Rivista Anarchica Online


attenzione sociale


a cura di Felice Accame

 

Margaret Drabble
e i suoi romanzi

 

1. Durante una delle nostre scorribande in bicicletta, una domenica mattina, ormai sulla via del ritorno, sono stato improvvisamente attratto da un localino in via Canonica – un localino che non avevo mai visto prima. Deviai, e venni presto raggiunto da Anna quando ormai mi ero reso conto di trovarmi di fronte ad un ristorante coreano ed all’offerta fotografica – come usa nel caso di certi ristoranti esotici – delle sue specialità gastronomiche. Fra queste c’era il Bi-Bim-Pap.
Pochi mesi prima, avevo letto La regina rossa di Margaret Drabble ed ero dunque venuto a conoscenza di questa “ciotola di metallo contenente riso caldo ricoperto da svariate verdure, condimenti e un delizioso uovo in camicia” – un piatto “disinvolto”, consumabile come piace di più, mescolando il tutto oppure concedendo una discreta autonomia reciproca alle sue tante componenti.
La regina rossa era il terzo libro che leggevo della Drabble e diciamo che ormai si era stabilito tra noi un rapporto in virtù del quale mai e poi mai mi sarei permesso di considerare con superficialità qualunque informazione che l’autrice avesse ritenuto opportuno comunicarmi. Va da sé che, nei giorni successivi, sperimentammo il Bi-Bim-Pap in versione milanese. Più tardi – una ricerca ne tira un’altra –, scoprii che qualcosa del genere fa parte anche della cultura gastronomica italiana, perché, fra i piatti rinascimentali toscani, figura una “carabaccia” che implica verdure varie (cipolle, sedani, carote e piselli con l’aggiunta, volendo, anche di mandorle tritate e spezie) in tegame, disposte non su riso ma su pane toscano, e un uovo in camicia piazzatoci sopra all’ultimo, prima di servire.

2. Della Drabble e della sua vasta opera ho potuto leggere soltanto quanto tradotto in italiano, ovvero nell’unica lingua in cui mi sento di leggere qualcosa potendo dire a me stesso di aver letto davvero qualcosa. Ho letto, allora, nell’ordine, La cascata, pubblicato nel 1969 e tradotta nel 2000, La via radiosa, pubblicato nel 1987 e tradotto nel 1998 e, per l’appunto, La regina rossa, pubblicato nel 2004 e tradotto nel 2009. I primi due per merito di Luciana Tufani editore in Ferrara e il terzo per merito delle Edizioni La Lepre in Roma.

3. Parlo della Drabble e dei suoi “romanzi” ma soltanto per intendermela alla svelta con i miei eventuali interlocutori. Perché il punto è proprio qui: ritengo la categoria di “romanzo” piuttosto inadeguata per definire le opere della Drabble. Lei stessa, d’altronde, nel prologo de La regina rossa, parla della propria opera come di “una specie di romanzo” e direi proprio che il problema è proprio tutto nella sua necessità – evidente, manifesta – di prendere le distanze dal romanzo.

4. Mi son chiesto, allora, tramite quali mezzi espressivi – al di là di una vaga avvertenza, al di là del suo mettere “le mani avanti” in una difesa che, comunque, meriterebbe fior di argomentazioni – avvenga questa “presa di distanza” da parte dell’autrice.
Come ho fatto notare in Parentela, indici e indizi genealogici – Appunti su opere di Antonia Susan Byatt e Margaret Drabble, i cambi di soggetto narrativo risultano come il marchingegno prediletto. Avvengono in tutti e tre i libri e sono ripetuti. A volte l’impersonale narrativo si volge nella prima persona singolare – un “io” che è stato definito come intrusivo. A volte, subentra un “noi”, una pluralità, una molteplicità di soggetti – come ne La regina rossa.
Oltre a ciò, numerose sono le circostanze nei tre libri in cui l’autrice critica il narratore in quanto tale e, in particolare, lo scrittore di romanzi. “Non bisogna fidarsi delle scrittrici”, dice come lei stessa, Margaret Drabble, intrufolatasi nelle pagine conclusive del suo stesso romanzo, “Rubano, prendono in prestito e si appropriano di qualunque cosa. Non dovresti dir loro nulla di ciò che vorresti che restasse un segreto”.

5. La stessa protagonista de La cascata dice di sentire “una riluttanza positiva a mettere il coperchio sulle cose” – il pane lo lascia diventare raffermo senza prendere alcuna precauzione affinché il suo processo rallenti –, e ritiene “immorale” “impedire il corso della natura”. Il far letteratura potrebbe costituirne un caso.

6. La scrittura della Drabble, dunque, racconta e, nel raccontare, racconta anche le sue teorie sulla forma storica di ciò che sta scrivendo. Ma a tale profondità di consapevolezza – mi pare giusto farlo osservare – non ci si può giungere che tramite un rigoroso processo di autoanalisi. Da questa consapevolezza, infatti, proviene l’incertezza nei confronti dell’autorità dell’Autore e della sua informazione. Che non è più oro colato. L’autore fornisce la sua versione e fin sbaglia. Sbaglia o dimentica. Ecco perché, allora, la Drabble semina qua e là imprecisioni ed errori: ne La cascata fa citare ad un suo personaggio la scena di un film di cui non ricorda il titolo; ne La via radiosa fa citare un film “di Len Deighton”, ma Len Deighton non ha mai diretto film; ne La regina rossa parla della gratitudine del popolo coreano nei confronti dell’allenatore di calcio Gus Hiddink – una gratitudine dovutagli per aver condotto la Corea alla vittoria nei campionati del mondo, ma in realtà la Corea è arrivata quarta.

Ferrara, gennaio 2001 – Margaret Drabble nella città emiliana
per la presentazione dell'edizione italiana de "La cascata",
pubblicata da Luciana Tufani

7. Sull’errore autoriale vorrei fare una digressione, che – nell’ampliare l’orizzonte –, tuttavia, servirà a far emergere tratti caratteristici della Drabble. Porto tre esempi scelti più o meno a caso.
C’è un lui che va da lei e ci va a colpo sicuro – o prima o dopo il sesso è garantito: così stanno ormai le cose fra loro. Entrò “e scoprì l’inattesa, maliziosa novità: Roberta aveva indossato calze autoreggenti e s’era levata le mutandine bianche di pizzo”. È evidente che si tratta di un lui a metà strada tra Superman e il mago Otelma: come fa a sapere, visto e rivisto che non ci sono, che le mutandine se le è tolte ? Non poteva più semplicemente non averle indossate? E, se se le è tolte, come fa a sapere che queste mutandine erano bianche e, potenza della visione extrasensoriale, di pizzo? L’esempio l’ho tratto da un romanzo di Domenico Cacopardo, Agrò e la scomparsa di Omber cui, tra le tante ingenuità – se di ingenuità davvero si può parlare –, metto in conto anche quella del suo deus ex machina talmente acuto, non solo di vedere mutandine che non ci sono, ma anche di “scorgere due scarafaggi, uno sopra l’altro”, due scarafaggi che “si stavano accoppiando” e che lo indussero a scuotere “la testa per il disgusto” sentendo “forte, la nausea”.
Si dirà: vabbé, cosa c’è che non va, può capitare – può capitare che qualcuno abbia sufficienti conoscenze etologiche per capire cosa stanno facendo due scarafaggi e può capitare che abbia una sensibilità tale da rimanerne disgustato. Purtroppo, però – purtroppo per l’autore –, ci si è dimenticati che l’eroe del romanzo vede la scena da una finestra e che questa stessa finestra, a detta dell’autore, è di un appartamento sito al quarto piano – da cui già categorizzare qualcosa come uno scarafaggio è già impresa da aquila mentre rimanerne disgustato è un’impresa in cui non riuscirebbe un San Gerolamo in versione Formigoni.
Faccio un altro esempio. Aveva fatto notare Umberto Eco nelle Passeggiate tra i boschi narrativi che, nei Tre moschettieri di Alexandre Dumas, ad un certo punto del suo cammino, D’Artagnan svolta in rue Servandoni dove abita l’amico Aramis. Purtroppo per Dumas, l’architetto Niccolò Servandoni è nato nel 1695 e nessuna via gli poteva essere dedicata preventivamente. Dumas, in effetti, scrive il suo romanzo nel 1844, ovvero trentotto anni dopo che la via era stata rinominata in omaggio all’architetto italiano: se l’è ritrovata sulla mappa della propria Parigi e non è stato lì a farla troppo lunga, l’ha presa per buona e gli ha conferito una lunga vita al passato.
Un altro esempio di errore potrebbe essere quello di Fred Vargas, pseudonimo con cui la storica Frédérique Audouin-Rouzeau scrive i suoi romanzi gialli. Ne L’uomo a rovescio, c’è un momento in cui il commissario Jean Baptiste Adamsberg ricorda un caso precedente – quello de L’uomo dei cerchi azzurri – e dice che è accaduto cinque anni prima. Sulle prime ho guardato le date delle due edizioni italiane dei romanzi ed ho constatato che L’uomo dei cerchi azzurri è uscito nel 1996, mentre L’uomo a rovescio è uscito nel 1999. Tre anni di differenza, non cinque. Però, mi son detto, tutt’altra cosa sono le date delle edizioni originali francesi. Vado a controllare e, infatti, scopro che il primo è uscito nel 1991 e il secondo nel 1999 – in Francia come in Italia. Conclusione, otto anni di differenza, non cinque. Mistero. Mistero nei romanzi del mistero. In proposito potrebbe anche essere formulata un’ipotesi: Fred Vargas vorrebbe forse che noi lettori attribuissimo un qualche difetto di memoria al suo protagonista? Può darsi, ma se così fosse dovrebbe darcene anche qualche ulteriore indizio. Cosa che, nel prosieguo del romanzo, si guarda bene dal fare. Si tratta, dunque, di un’ipotesi da buttar via. Se l’autore vuole comunicare qualcosa del genere nei confronti del suo personaggio ha altri mezzi a disposizione. Ne colgo un esempio ne Il maestro della testa sfondata di Hans Tuzzi: in una prima fase, in tasca della vittima viene trovato “l’abbonamento all’Inter”; in una seconda fase, da una dichiarazione della moglie al commissario Melis che la interroga si viene a sapere che la vittima, povera anima di onesto lavoratore che mai si concedeva un divertimento, sarà andato sì e no “tre volte in dodici anni a vedere l’Inter”. A questo punto, né Melis né il deus ex machina che lo gestisce intervengono per far notare la contraddizione. Tuttavia, in una terza fase – piuttosto ravvicinata alle prime due: il particolare ha la sua rilevanza –, l’autore esplicita che al suo eroe la contraddizione non era sfuggita affatto. Si noti la brevità dei tempi di sanatura: l’Autore si fida fino a un certo punto del suo lettore e non ha alcuna intenzione di somministrargli un eroe distratto o di memoria labile.
Questi casi – tutti questi casi – sono considerati casi di errore, tuttavia, in virtù di criteri diversi. Il caso di Margaret Drabble è un caso di errore per amor di vaghezza, per voglia di pressappochismo in certi rendiconti. Come dire che il personaggio del romanzo e con lui l’autrice del romanzo stesso sono tali da non sentirsi affatto in obbligo di riferire le cose per filo e per segno secondo la verità storica. Che la differenza tra un film ricavato da un libro di Len Deighton e un film diretto da Len Deighton è una differenza di poco conto e che, tanto è vero, ciò non ha impedito a ciascun lettore di buona memoria di ipotizzare che tipo di film fosse – anzi, quasi di identificarlo, perché, all’epoca di cui si parla nel romanzo – siamo nei primi anni Ottanta – è probabile che la televisione inglese trasmettesse o Ipcress (1965) o Funerale a Berlino (1966) o Un cervello da un miliardo di dollari (1967), che sono tre film, interpretati da Michael Caine, tutti ricavati da romanzi di Deighton. Avesse detto “un film di Michael Caine” sostituendo l’attore con lo scrittore, sarebbe stato lo stesso. Ci si può far venire perfino il sospetto – un sospetto che analizzando con cura altri romanzi dell’autrice troverebbe più di un fondamento – che questo errore di vaghezza sia stato buttato lì a bell’apposta, come se fosse richiesto al lettore un buon grado di partecipazione attiva a ciò che legge – una vigilanza nei confronti dello scrittore che, a differenza del deus ex machina consuetamente tanto riverito, va guardato con un minimo di diffidenza.
Il caso di Fred Vargas – se di errore si tratta – è un caso tutto interno all’opera letteraria dell’autrice. In pratica, nessun nostro particolare sapere sul mondo non connesso ai romanzi della Vargas ne viene compromesso.
Il caso di Dumas – quello di far camminare D’Artagnan in una via che sarebbe stata battezzata con quel nome solo molti anni dopo rispetto all’epoca in cui l’autore vorrebbe che si svolgesse la vicenda – è un caso di errore soltanto a patto che il lettore, per così dire, esca dal romanzo e ne confronti le asserzioni con l’enciclopedia collettivamente condivisa. È un’operazione che non sempre siamo disposti a fare: di solito, leggiamo un romanzo e, proprio perché lo categorizziamo come romanzo, non stiamo a chiedergli un’integrale coerenza con tutti il nostro sapere. All’opera d’arte concediamo spesso questo privilegio.
Il caso di Cacopardo – quello delle mutandine bianche e di pizzo bianco, tolte, bianche e di pizzo prima di essere messe e prima di esser viste – è quello che pone i problemi più gravi. Non contraddice il testo, contraddice gli assunti comuni tramite i quali ce la caviamo nella nostra vita quotidiana. Parlare di “togliere” un indumento dopo aver constatato che è stato indossato, categorizzare un colore e una caratteristica manifatturiera dopo averle percepite e non prima. Oppure – se parliamo di scarafaggi in calore: assegnare all’uomo percezioni e categorizzazioni adeguate alle capacità degli organi deputati al compito; non eccedere neppure si trattasse di un valente poliziotto pena l’inverosimiglianza di quanto afferma o di quanto gli viene attribuito dall’autore. Tuttavia, l’analisi degli errori di Cacopardo non può fermarsi a questo livello di superficialità. Entrambi gli errori, infatti, concernono qualcosa che ha che fare con il sesso e con l’esigenza sentita dall’autore di raccontarlo – di raccontarlo, e qui sta il punto, mettendoci un po’ di più del vino che ha nella sua botte. O in termini di desiderio o di disgusto, sempre di sesso si tratta e quando si tratta di sesso – ecco dove si rivela tutto il servilismo dello scrittore nei confronti di quel mercato al quale chiede di essere mantenuto –, quando si tratta di sesso, più ce ne metti e meglio è. Se la ridondanza sfocia in contraddizione amen, si conta sul fatto che il lettore – un lettore poverello e subordinatello, un lettore che più passivo è meglio è – sia distratto da tutt’altro.

8. Nel “prendere le distanze” dal romanzo, la Drabble, poi, può anche dire che esistono tanti “sottotesti” quanti sono i lettori. Ciascuno di noi, in effetti, comprende il testo aggiungendovi del suo – qualcosa della propria storia, qualcosa della propria esperienza. Come può accadere anche nei confronti di quei “testi” tutti particolari che sono i manicaretti. Nel bi-bim-bap che mi si è presentato in via Canonica, al posto dell’uovo in camicia, c’era un uovo che a me parve parzialmente fritto. Esistono tanti bi-bim-bap quanti sono i cuochi ? Certo, purché ci si metta d’accordo sul significato del verbo “esistere”: meno filosoficamente, direi, meglio, che posso costituirmi tante differenze nel Bi-Bim-Pap quanti sono i cuochi che l’hanno preparato.

9. Non solo. La Drabble, allora, può dire – come ne La regina rossa – che si sta accorgendo di utilizzare addirittura termini che non gli appartengono man mano che procede il suo processo di osmosi con persone e culture diverse.
I titoli stessi, in definitiva, non gli appartengono: il primo – La cascata – è il nome di un gioco prestidigitario di carte, il secondo – La via radiosa – è il titolo di un sillabario di quand’era bambina e il terzo – La regina rossa – è l’appellativo con cui il marito, principe coreano, chiamava la moglie.

10. Al di là dei temi affrontati e delle argomentazioni che a proposito di questi temi svolge – la donna e la differenza di genere in tutte le declinazioni sociali, la rigidità delle regole come espressione psicotica di una società anomala, l’inesorabile repressione che diventa autorepressione di atteggiamenti mentali ribelli nella società occidentale tra il 1980 e il 1985 –, alla Drabble dobbiamo riconoscere un’integrità politica raramente preservata ed espressa con tale forza in ambiti letterari che spesso si identificano semplicemente con il mercato dei romanzi.

Felice Accame

Nota
Utilizzo in questo saggio sia una conferenza da me tenuta il 18 novembre 2011 alla Libreria Odradek di Milano, sia un brano – Quattro gradazioni di errori letterari – trasmesso nella Caccia all’ideologico quotidiano di Radio Popolare il 27 novembre 2011. Al momento in cui scrivo, il saggio citato dedicato alle due sorelle, la Byatt e la Drabble, è inedito.