputo avere. Con una profonda sensibilità libertaria e – scusate la rima – sempre in direzione ostinata e contraria.
Un ringraziamento all’amico Renzo Sabatini, cui va il merito allora di aver concepito e realizzato un progetto così ambizioso – davvero unico nel suo genere – e ora di curare la trascrizione delle interviste radiofoniche per “A”. Non una rivista qualsiasi, lo ricordiamo “tirandocela” un po’: ma quella che in non poche occasioni sporgeva dalle tasche di Fabrizio, durante i concerti, con la “A” del titolo bene in vista.

la redazione di “A”