Rivista Anarchica Online


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Joaquin Sabina, Sergio Sacchi, Lu Colombo
Molto più di un buon motivo

La copertina del CD di Lu Colombo
“Molto più di un buon motivo”

La storia durò
quanto dura un cubetto di ghiaccio in un whisky on the rocks
coi rischi che io
poi finissi ridotto a uno straccio che più non si può
così mi lasciò
come un cane randagio e mogio che abbaia a casaccio
cominciando di nuovo da capo con le ceneri in capo
e passato al setaccio. (…)
E così ritornai
alla maledizione della camera vuota
alla perdizione dei bar senza meta
alla crocerossina di saldo, regina
dalla porta lì accanto scendevo la china
pagando poi il conto a gente stracolma
che perde la calma con la cocaina. (…)
E finì che io
per non assediarla con la litania
per non umiliarmi con l’antologia
dell’anima sola tra fredde lenzuola
tra i fiori disfatti gli eterni ricatti
per questo non stetti a implorare ritorni
coi gomiti lisi e i dintorni un po’ rotti
di scordarla decisi
ma tanto ci misi:
diciannove giorni e… seicento notti!

Mannaggia! Col fatto che Sergio Sacchi ha definitivamente trasferito la sua residenza in Catalogna non ho più modo di litigare con lui su Joaquin Sabina.
Con Sergio condivido molte passioni e quasi altrettanti disgusti. In realtà il suo lavoro è stato fondamentale per avvicinare all’Italia artisti stranieri che altrimenti sarebbero rimasti dei nomi arcani. In questo io mi considero un suo allievo. All’interno del Club Tenco – del quale Sergio è un’anima imprescindibile –, ma anche allargando i progetti al di fuori della rassegna, ideando, scrivendo, traducendo libri e dischi, il lavoro di Sacchi scava e porta alla luce l’essenza dell’arte della canzone. Il senso di un linguaggio in bilico fra popolare e colto che dialoga con i luoghi e con la Storia che l’ha generato. Canzoni che possono raccontarci un’epoca, un paese per frammenti, canti che nella loro assoluta parzialità esprimono un insieme di molte vite, una coralità altrimenti inesprimibile. Faccio solo un nome, Vladimir Vysotskij… della russia post-stalinista, ma glaciale degli anni ’60 e ’70, ne sapremmo un po’ meno se Sergio Sacchi non ci avesse permesso di avvicinare la disperata vitalità delle canzoni di Volodja Vysotskij.
Da Sergio ho imparato moltissimo e soprattutto un metodo di lavoro fatto della più idiosincratica passione e del più rigoroso e certosino rigore, qualcosa che confina pericolosamente con la monomania, quando ci si investe da soli della “missione” di importare un poeta, un artista, un cantante che proprio tutti gli altri non possono non conoscere.
Ovviamente, da che ci frequentiamo, passiamo certe nottate non del tutto sobrie, io con l’ansia di restituirgli con le mie un po’ delle sue scoperte, lui d’altronde rimbecca con le sue più recenti passioni.
Ci sono amori che scoppiano immediati: sono stato molto contento di aver “presentato” a Sergio il signor Jarek Nohavica, massimo cantautore ceco, uno dei più grandi in attività. È stato amore a prima vista e così quest’anno Jarek cantava al Tenco.
Altre volte sorgono dispute infernali… non sono ancora riuscito del tutto a convincere Sacchi del genio moderno e classico di Allain Leprest. Lui d’altronde mi vuole guadagnare alla causa di assunzione nel paradiso dei poeti in musica del caballero Joaquín Ramón Martínez Sabina, andaluso di Jaen.

Che il silicone non spenga il sorriso
che l’aquilone non abbia una ciurma
sia il calendario un po’ meno deciso
che il dizionario sia l’unica arma.

 

Joaquìn Sabina

Ora questo Joaquìn Sabina in Spagna e nei paesi di lingua spagnola è di una celebrità imbarazzante, una vera superstar. È stato senz’altro il cantore simbolo del post franchismo, che attraversati gli anni ’80 nella scena underground, è esploso nei ’90, ed è cresciuto ancora fino a giungere alla venerazione della quale gode tutt’oggi. Non è più un ragazzino, essendo nato nel 1949, ma è riconosciuto e rispettato da tutti semplicemente come il migliore in circolazione.
Joaquin Sabina è materia difficile da trattare perché, l’abbiamo detto, estremamente popolare, di quella popolarità da rotocalco, quella per cui i paparazzi t’inseguono nelle feste a fotografarti con la modella di turno. Anche Atahualpa Yupanqui, Georges Brassens o Fabrizio de André sono stati notissimi già in vita, ma la loro celebrità attiene a un mondo del tutto musicale, a nessuno sarebbe mai venuto in testa di farne oggetto di gossip.
Quando, per figurarci il clima della “movida” madrilena dei primi anni ’80, prendiamo come punto di riferimento il regista Pedro Almodovar, dobbiamo considerare che ci manca l’altro perno essenziale di quella vicenda esistenziale, appunto lui: Sabina. Sabina non è meno colto della generazione dei cantautori che lo hanno preceduto – Raimon, Joan Manuel Serrat, Lluis Llach, – ma questi, di pochi anni maggiori di lui, avevano fatto del canto e spesso della loro lingua catalana un’arma di lotta al franchismo. Sabina non meno ribelle (è un comunista convinto) ha invece avuto in sorte dal suo talento il destino di cogliere e fotografare nelle sue canzoni la libertà estrema esplosa nei primi mesi dopo la morte dell’orco in un’esaltazione morale e fisica. Questo in superficie voleva dire vivere la notte madrilena, pieni fino agli occhi di cocaina e alcool, vestiti con giacche a paillettes. Un po’ più in profondità era la rabbiosa allegria di condividere la vita con chiunque, quell’atteggiamento a metà fra lo stupore di una ricerca senza posa e la retorica del kamikaze, per riscattare collettivamente un’adolescenza esplosa troppo tardi.
Vicenda esistenziale interessante quella dei suoi primi anni. Figlio del commissario di polizia di un paesino, ribelle e guascone fin dall’infanzia, nel ’68 viene arrestato dal proprio padre per l’appartenenza al partito comunista clandestino. Nel ’70 lancia una molotov contro una sede del Banco di Bilbao per protesta contro i processi di Burgos ed è costretto all’esilio a Londra e Parigi. In esilio comincia a scrivere sonetti e canzoni. Nel 1977 ricomincia a frequentare la Spagna e a salire lentamente i gradini della notorietà alla quale abbiamo accennato. Dopo più di vent’anni di bravate nel 2001 un ictus – rimasto senza conseguenze fisiche – gli ha fatto smettere una vita di eccessi e lo ha sprofondato nella depressione.

Io non voglio un amore costumato
programmato con serate sul sofà
io non voglio dei viaggi nel passato
tornare dal mercato con lacrime a metà. (…)
Io non voglio trattamenti di riguardo
e non voglio pomeriggi con il tè
ciò che voglio, cuore mio codardo,
è che tu muoia per me.
E morire insieme a te se tu mi ammazzi
e ammazzarmi insieme a te se poi tu muori
perché l’amore quando non muore ammazza
ma l’amore che ammazza poi non muore.

È vero che Sabina ha una scrittura preziosa, profondamente spagnola e della Spagna più profonda, quella più araba. Il suo modo di comporre i testi in un florilegio di ossimori, accostamenti imprevisti, grappoli d’immagini contrastanti, gusto del rovescio del rovescio, ne fa un poeta barocco dei giorni nostri. È vero anche che il dinamismo e la sete, il suo modo di stare al mondo e sulla scena, rendono questo pulviscolo di parole dorate urgente e moderno.
Troppo flamenco maldigerito, però, troppo macismo d’atteggiamento, troppe strizzate d’occhio a un rock latino e pacchiano, me lo rendono stucchevole. La sua passione per quell’orrore nazional-popolare della corrida e l’etica del torero che sbandiera, me lo rendono proprio antipatico: non perdono Hemingway… figuriamoci Sabina!
Sacchi però ne ha preso una passione! E giù sere a cercare di convincermi che un amante della scrittura come me non può non apprezzare la dialettica stilistica fra il dinamismo dei temi e la dimensione statica di una scrittura che implode in sé stessa. Sarà… ma poi Sergio s’è trasferito in Spagna, ci vediamo molto meno e ognuno è rimasto sulle sue.
Sacchi ora mi ha tirato un colpo basso. In complicità con la cantante Lu Colombo ha appena curato un disco che antologizza il meglio del meglio di Sabina da lui tradotto. È un gran disco: la scelta di affidare l’interpretazione a una donna, una donna con una voce vissuta e calda, una voce di grazia e di cicatrice, nobilita queste canzoni. Sottratte al cinismo che avevano in originale, questi – bisogna ammetterlo – splendidi versi d’amore e di rimpianto ci appaiono in tutta la loro forza evocativa e narrativa.
Sacchi ha magistralmente reinventato in italiano una lussureggiante tessitura sintattica, rispettando miracolosamente la ritmica e le continue sincopi che sono la parte più interessante del processo compositivo dell’autore, in grado di dare a un sonetto gongoriano il tono dell’aneddoto raccontato al bar.
Lu Colombo, l’interprete, viene da una lunga intermittente carriera che l’ha vista negli anni ’80 scalare le classifiche della nascente musica dance nostrana con quell’interessante “Maracaibo” (scritta insieme a David Riondino). Chi, se non lei, poteva sentirsi vicina alla sensibilità pop di Sabina?

Joaquìn Sabina

E così è appena uscito questo “Molto più di un buon motivo”, meravigliosamente tradotto e cantato, rappresenta il miglior viatico possibile per chi voglia addentrarsi nell’arte del cantore più celebre di Spagna, ma è un ottimo disco anche per chi si ferma ad ascoltarlo come opera a sé.

C’era da alzare i tacchi e farlo per davvero
dal nostro bianco e nero della fatalità
nemici degli specchi tenevamo davanti
i guanti di Rita Haywort, le strade di New York.
E strizzandoci l’occhio poi ci adescò la vita
come una calamita e non dicemmo un «ma»
ci consegnò le chiavi della città proibita
in cambio venne data la nostra verità.
Fu il tempo di volare, volammo tanto in fretta
che l’ombra fu costretta a cambiare identità
confondevamo al buio le nostre pupille
le luci delle stelle con la pubblicità.
E sempre si barava con la vita e con gli amici
fingendoci felici dormendo qua e là
e dici quel che pensi e non pensi a ciò che dici
per raccattare baci che san di carità.
Quel che sai dell’oblio la luna lo ha insegnato
la scienza del peccato la si impara da sé
cercando come ladri, là sotto le lenzuola
qualche capriola senza troppi perché.
Ma per adesso niente, «addio sogni di gloria»
resta sospeso in aria un timido din don
ci si ubriaca a volte per chiudere un po’ gli occhi
così giovani e vecchi, “like a rolling stone”.

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it

(Questa e tutte le altre citazioni sono tratte da “Molto più di un buon motivo” di Lu Colombo, testi di Joaquin Sabina tradotti da Sergio Sacchi, 2011 UP ART Records)