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comunicazione

E i barbari si riappropriarono della parola

intervista di Laura Gargiulo al collettivo fotografico libertario Fuoritema

È nato in Sardegna un quadrimestrale di fotogiornalismo che vuole stare “dalla parte sbagliata”. Qui spiegano perché e come.

 

In una società in cui la realtà e le sue fratture sono raccontate in modo quasi esclusivo attraverso le narrazioni e i filtri del Potere, le esperienze di auto-narrazione diventano sempre più importanti e preziose. Non solo perché offrono uno spaccato diverso sulle lotte e le contraddizioni sociali in atto, ma soprattutto perché rappresentano una forma di riappropriazione di ciò che lo Stato sembra averci sottratto: la parola.
Ciò che in tempi antichi segnava la spaccatura tra il civilizzato e il barbaro, ciò che un tempo era il logos, ora è la possibilità di raccontare ciò che ci circonda, mettendo in discussione le ricostruzioni apparentemente neutrali ma in realtà fin troppo funzionali agli interessi dello Stato.
Non solo: liberarsi dalla lingua dei dominatori, significa dare vita a una comunicazione condivisa da chi è accomunato da una condizione di subalternità, ma soprattutto di alterità rispetto agli sfruttatori di ogni epoca. Rafforzare quel linguaggio, dotarsi di nuovi strumenti di narrazione e riacquistare i perduti sembra ormai necessario per far sì che siano le lotte a raccontare se stesse.
Ecco perché diamo spazio all’esperienza di Fuoritema, collettivo libertario che da Cagliari si affaccia sul panorama anarchico con un quadrimestrale di fotogiornalismo che dalle basi militari, alla gestione dell’acqua, dai radar ai campi rom fino ai luoghi di prigionia racconta “senza pretesa alcuna di obiettività, ma con la consapevolezza di stare dalla parte sbagliata”.

Manifestazione ad Atene

Come nasce la vostra esperienza?

Fuoritema nasce in camera oscura, stampando una gran quantità di storie che abbiamo fotografato. Ci siamo accorti che il punto di vista da vicino, dentro le storie e dentro le lotte, ha da dire qualcosa che non si trova. Riappropriarci della narrazione è stato il movente. Il resto l'hanno fatto pochi risparmi che abbiamo messo in comune.

Nell’epoca dell’egemonia dell’immagine in movimento e dell’informazione in tempo reale, perché scegliere la fotografia? È anche un modo per segnare una direzione diversa rispetto al processo dove tutto scorre ma niente sembra fermarsi all’attenzione dello spettatore?

La fotografia è di per se silenziosa e questa è una dimensione da conservare e proteggere. È vero, puoi guardarla e riguardarla, ma è necessario che sia stampata perché mantenga il suo potere espressivo.

Reportage campo rom a Cagliari

Quali sono le storie che avete raccontato?

Quelle che conosciamo meglio. Le lotte a cui abbiamo partecipato, che abbiamo sostenuto o che abbiamo incontrato per un pezzetto di strada. Per noi è importante che il punto di vista sia ravvicinato. Quando non siamo stati parte di una storia, ci siamo affidati a chi la vive direttamente. Così nascono i progetti di autorappresentazione.

Vi siete occupati anche del Poligono Interforze del Salto di Quirra di cui abbiamo parlato nel numero di Settembre. secondo voi come si intreccia un lavoro di fotogiornalismo con le lotte del territorio? Potete raccontarci qualche esperienza?

Di solito il fotogiornalismo e le lotte si incontrano per qualche giorno e si separano senza essersi scambiati niente di essenziale. Costruire la narrazione insieme alla lotta è un'altra faccenda. Prendi l'esempio dei comitati No radar, un movimento popolare che si è opposto all'installazione, sulla costa della Sardegna occidentale, di 4 radar militari, gestiti dalla guardia di finanza. Abbiamo partecipato fin dall'inizio alla costruzione della lotta. Quando gli abitanti dei paesi interessati hanno occupato i cantieri, siamo andati in uno di questi, abbiamo fatto un breve corso di fotografia su pellicola e abbiamo lasciato una reflex a disposizione del presidio. Quello che abbiamo pubblicato è ciò che loro hanno fotografato e scritto sulle ragioni e sull'esperienza quotidiana di una lunga occupazione.

Manifestazione comunità senegalese a Cagliari

Nel corso del tempo l’immagine della Sardegna è stata presentata in modi diversi. Quale è secondo voi oggi l’idea che viene data e a quale fine risponde?

La Sardegna è uno stereotipo. O paradiso delle vacanze o società agro pastorale ribelle al tempo e ai padroni. Descrivere una terra appiattendola sugli stereotipi è sempre funzionale, ma lasciarsi descrivere o addirittura riconoscersi in un cliché è inquietante.

Tra le tante contraddizioni vissute in Sardegna (dall’occupazione militare alla crisi dei settori tradizionali dell’economia, dalla devastazione ambientale all’emigrazione fino allo spopolamento delle comunità) se doveste immaginare una campagna di denuncia quale aspetto scegliereste e come lo trattereste dal punto di vista dell’immagine e del messaggio da comunicare?

Per ora li stiamo affrontando tutti e tutti insieme (tutti insieme accadono) e l’unica campagna che abbiamo fatto è contro il senso di colpa, attraverso dei segnalibri che dicono “hai fatto una cosa sbagliata? Ti è riuscita? Ora sai che le cose sbagliate le sai fare”.

Durante le presentazioni dei vostri lavori quali sono state le reazioni suscitate?

Finora c’è andata bene. Molto interesse e proposte di nuove storie. Le presentazioni nei piccoli centri o in ambienti “non politicamente protetti”, svolgono anche questa funzione. Per ora abbiamo incontrato un gran bisogno di far conoscere la propria resistenza quotidiana. Fuoritema è in italiano e in inglese proprio perché sia leggibile anche da chi normalmente riceve della Sardegna solo depliant turistici.

Laura Gargiulo

Per conoscere da vicino Fuoritema visita www.fuoritema.it o scrivi a redazione@fuoritema.it