Rivista Anarchica Online


 

Le idee religiose,
Più uguali delle altre

Non stupiscono più di tanto i 150 fanatici religiosi che, martedì il 24 gennaio, con ceri accesi e preghiere, si sono radunati a Milano contro la rappresentazione del dramma di Romeo Castellucci “Sul concetto di volto nel Figlio di Dio”.
Certamente non progettano di tagliare teste o di emettere una fatwa di morte come quella contro il disegnatore delle vignette danesi su Maometto ma nel profondo i loro meccanismi mentali non sono molti diversi da quelli dei loro omologhi fondamentalisti musulmani.
Le religioni monoteiste, più di altre, in quanto “rivelate” e fondate su un Dio unico cui è stata attribuita la scrittura di un libro, hanno nel loro codice fondante la convinzione di essere le uniche detentrici della verità sull’uomo e sulla storia e la pretesa che il loro credo debba essere rispettato come tale da chiunque.
Hanno difficoltà ad ammettere, se non vi sono costrette da complessi processi storici e sociali, in pratica sino a quando non perdono il predominio, che gli enti e le manifestazioni divine in cui credono possano da altri essere valutate diversamente. Essere considerate interessanti o meritevoli di studio ma senza essere ritenute sacre, essere ignorate, giudicate un’invenzione o anche disprezzate. Anche se non sembra affatto quest’ultima l’intenzione dell’autore dell’opera teatrale presentata a Parigi e poi a Milano e disturbata da mobilitazioni a ridosso dei teatri.
Quello che sorprende non è l’esaltazione marginale di chi era in piazza ma il fatto, riportato dalla stampa, che 40 parlamentari del PDL, della Lega e dell’UDC abbiano firmato un appello al Ministero per i Beni Culturali per chiedere la sospensione, sì proprio la sospensione, della rappresentazione, senza alcun rispetto per la Costituzione e le leggi di cui dovrebbero essere i primi rappresentanti.
La censura non esiste più, né civile né religiosa e qualsiasi immagine o creazione che non offenda una determinata persona è solo manifestazione, piaccia o no, della libertà d’espressione tutelata dall’art. 21 della Costituzione.

Per fare un po’ di ordine bisognerebbe anche guardare il Codice penale. Nel 2000 è stato dichiarato incostituzionale, meglio tardi che mai, il reato di cui all’artt. 402, il “Vilipendio alla Religione di Stato” cioè, sino ad allora, la religione cattolica. Le legge n. 85 del febbraio 2006 stabilisce poi, anch’essa con molto ritardo, che oggetto della tutela non sono le fedi religiose, in sé o lo sono solo indirettamente mentre lo è, ed è cosa ben diversa, il diritto a praticare liberamente quella che si è scelta, non solo la cattolica, e il diritto dei singoli a non subire vilipendio a causa della propria appartenenza religiosa.
Così l’art 403 punisce con una multa chi offende chi professa una confessione o ne è Ministro di culto. In sostanza è vilipendio, e non solo ingiuria, dire a qualcuno” sei un criminale perché sei ebreo o musulmano “ o “sei un mascalzone come tutti i preti”.
L’art 404 punisce chi vilipende oggetti sacri in un luogo destinato al culto o in luogo pubblico e chi intenzionalmente li danneggia e l’art 405 colpisce, anche con la reclusione, chi impedisce o turba una funzione o una cerimonia religiosa. In concreto non si può entrare in una chiesa ingiuriando i fedeli o buttando a terra il crocifisso.
Si intende perciò, come è giusto, evitare gesti di intolleranza contro qualsiasi confessione e impedire offese a persone concrete – i fedeli – solo perché praticano una religione o con tale pretesto.
Tutto qui.
In sostanza, stando al Codice, non si può offendere Mosè, Gesù o Maometto, e neanche Brahama o il più tollerante Buddha, nemmeno volendo. Sono “idee”, non sono in sé oggetto di tutela giuridica.
E un teatro non è né una chiesa né una sinagoga e i cittadini vi entrano in quanto spettatori e non in quanto fedeli.
Nonostante ciò permane nel vissuto culturale di una parte della società e di chi la rappresenta, si ricordino i nostri 40 parlamentari, la convinzione, del tutto infondata razionalmente, che un’opinione se qualificata “religiosa” abbia diritto ad un rispetto molto maggiore di altre.
Nessuno infatti penserebbe di protestare o si scandalizzerebbe davanti a qualcuno che mostrasse in pubblico critica o anche violento disprezzo verso teorie nel campo della storia, della politica, della giustizia o della fisica. Non è certo sconveniente scrivere o dire che una certa idea filosofica scientifica, e con esse i loro fondatori, sono insensate e anche pericolose.
Anzi questa libertà di critica è considerato il terreno di cultura stesso della democrazia e del progresso dell’uomo.
Ma criticare in pubblico idee religiose deve restare un tabù assoluto anche per chi non le condivide. Si rischia, e qualche volta molto. Del resto è proprio per questa ragione che quando un kamikaze musulmano si fa esplodere uccidendo decine di innocenti perché crede ”molto” nella sua fede, l’incidenza di questa fede in quel gesto è in genere sminuita e si preferisce, prudentemente, richiamare motivazioni politiche o sociali.
Ci si può immaginare cosa succederebbe se qualcuno chiedesse di sospendere un’opera teatrale o ritirare un libro che reputi offensivo nei confronti di Marx, Freud, Darwin, Einstein o della fisica quantistica.
L’esposto non sarebbe nemmeno accettato e il suo autore sarebbe probabilmente consigliato dal funzionario di turno di consultare in buon medico, magari uno psichiatra.
In sintesi siamo a questo punto, per ora: tutte le idee sono uguali, ma alcune sono più uguali delle altre.

Guido Salvini

 

 

Rivolte
In Tibet

Mentre si allunga la tragica sequenza dei monaci e delle monache che si sono immolati con il fuoco (sedici dal marzo del 2011 di cui quattro nel 2012), per la terza volta dall’inizio dell’anno, il 24 gennaio le forze speciali di polizia hanno aperto il fuoco contro manifestanti tibetani nella regione di Sichuan. A Serthar, secondo il governo tibetano in esilio a Dharamsala, i morti sono stati cinque. Minimizza invece l’agenzia ufficiale Nuova Cina che parla di una sola vittima tra i rivoltosi. Altri morti a Drango.
Per l’ONG Free Tibet sarebbero due, ma altre fonti parlano di una mezza dozzina. Almeno 36 feriti, alcuni in maniera grave, sarebbero stati trasportati in un monastero della zona per evitare che vengano arrestati dalla polizia. Intanto si sono svolti i funerali di Yonten, un giovane ucciso il giorno 23 gennaio. Secondo l’emittente Radio Free Asia, i manifestanti protestavano per l’imposizione di festeggiare il Nuovo Anno cinese. Il giorno prima un altro monaco aveva annunciato la sua intenzione di immolarsi con il fuoco chiedendo di impedire alla polizia di impadronirsi del suo corpo. Anche il 14 gennaio una donna era stata uccisa dal fuoco della polizia nella città di Aba. Ovviamente le informazioni vengono raccolte con estrema difficoltà dalle Ong e non sempre sono verificabili. Da parte delle autorità cinesi si continua a parlare di “disordini provocati da gruppi separatisti manovrati dall’esterno”.
Era dalle manifestazioni represse duramente nel 2008 che l’indignazione popolare in questa colonia interna non esplodeva con tanta intensità. Nel marzo 2008 la città di Aba conobbe il brutale massacro di una decina di manifestanti e da allora il suo monastero viene periodicamente sottoposto a misure punitive. A Ganzi e nella vicina Luhuo il numero dei morti non venne mai accertato con precisione, ma comunque furono decine.

Gianni Sartori

 

 

Stampa alternativa /
Una mostra e un convegno a Lyon

A Lione, dal 15 novembre al 25 febbraio scorsi, il CEDRATS (Centre de recherche et de documentation sur les alternatives sociales) ha organizzato una mostra sulla stampa alternativa pubblicata a Lyon e dintorni dal 1960 ai nostri giorni.
Con questa iniziativa, il CEDRATS ha voluto da una parte far conoscere l’enorme quantità – ad oggi siamo già à più di trecento titoli conosciuti – di periodici, bollettini e qualche giornale murale che hanno accompagnato per mezzo secolo i diversi movimenti come il femminismo, le lotte degli omosessuali, l’antimilitarismo, l’anarchismo, l’ecologia, le attività controculturali e poi le lotte dei tantissimi gruppi che si sono occupati delle prigioni, della solidarietà con i paesi del sud, della vita di quartiere, ma anche di iniziative culturali, etc.; e dall’altra dimostrare che il contenuto di queste testate rappresenta una ricchezza per la memoria di tutti coloro che continuano a cercare delle alternative sociali...
La mostra ha cercato di dimostrare inoltre la continuità tra le esperienze dei giovani dei primi anni Sessanta, capelloni e «rivoluzionari» vari, con gli indignati/e di oggi.
La verità e che spesso ci si dimentica che su questo o quell’argomento altre persone hanno iniziato un discorso, e nel caso dei nostri compagni/e utopisti/e e controcorrente, aperto delle strade che oggi ci permettono di andare ancora un po’ più lontano nella prassi quotidiana, che continua ad avere come obiettivo, una società se non perfetta, almeno fortemente radicata nella partecipazione orizzontale e nella ricerca di forme di solidarietà ed equità più profonde.
Il CEDRATS è riuscito a coinvolgere in questa iniziativa gli Archivi della Municipalità (il Comune) che hanno ospitato e finanziato in gran parte la struttura della mostra e una parte del lavoro svolto da un gruppo di compagne/i. Insomma siamo riusciti a creare un ponte tra un’istituzione pubblica ed una alternativa. Un ponte che abbiamo attraversato con il massimo di autonomia e rispetto reciproco.
Ma abbiamo costruito un ponte anche con i responsabili del Museo della Stampa e due professori dell’ENS (École Nationale Supérieure) con i quali abbiamo organizzato per l’occasione un convegno internazionale intitolato “La stampa alternativa, tra cultura d’emancipazione e i cammini dell’utopia”, che si è svolto dal 19 al 21 gennaio è ha visto la partecipazione di studiosi e militanti francesi, italiani, venuti dalla Svizzera e anche dall’Africa.
Il convegno, seguito da una cinquantina di persone, ha raccontato la nascita di alcuni dei periodi rappresentativi di questa cultura «alternativa», ma ha anche affrontato la questione su come conservare questi fondi tra le pratiche alternative e quelle istituzionali, l’evoluzione di questa stampa e i diversi modelli che essa ha costruito nel tempo. La mostra ed il convegno, in definitiva sono risultati una bella esperienza che ci ha permesso di continuare a costruire i ponti necessari tra il passato, il presente e i giorni che verranno, tra strutture alternative e istituzionali, tra militanti impegnati a raccogliere il materiale stampato dal mondo variegato dei ribelli e utopisti, e quelle biblioteche pubbliche nelle quali sono conservate, quasi sempre con serietà e profesionalità, una parte della memoria «rivoluzionara» senza la quale non potremmo raccontare la nostra storia.

Mimmo Pucciarelli
coordinatore del CEDRATS
27 Montée Saint-Sébastien, F - 9001 Lyon (Francia)
cedrats.actions@laposte.net

PS: il CEDRATS, insieme al Centre de documentation libertaire de Lyon, si sono proposti per organizzare il prossimo incontro della FICED (la Federazione internazionale dei centri studi e di documentazione libertari), che dovrebbe svolgersi appunto a Lyon nel 2014.

 

 

Grecia/Ospedali
Occupati e autogestiti

Secondo una dichiarazione del 4 febbraio u.s. pubblicata dall’assemblea generale dei lavoratori dell’Ospedale Generale di Kirkis, i medici, gli infermieri e dell’altro personale, dichiara che i problemi di lungo corso del Sistema Sanitario Nazionale (ESY) nel paese non possono essere risolti attraverso limitate richieste di risarcimento del servizio sanitario.
Pertanto i lavoratori dell’Ospedale Generale rispondono al fascismo del Potere occupando questo ospedale pubblico e ponendolo sotto il loro diretto e completo controllo. L’organo decisionale per le questioni amministrative sarà l’assemblea generale dei lavoratori. Sottolineano inoltre che il governo greco non ha assolto ai suoi obblighi finanziari verso l’ospedale. I lavoratori denunceranno tutte le autorità competente alla pubblica opinione e, se le loro richieste non saranno soddisfatte,si rivolgeranno ai comuni, alla comunità locale e non, per avere un supporto di qualunque tipo possibile per aiutare i loro sforzi:per salvare l’ospedale e difendere la sanità pubblica, per rovesciare il governo e ogni politica neo liberista. (…)
La loro assemblea avrà luogo giornalmente e sarà l’organo principale per ogni decisione concernete i lavoratori e l’operatività ospedaliera. I lavoratori chiedono la solidarietà fattiva dei cittadini e dei lavoratori di tutti i settori, per il coinvolgimento dei sindacati e delle organizzazioni progressiste, e per il sostegno dei media dell’informazione reale.(…). Tra gli altri si invitano i colleghi degli altri ospedali a prendere decisioni appropriate, nonché i dipendenti del settore pubblico e privato a fare lo stesso.

si ringrazia Enrico Moroni
tradotto dal sito contrainfo.espiv

 

 

Processo Mastrogiovanni
Che la pietà non vi sia di vergogna

“Amare è un diritto umano” recita un recente slogan inviato, via email, a migliaia di sostenitori, da Amnesty International. Amore, rispetto dei diritti e della dignità dell’uomo e del malato ma, soprattutto, rispetto della verità è il messaggio che noi lanciamo ai consulenti degli imputati dopo aver ascoltato le loro dichiarazioni nell’udienza del 14 febbraio 2012. Su cinque consulenti della difesa si sono presentati in aula solo in tre: la d.ssa Margherita Neri (ricercatrice presso l’Università di Foggia), il dott. Guido Lanzara (assistente presso l’Università Tor Vergata di Roma) e il dott. Enrico Mainenti, medico legale e direttore dell’ASL di Salerno. Prima dell’esame dei consulenti della difesa, il legale di parte civile, avvocatessa Caterina Mastrogiovanni, in riferimento alla precedente udienza, ha chiesto alla Presidente Garzo di acquisire agli atti un documento dal quale risulta che la d.ssa M. L. D. M. (medico che confermò la proposta di trattamento sanitario obbligatorio a carico di Francesco e per questo indagata) non sarebbe in possesso della specializzazione in psichiatria, bensì di quella in medicina dello sport.

Francesco Mastrogiovanni

Pubblicare il video dell’orrore

La deposizione dei medici legali Lanzara e Neri inizia contestando il termine di “contenzione fisica” usato dal dott. Maiese (consulente, insieme ad Ortano del PM). Per loro si tratta di una semplice e innocua contenzione meccanica. La loro affermazione provoca una lunga contestazione da parte della Presidente, dr.ssa Elisabetta Garzo. Nonostante la reazione del giudice i consulenti della difesa continuano, imperterriti, affermando che la contenzione praticata consentiva addirittura a Francesco Mastrogiovanni di potersi muovere, il mantice respiratorio del paziente, a loro avviso, non era bloccato e lo stesso poteva anche sedersi sul letto. Per loro la contenzione non ha affatto determinato la morte e tra la contenzione e la morte non c’è alcun nesso omettendo, naturalmente, di rilevare che Mastrogiovanni era assistito così bene che si sono accorti dell’avvenuto decesso con sei ore di ritardo. I due consulenti medici, per supportare le loro affermazioni, fanno ricorso ad un vecchio e rodato espediente: proiettano solo un frame del “video dell’orrore” sequestrato dai carabinieri su ordine del P.M. Rotondo, nel quale si vede Mastrogiovanni impegnato in uno sforzo disperato mentre cerca, con rabbia e dolore, di slegarsi, di liberarsi delle fasce di contenzione che gli serrano polsi e caviglie. Basta guardare il volto sofferente e gli occhi imploranti aiuto del paziente per capire che vuole liberarsi dai moderni cartigli e non cercare di conquistare una posizione più agevole su quel letto divenuto, per lui, un crocifisso. A seguito dell’utilizzo, in modalità limitata e circostanziale, di parti del video, finalizzato al diniego delle responsabilità e all’istituzione di un vero e proprio “campo dissociativo” il Comitato ha deciso di pubblicare, sulla rete, il video integrale (prova definita evidentissima e incorruttibile) in modo che ogni cittadino possa visionare, senza accomodamenti o censure, l’intero calvario, le torture e le vessazioni subite da Francesco Mastrogiovanni.

Meccanismi di difesa e mancata cognizione delle atrocità

I due consulenti, nel rispondere alle domande dei legali della difesa, hanno affermato di non condividere le conclusioni a cui sono giunti i consulenti del P.M., di non comprendere le cause della morte mancando, a loro parere, la sintomatologia dell’edema polmonare e di non condividere neppure le conclusioni del consulente tecnico dell’ASL prof. Palmieri. Per la d.ssa Neri e il dr. Lanzara gli infermieri non possono prescrivere la contenzione e nemmeno la decontenzione. A loro parere Francesco Mastrogiovanni è stato anche idratato e controllato. Tutto regolare quindi, anche la prassi di non annotare l’adozione della misura della contenzione sulla cartella clinica e gli interventi di controllo operati dagli infermieri. Peccato che nel corso degli interrogatori degli stessi infermieri è invece emerso che, nel reparto, non esisteva “diario infermieristico” e neppure le linee guida per la contenzione. Di fronte ai contenuti delle dichiarazioni improntati al diniego totale la Presidente Garzo mostra loro delle foto del cadavere di Francesco, dal quale risultano i segni provocati della contenzione e chiede se le sanguinanti abrasioni ai polsi siano state curate in quanto, dalle foto scattate poche ore dopo il decesso, non risulta alcuna medicazione. Molto probabilmente questi tecnici non si rendono conto della valenza umana e politica di questo processo. E allora ricordiamo loro che trattasi di un processo unico nella storia della psichiatria, per la gravità dei fatti, che ha riaperto persino il dibattito sulla necessità di proporre la reintroduzione, nel codice penale, del reato di tortura. Non è un processo qualsiasi quello che si svolge a Vallo della Lucania, è un processo a chi vuole distruggere tutto il lavoro di Franco Basaglia, a chi non vuole capire che il TSO è uno strumento di alta tutela della salute del paziente affetto da disagio mentale e non l’anticamera della contenzione, dell’accanimento terapeutico, dei supplizi, della morte.

Non abbiamo visto lo stesso video

L’avvocatessa Caterina Mastrogiovanni, dopo aver ascoltato le risposte dei consulenti Lanzara e Neri, replica esclamando: “Forse non abbiamo visto lo stesso video!”. Il medico legale dr. Enrico Mainenti, consulente dell’infermiere Forino, si è impegnato a sostenere la correttezza e anche l’umanità del suo cliente. Francesco sarebbe stato slegato, addirittura in mancanza di un’autorizzazione medica e afferma che l’infermiere per il quale è consulente è stato zelante e scrupoloso nell’assolvimento dei suoi compiti. Anche a quest’ultimo consulente la Presidente del Tribunale mostra alcune foto del corpo di Franco straziato dalla contenzione.

Nessuna domanda del PM

Stranamente il PM., dr. Martuscelli non ha rivolto nessuna domanda ai consulenti. La prossima udienza è fissata per il 28 febbraio, sempre alle ore 14. Saranno sentiti gli altri consulenti degli imputati.

Angelo Pagliaro

Per info:
Il Comitato Verità e Giustizia per Francesco Mastrogiovanni
Vincenzo Serra, Giuseppe Tarallo, Giuseppe Galzerano

Per ulteriori informazioni si può telefonare a:
Vincenzo Serra 0974.2662
Giuseppe Galzerano 0974.62028
Giuseppe Tarallo 0974.964030

www.giustiziaperfranco.it
postmaster@giustiziaperfranco.it

 

 

Venezuela
Il silenzio degli ecologisti dell'era di Chavez

Lo scorso 4 febbraio si è verificato uno dei peggiori disastri petroliferi nella storia del Venezuela: la rottura di una tubazione nel Complejo Operacional Jusepín, nello stato del Monagas, ha causato la fuoriuscita di una quantità di greggio fino ad ora mai vista, che si è riversata su di una superficie di 140 km, andando a inquinare le acque del fiume Guarapiche, uno dei principali corsi d’acqua della città di Maturín. I danni all’affluente sono stati talmente ingenti da predisporre l’interruzione dell’approvvigionamento idrico delle abitazioni della capitale dello stato e delle diverse strutture sanitarie, nonché la chiusura delle scuole in cinque comuni della regione. Nonostante l’assenza d’informazioni ufficiali, i danni all’ecosistema sembrano essere gravi e irreparabili, con ovvie ripercussioni sulla locale produzione di generi alimentari e la conseguente perdita del raccolto per decine di piccoli e medi agricoltori.
Nonostante ciò, il prevedibile assedio all’informazione non ha dato il risultato sperato: il vivace e articolato movimento ambientalista non ha offerto nessun servizio di controinformazione. Anzi, tutto il contrario.

Venezuela, stato di Monagas.
Un aspetto del disastro ecologico

Una parte delle iniziative ecologiste che negli anni Novanta avevano condotto numerose importanti battaglie è stata cooptata dallo Stato bolivariano. Oggi molti dei vecchi attivisti occupano diversi incarichi di responsabilità all’interno del governo di Chávez, perfino all’interno del Ministero dell’Ambiente. La compagnia petrolifera statale PDVSA è inoltre sia la principale beneficiaria di risorse pubbliche che la principale finanziatrice di programmi sociali, noti come misiones. Questo ha impedito di fatto ogni possibile riflessione sulle conseguenze sociali e ambientali dello sfruttamento delle risorse minerali.
Molti degli “ecologisti” che negli anni Ottanta e Novanta criticavano aspramente l’industria petrolifera, la principale fonte d’inquinamento nel paese, sono sottomessi da dodici anni a un complice silenzio. Non sono stati pochi tra loro quelli che, in seguito alla ristrutturazione burocratica del 2003, quando quasi 20.000 lavoratori dell’impresa furono licenziati in seguito al cosiddetto “sciopero petrolifero” della fine del 2002, entrarono nella compagnia PDVSA (1). Qualcuno ha perfino provato a teorizzare l’esistenza di un “eco-socialismo” basato sull’approfondimento dell’economia della principale impresa esportatrice nel paese. D’altronde, anche sull’altro fronte, il panorama non è dei più incoraggianti. Alcune delle più note organizzazioni ambientaliste ricevono finanziamenti per progetti di “sviluppo sostenibile” proprio da parte di alcune multinazionali energetiche.
Se guardiamo i più noti gruppi ambientalisti del paese, possiamo constatare che all’interno di un centinaio di organizzazioni, nessuna è interessata all’impatto dell’estrazione di minerali e idrocarburi sul medio ambiente. Alla paralisi esistente si aggiunga la presenza delle elezioni nell’agenda dei movimenti di base venezuelani, i quali, mentre è in corso una delle peggiori tragedie ecologiche degli ultimi anni, limitano la loro mobilitazione quasi esclusivamente alla campagna elettorale per sostenere uno dei due schieramenti in campo.
In Venezuela non esiste nessun dibattito su di un progetto del paese all’indomani del prevedibile esaurimento delle risorse energetiche.
Bolivariani e oppositori portano avanti una dura battaglia per controllare le entrate petrolifere del paese e su questo si basa la loro proposta elettorale. Le battaglie contro l’inquinamento energetico delle diverse comunità indigene, dei contadini e dei pescatori, procedono in modo isolato e senza che nessuno di loro riesca ad interloquire con le mobilitazioni cittadine. E come avviene con l’inquinamento dei gasdotti nella comunità kariña di Tascabaña (nello stato di Anzoátegui), la PDVSA mette impunemente in scena il peggiore dei ricatti: chi denuncia la situazione verrà escluso dalle diverse misiones presenti nelle comunità.
Il petrolio, il gas, il carbone e gli altri minerali venezuelani alimentano le caldaie della globalizzazione economica capitalista. L’espansione e la ripresa di imprese a capitale misto ha dato nuovo vigore alla nazionalizzazione dell’industria, iniziata verso la metà degli anni Settanta. A causa dell’inquinamento centinaia di famiglie povere sono colpite da malattie di diverso tipo e da alterazioni genetiche. La deforestazione e l’inquinamento dei corsi d’acqua rappresentano una condanna all’estinzione per specie animali e vegetali. Le comunità indigene vengono allontanate dalle loro terre ancestrali e perdono la loro cultura originaria per l’impatto dell’industria del carbone e del petrolio. La cultura prodotta dalle rendite petrolifere ha reso il Venezuela un paese sempre più dipendente e importatore, sempre più vittima di deliri statocentrici, con un aumento della corsa agli armamenti e della militarizzazione.
Ogni progetto del paese dovrebbe essere basato su un nuovo modello di civilizzazione, con un giusto equilibrio tra uomo, donna e natura, giustizia sociale e libertà, senza la dipendenza dai combustibili fossili per lo sviluppo. Per questo devono esistere movimenti sociali autonomi e agguerriti, specialmente quelli ecologisti e quelli in difesa del medio ambiente, come vero presupposto per un possibile cambiamento.

Tratto da Ellibertario, periodico on-line venezuelano
(traduzione di Arianna Fiore)

  1. Nel dicembre del 2002 molti lavoratori della compagnia petrolifera PDVSA iniziarono uno sciopero per indurre il presidente venezuelano Hugo Chávez a rassegnare le dimissioni e a indire nuove elezioni. La produzione di petrolio si interruppe per oltre due mesi, provocando una ingente perdita economica e danni alle complesse strutture di raffinazione ed estrazione petrolifera. In seguito il governo licenziò 19.000 impiegati e ristabilì parzialmente la produzione con quadri e tecnici provenienti dall’esercito e da altri rami del governo venezuelano.

 

 

Milano
Una giornata sulla pedagogia

“Quando l’educazione cambia?”: ne abbiamo parlato domenica 5 febbraio, a Milano, al Circolo Arci “La Scighera” dove il Collettivo Milanese per l’Educazione Libertaria (“CMEL”) e la Pianta Anarchica, hanno organizzato una giornata per presentare le prime esperienze educative libertarie nate in Italia e discutere di come farne nascere di nuove a Milano e, più generale, in Lombardia.
Di fronte a una sala molto affollata si sono aperti i lavori con una breve nota di Maurizio Giannangeli, referente lombardo della Rete per l’Educazione Libertaria (1) e membro del neonato CMEL.

Le esperienze

Oscar Agostoni e Laila Sage hanno presentato il rilancio della “Scigherina”, spazio autogestito all’interno del circolo pensato in un’ottica di compartecipazione attiva all’educazione dei bambini.
Giulio Spiazzi, invece, apre la parte dedicata alle esperienze educative libertarie parlando di Kiskanu (2), scuola libertaria autogestita nata a Verona nel 2004.
Kiskanu è una un’esperienza legata e contestualizzata nel territorio veronese che si basa soltanto sull’appoggio delle famiglie che hanno deciso consapevolmente di sostenere il progetto pagando una retta mensile tra i 280 e i 300 euro al mese. Interessante è anche il mutuo appoggio che si è creato tra le famiglie che, infatti, possono decidere di aiutarsi reciprocamente nel pagamento della retta. Si sottolinea l’importanza del rispetto tra le varie componenti del progetto e il ruolo che l’assemblea, composta da tutti i protagonisti (educatori/trici, genitori e bambine/i), riveste nella risoluzione delle problematiche che si presentano nella gestione quotidiana di una scuola. Kiskanu non è una scuola riconosciuta dalla Stato e non aspira ad esserlo in quanto vuole mantenere la propria indipendenza didattica e chi la frequenta deve sostenere ogni anno un esame obbligatorio che “certifichi” il grado di preparazione per poter accedere alla classe di studio successiva.
Gabriella Prati ha descritto la recente esperienza de “Il Cerchio”, nata nel 2010 in prossimità di Bologna. La sede della scuola, al momento, è all’interno dell’abitazione di due famiglie aderenti al progetto ma sono alla ricerca di uno spazio da autogestire insieme ad altre realtà associative locali. L’impostazione educativa, di tipo democratico-libertario, cerca di alternare e offrire una dimensione individuale dell’ascolto.
La mattinata densa di interventi e di discussione fra le centinaia di partecipanti si è conclusa con Gabriella Fulginiti e la sua esperienza di educatrice libertaria in ambiti dedicati ai disabili.

Milano, Circolo ARCI "La Scighera", 5 febbraio
2012. Un aspetto dell'incontro
sulla pedagogia libertaria (foto Mario Gastoni)

Workshop di approfondimento

Dopo il momento conviviale del pranzo, i presenti hanno organizzato tre gruppi di lavoro su tematiche di interesse comune e strategico.

Scuola libertaria a Milano, come orientarci?

Il gruppo partecipante, composto da circa quaranta persone, ha discusso di come iniziare a progettare la costituzione di contesti educativi nuovi a Milano.Innanzitutto è necessario formare un gruppo di persone che abbiano ideali educativi comuni e abbandonino i saperi precostituiti. È necessario conoscersi, studiarsi, capire il punto di vista di ognuno per scoprirsi unanimi verso una direzione condivisa, in quanto è fondamentale trovare i giusti equilibri che consentano di tessere relazioni stabili e feconde. La ricerca di uno spazio dove attuare il progetto e la creazione di un’associazione culturale promotrice, rappresentano due passaggi fondamentali per dare sicurezza e continuità al gruppo di progetto. Per la questione del riconoscimento del percorso scolastico si fa riferimento agli artt. 30 e 33 della Costituzione.
Ogni genitore può presentare una dichiarazione al direttore scolastico di appartenenza in cui comunica la decisione di ritirare il figlio dalla scuola pubblica avvalendosi del meccanismo della “scuola parentale”. Il gruppo di lavoro ha determinato di rivedersi in maniera regolare attraverso il neocostituito CMEL per verificare le possibilità concrete di azione in questo campo.

Differenze di genere nella pedagogia (3)

Il gruppo di lavoro è partito dalla constatazione della carenza degli studi di genere nelle università italiane che dovrebbero formare educatori ed educatrici e pertanto di una scarsa riflessione sul ruolo di genere e sesso nella dimensione pedagogica, trattando pertanto l’argomento come neutrale o presunto tale. Citando Elena Gianini Belotti (4) e Loredana Lipperini (5), il gruppo parte dal presupposto che l’esistenza delle bambine sia incanalata ancor prima della nascita. Oggi, le bambine vengono bombardate già dai primi anni di vita da modelli che le ritraggono e le vogliono sensuali, piacenti, accattivanti e vengono educate (dalla famiglia, dalla tv, dalla società) al dovere di piacere all’uomo. In un’ottica antisessista, il gruppo di lavoro ha ritenuto importante porre l’attenzione sul ruolo che gli/le educatori/trici hanno nello sviluppo della libertà di bambini/e lasciando loro la possibilità di esprimersi liberamente, senza incanalarli in schemi culturali stereotipati in base al sesso di appartenenza.

Perché non cercare di cambiare la scuola dall’interno?

Il terzo ed ultimo gruppo di lavoro e di approfondimento, si è interrogato su quale sia oggi la possibilità di cambiare la scuola di stato dall’interno.
Di fatto si è giunti alla considerazione che attualmente tale possibilità è sempre più labile e incerta. Le istituzioni e la società non hanno più alcuna relazione di tipo dialogico e sempre più spesso i tentativi di chi promuove il dialogo e l’ascolto, sono frustrati dalla netta indisponibilità e dalla mancanza di apertura di un sistema scolastico, nel suo complesso, sempre più ridotto a mero ordinamento. È stata avanzata alla Rete per l’Educazione Libertaria la richiesta di farsi soggetto capace di mettere in relazione tra loro non solo le esperienze libertarie in ambito educativo che stanno nascendo in Italia, quanto anche le esperienze di insegnanti, educatori e studenti che vivono in modo critico dentro a strutture gerarchiche e coercitive. Di questa richiesta la Rete si farà senz’altro carico anche riprendendo il tema al convegno nazionale che, per quest’anno, verrà organizzato a Rimini per il 26 e 27 maggio.
Chi fosse interessato a contribuire alla costruzione di contesti educativi libertari nel milanese può trovare materiale video, fotografico e documentale nel nostro nuovo blog ma soprattutto si metta in contatto con noi per partecipare attivamente.

Collettivo Milanese per l’Educazione Libertaria
http://educazionelibertariamilano.noblogs.org/
educazionelibertariamilano@inventati.org

Note

  1. www.educazionelibertaria.org.
  2. www.kiskanu.org.
  3. Un ringraziamento ad Aliz per il supporto alla stesura del resoconto del gruppo di lavoro sulle differenze di genere.
  4. Autrice di “Dalla parte delle bambine” - Feltrinelli.
  5. Autrice di “Ancora dalla parte delle bambine” - Feltrinelli.