Rivista Anarchica Online


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Ponghino, un re di Pasolini

di Pino Fabiano

Un giovane calabrese, il regista, la 'ndrangheta, la memoria.

 

Una luminosa giornata di primavera, i profumi inebriano i sensi, la mente e il corpo riprendono nuova energia dopo il lungo inverno lasciato alle spalle.
Da qualche ora, io, Ugo e Masino siamo impegnati nella riparazione di un cavo telefonico nella periferia di Cutro, una località ad un tiro di schioppo dalla città di Crotone. Teoricamente il guasto è riparato, ma occorrono ancora delle opportune misure per accertarsi realmente del funzionamento. Ugo e Masino, pertanto, si spostano in centrale per effettuare le misure; io resto ad aspettare sul posto poiché le scale sono ancora montate sulla palificazione.
Mi toccherà aspettare almeno mezz’ora e non posso fare altro che razionalizzare al meglio questo scorcio di tempo liberato. Con qualcosa da leggere mi avvio all’ombra di un boschetto di eucalipti: il posto ideale per trascorrere il tempo in attesa dell’arrivo dei colleghi e, contemporaneamente, presidiare le scale da lavoro distanti solo pochi metri.
Gli eucalipti sprigionano un profumo intenso, balsamico; questa pianta con foglie coriacee, con il fusto alto e diritto e con una corteccia liscia grigio-cenere, è caratteristica della flora australiana, importata ormai da due secoli nel Meridione italiano perché ben si adatta al clima caldo e al terreno argilloso.

Cutro, le gialle dune pasoliniane

Sono trascorsi appena pochi minuti che vedo, non molto distante, un tipo sulla sessantina, trasandato e con l’aria un po’ arruffata, che carica dei vecchi ferri arrugginiti sulla Vespa Piaggio 50, anch’essa malridotta dagli anni e dalla ruggine. Si accorge della mia presenza e si avvicina.

Ponghino, Le Castella 1964. Particolare
dalle scene del Vangelo secondo Matteo

«Ti piace leggere?» mi dice appena giunto vicino.
«Certo» rispondo prontamente.
«Ti piaceva Pasolini?» ripeté subitamente.
Mi viene da pensare, per un attimo, alla solita presenza del matto di turno, uno dei tanti pazzi che vagano in giro con le zampe del ragno affondate nel cervello, perché non riesco a trovare immediatamente una connessione logica tra l’ultima domanda e quel tipo strano.
Pasolini, il buon Pier Paolo, uno dei più importanti intellettuali del Novecento italiano, il corsaro scomodo ai poteri forti, volutamente ignorato e depositato nell’oblio della storia patria, che adesso viene tirato fuori da uno che raccoglie ferro vecchio per campare? Se tanto mi da tanto, pensai, conviene assecondarlo: tolleranza e pazienza come antidoto morale contro qualsiasi forma di pazzia o temerarietà!
«Sì, conosco Pasolini, ho letto molti suoi scritti», rispondo pacatamente e senza manifestare alcuna sorpresa per la domanda ricevuta. Mi accorgo che l’uomo rimane visibilmente soddisfatto, tanto che si avvicina ancora di qualche passo prima di riprendere a parlare.
«Pasolini era una persona seria, un uomo che non temeva nessuno e amava il popolo. È stato ammazzato perché avrebbe dato troppo fastidio in Italia. Hai visto il film Il Vangelo secondo Matteo? Il film è stato girato anche da queste parti, in mezzo a tutta questa argilla.»
«Si, è vero, il film è stato girato anche in questi posti», risposi prontamente e con gli occhi spalancati come un bambino davanti ad una delle tante meraviglie del mondo.
«Io ho lavorato in quel film, facevo la parte dell’apostolo Giacomo figlio di Arfeo. Se ricordi il film, proprio quando eravamo tutti vicino al fiume attorno a Gesù che ci parlava, prendevo da un piatto un’oliva per volta e la mangiavo. Lo ricordi questo particolare?».
«Certo, lo ricordo». Restavo confuso, stravolto da quell'improvvisa apparizione. Nel vivere il presente arrivano inaspettate le intrusioni violente di quel viaggio anarchico del tempo, che scuote la coscienza, scava trincee nelle emozioni, recupera con forza quella memoria diversamente riposta nel suo sonno.
«Ma allora Pasolini ti ha poi portato in giro per fare altri film?».
«No, quello fu l’unico, vissuto però molto intensamente e per diversi mesi con tutta la squadra che seguiva il regista. C’erano alcuni giovani di Cutro al seguito di Pasolini, perché eravamo dei bei ragazzi e perché lui voleva molto bene ai figli del sottoproletariato di questa terra. Odiava i mafiosi, gente misera, senza dignità, gente disposta a barattare la dignità con il denaro sporco. Pasolini ripeteva che la nostra società doveva combattere quelle forme di sottocultura, isolando i mafiosi nell’umiliazione.
Ero felice a quei tempi. Vestivo sempre bene, mangiavo frequentemente nei ristoranti e vivevo con tutta quella bella gente, quasi un esercito al seguito del regista per la realizzazione del film.
Come per magia l’esistenza era cambiata totalmente: dalla monotona vita del paese si passava in un mondo fantastico, entusiasmante. Una nuova vita dove le esperienze, le parole e i ragionamenti che assorbivo mi aprivano nuove ed importati strade del sapere e della conoscenza.
Quando terminammo le riprese del film, decisi di partire per Roma, dove avrei continuato a lavorare nel cinema con nuove comparse nei successivi lavori del regista.
In tanti eravamo alloggiati in un albergo della capitale. Una sera Pasolini mi chiamò nella sua stanza. Forse era triste, forse aveva bisogno di parlare, di compagnia. Il problema che io, imbottito di pregiudizi, andai immediatamente via, e il giorno dopo feci ritorno in questa terra amara.
È il destino di ogni uomo. Oggi raccolgo ferri vecchi, rimpiangendo gli errori di gioventù. Ero un bel ragazzo, proprio un bel ragazzo calabrese. Forse avrei potuto fare qualcosa di diverso».
La memoria sedimenta emozioni. Sembrava trasognato, con lo sguardo perso nel vuoto.
Scrutavo ogni suo movimento del viso, le vene delle tempie ingrossate, i nervi del collo che pulsavano. Sprizzava rabbia, non era troppo difficile capirlo, perché la sua vita era andata in direzione contraria ai suoi sogni.
Proprio in quel momento ritornano Ugo e Masino. Si spezza improvvisamente un equilibrio e il mio amico, quasi preso da una forma di timore, si allontana senza nemmeno salutarmi. Monta sul vespino e spinge con forza il piede destro sulla pedalina dell’accensione. Si avvia. Alzo lentamente il braccio per salutarlo, mentre l’uomo con il suo carico sporgente si allontana lungo la contorta lingua d’asfalto.
Mi era apparso improvvisamente, come un fantasma del passato. Giacomo figlio di Arfeo nel Vangelo di Pasolini, era Marcello Galdini di Cutro. Non lo rividi mai più.
Venni a sapere, molto tempo dopo, che Marcello, conosciuto da tutti come “Ponghino”, era morto. Il cadavere venne ritrovato, dopo qualche giorno dal decesso, in una discarica di rifiuti nella periferia di Cutro. Dicono per tappargli la bocca, perché Marcello, senza troppi timori, si permetteva di dileggiare i mafiosi locali, per strada e nei bar. Lo faceva con la forza della parola. Era un uomo capace di pensare e di agire, a suo modo, in difesa della libertà, con coraggio e incoscienza. Era un uomo capace di indignarsi, capace di portarsi dentro una pasoliniana tensione civile politica e morale.
L’onorata società non poteva accettare tutto questo, non poteva farsi sputtanare da uno che raccattava ferro vecchio per campare. Unica sentenza quella di morte. E per dimostrare che Marcello non valeva nulla, venne assassinato ed abbandonato in una squallida discarica, nella logica di un particolare codice mafioso che si nutre di altrettanti particolari simbolismi.
Marcello si struggeva nel riassumere la sua vita in una recriminazione, vivendo il presente in una condizione di marginalizzazione. È andato via nel peggior modo possibile, dimenticato in fretta, troppo in fretta dalla società civile. Ha vissuto un’esistenza determinandosi sempre secondo una propria legge; è morto secondo quella degli altri.
Pasolini ebbe a dire che solo agli estremi della scala sociale si riconoscono i re. E Ponghino era un re.

Pino Fabiano