Rivista Anarchica Online


 

Dalla realizzazione del sogno
Alla realizzazione dello spazio

In questi tempi abbiamo occupato una casa cantoniera “La Selva Squat” per esprimere il nostro bisogno di spazi in questa città che non dà spazio alle neo-situazioni che non siano la solita discoteca. In un epoca dove siamo abituati a vivere sotto sconvolgimenti atomici, guerre tribali e controllo sociale, in nome della nostra libertà di scelta e di pensiero non possiamo non proporre l’occupazione di stabili vuoti e fatiscenti presenti in città come stimolo per un futuro alternativo non basato sulla mercificazione del lavoro del piacere con la riappropriazione e la critica alla società che ci nega presente e passato.
Questa occupazione dovrà essere l’inizio e non la fine di un vivere al di fuori del pagare-lavorare-consumare-crepare. Per noi avere uno spazio come questo dà la possibilità di costruire nuovi percorsi fuori dalla logica passiva negoziante-consumatore, o ancora peggio come quasi nella totalità dei centri sociali italiani il rapporto gestore-gregario. Nell’epoca dove ci viene venduto persino il tempo e viene scambiato per il nostro piacere rivendichiamo il diritto di uno spazio autogestito. All’interno pensiamo di coltivare un orto, creare uno spazio creativo, una serigrafia, e concerti fuori dal business, cene e dibattiti, sale multimediali ad accesso gratuito e una biblioteca, spazi per creare arte al di fuori delle regole mainstream.
Lo stesso Zeitgeist ci unisce a situazioni attualmente presenti in Inghilterra, Spagna, Olanda, Grecia, e Germania e soprattutto Svizzera. Non siamo i primi e non saremo gli ultimi. Questa è la nostra risposta al degrado in cui vengono murate case vuote in tutta la città, costringendo le persone meno abbienti a fare pazzie per arrivare a fine mese, quasi elemosinando per sopravvivere, e al continuo aumento dei prezzi degli affitti negli immobili.
Dentro questo spazio non tolleriamo da subito alcun tipo di spaccio di droga.
Per creare un luogo di aggregazione che faccia vivere le persone “sfruttando” il proprio potenziale e coltivarlo uscendo da schemi già stabiliti, creando il proprio percorso e convivendo.
Uno spazio in cui la creatività non è parte del venduto o esposto ma prende parte alla costruzione del reale in quanto situazione materiale di liberazione individuale e collettiva.
Persino in una città di non grandi dimensione come Reggio Emilia la cementificazione e il degrado abitativo stanno prendendo il sopravvento.
L’autogestione è reale e tangibile in ultimo in questa operazione dal punto di vista artistico si può ancora iscrivere nel concetto di post-moderno che consideriamo però catastrofico: meglio forse i primi surrealisti, il dada berlinese,i futuristi anarchici, i vorticisti inglesi, i punx e qualche pratica dei situazionisti di cui alcuni di noi hanno studiato le mosse rendendosi bene conto della crisi arte-musica-cultura-sapere in genere che stiamo attraversando e della miseria in cui esse stanno cadendo.

Squatter Reggio Emilia
La Selva Squat

 

 

Sud-Sudan/
Il ritorno dei rifugiati

Nel referendum del 9 gennaio 2011, i Sud-sudanesi hanno votato a favore dell'indipendenza a larga maggioranza. Il 98,83%, stando ai risultati definitivi pubblicati il 7 febbraio. Una unanimità che altrove sarebbe sospetta. Non lo è invece per chi conosce il prezzo pagato da questa popolazione (calcolato in milioni di morti) in più di mezzo secolo di conflitto. In pochi forse si rammentano del movimento di guerriglia Anya nya, ancora alla fine degli anni sessanta, combatteva con archi e frecce contro le truppe di Khartum. Con l'eccezione di qualche missionario comboniano, l'indifferenza era totale. Almeno in Italia, a destra come a sinistra. Quest'ultima parlava di “scontri tribali, insignificanti rispetto al processo di decolonizzazione”. Poi arrivò la doccia fredda del 1971. Il contro-colpo di stato di Jaafar al-Nimeiri portò all'esecuzione di molti esponenti della sinistra sudanese, tra cui il segretario generale del partito comunista Abdel Khalek Majhoub, il leader sindacale Sciafei el Sceik e il ministro degli affari meridionali Joseph Garang.
Il 54° stato africano, ancora senza un nome definitivo, è nato ufficialmente il 9 luglio. Omar Al-Bachir, presidente sudanese, ha dichiarato di voler rispettare questa scelta e di impegnarsi per “mantenere i legami tra nord e sud e le buone relazioni fondate sulla cooperazione”. Forse in cambio della promessa di Washington di levare definitivamente il Sudan dalla lista degli “stati canaglia” che appoggiano il terrorismo, di una riduzione delle sanzioni economiche e del ripristino di normali rapporti diplomatici. Rinunciare ad un quinto del proprio territorio non deve essere stato facile. Soprattutto perché nel Sud-Sudan si trovano le maggiori riserva petrolifere. Tuttavia, dato che i principali oleodotti prendono la via del nord dove si trovano le raffinerie e i terminali per l'esportazione di Port-Sudan, i due ex avversari sono costretti a dialogare. Rimangono alcuni focolai di ribellione tra chi è rimasto escluso dalle trattative o non accetta i confini stabiliti. Anche recentemente, il 10 febbraio, almeno venti persone sono morte nei combattimenti tra l'esercito del Sud-Sudan e i ribelli della regione di Jonglei, nonostante fosse in vigore un cessate-il-fuoco.
Secondo l'Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) dal 30 ottobre 2010 più di 150mila sudisti hanno lasciato il nord. Altri 20mila candidati al rimpatrio sarebbero in attesa nelle periferie di Khartum. Un fenomeno iniziato ancora nel 2005, dopo la firma dell' Accordo di Pace globale (CPA) con cui si metteva la parola fine al lungo conflitto tra il Nord (arabo e islamico) e il Sud, popolato in prevalenza da africani (cristiani o animisti). Molti hanno potuto tornare soltanto grazie al governo sud-sudanese che ha garantito la gratuità del viaggio. Un gran numero era scappato da Juba negli anni novanta. Come Stalingrado nella seconda guerra mondiale, la capitale del Sud-Sudan viveva sotto le bombe, assediata dalle truppe ribelli del leader sudista John Garang e rifornita soltanto con un ponte aereo. In base ai dati dell'Alto Commissariato Onu per i rifugiati (HCR) quasi due milioni di sud-sudanesi vivono al Nord (su una popolazione totale di 42 milioni di abitanti di cui una decina di milioni al sud). Alcune questioni, come quella della nazionalità, rendono il loro futuro incerto.
Accampati alla meglio nei dintorni della città sulle rive del Nilo Bianco, i profughi ritornati a casa vengono assistiti dall'HCR e usufruiscono del Programma alimentare mondiale (PAM). Qualche preoccupazione è stata espressa dall'Ong Refugees International. “Questo flusso continuerà anche nei prossimi mesi – si leggeva in un comunicato della fine di febbraio – anche se ha già superato le capacità di assistenza delle autorità sud-sudanesi e delle associazioni che collaborano con il governo”.

Gianni Sartori

ndr in futuro (dato che il Kenya è intenzionato a costruire alcuni oleodotti) il petrolio del Sud Sudan potrebbe prendere la strada del sud, verso il porto di Lamu (Kenya) destinato a diventare un terminale petrolifero.

 

 

Bahrein/
Dietro la repressione

Per gli sciiti (circa il 70% dei cittadini del Bahrein, governato da una monarchia sunnita) la repressione attuale sarebbe ancora più dura di quella subita durante le rivolte degli anni novanta.
Secondo Human Rights Watch non mancherebbero casi di tortura. Un esponente di associazioni in difesa dei diritti umani, Abdulhadi al-Khawaja, era giunto in tribunale con evidenti segni di maltrattamenti, in particolare con numerose fratture al volto. Karm Fakhrawi, militante del partito di opposizione Al-Wifaq, era morto in aprile durante la detenzione. Ufficialmente per complicazioni renali. Ma, come appariva nel video messo in circolazione dal “Centro per i diritti umani del Bahrein”il suo corpo era ricoperto di ferite. Sospetti anche sulla morte di Alì Issa Ibrahim Saqer, un altro manifestante arrestato in aprile, deceduto mentre si trovava in carcere. Un'inchiesta governativa si sta occupando del caso di Nazeeha Saeed, collaboratrice di France 24. La giornalista ha denunciato di aver subito violenze e umiliazioni nel corso dell'interrogatorio.
Di tortura parlano anche i familiari di numerosi manifestanti arrestati a Manama. Oltre ai colpi sul viso, unghie strappate, sevizie sessuali, privazione del sonno. In genere i maltrattamenti avvenivano nel corso dell'interrogatorio. Venivano poi sospesi prima del processo per un arco di tempo abbastanza lungo da far sparire i segni più evidenti. Molti oppositori hanno subito ingiurie di carattere religioso, soprattutto nei confronti della figura del Mahdi, venerato dagli sciiti. I metodi sarebbero stati suggeriti dagli esperti in interrogatori inviati dall'Arabia Saudita. Per i sauditi, sunniti, le credenze e i rituali degli sciiti rappresentano un'apostasia.
Il 22 giugno un tribunale militare del Bahrein ha giudicato 14 oppositori politici, condannandone sette all'ergastolo con l'accusa di aver complottato per rovesciare la monarchia. Pene comprese tra i due e i quindici anni di reclusione per gli altri imputati. L'udienza è durata una decina di minuti. Prima di essere portati in carcere i condannati hanno scandito “Silmiya!” (“pacifico”, in arabo) lo slogan della contestazione iniziata il 14 febbraio e stroncata il 16 marzo. Altri sette imputati sono stati giudicati in contumacia. Il piccolo stato del Golfo è governato dalla monarchia sunnita della famiglia Al-Khalifa mentre i rivoltosi sono in maggioranza sciiti (70% della popolazione). Tra i condannati Abdulwahab Hussain e Hassan Machaimaa, due dirigenti del movimento clandestino sciita che richiede l'instaurazione della repubblica. Agli inizi di luglio era iniziato un cosiddetto “dialogo nazionale” tra governo e opposizione. Il partito liberale Waed aveva dato la sua adesione, diversamente dalla formazione sciita Wifaq. In settembre altre pesanti condanne contro oppositori e medici dell'ospedale dove venivano curati i manifestanti feriti nel corso delle proteste.
Iniziate il 16 marzo 2011, le manifestazioni sono costate la vita di almeno 130 persone, alcune in prigionia. Centinaia i feriti. Anche in giugno, vari raduni dell'opposizione sono stati dispersi violentemente dalla polizia. Da un rapporto del governo statunitense si ricava che gli Usa, poco prima delle rivolte, stroncate con l'aiuto di truppe inviate dall'Arabia Saudita e dal Qatar, avevano confermato la vendita di armi per 220 milioni di dollari al Bahrein. Gli armamenti forniti comprendevano aerei, elettronica bellica, fucili mitragliatori d'assalto. Due pesi e due misure. Mentre in Libia le armi venivano fornite ai ribelli, nel Bahreim sono state vendute all'emiro per fermare la ribellione. Una contraddizione? Forse solo apparente.

Gianni Sartori

 

 

Francia/
Guerra alla Guerra

L'11 novembre, in Francia, si commemora l'armistizio della guerra 14-18.
Malgrado gli 8 milioni di morti ed i 9 milioni di invalidi, nella stragrande maggioranza delle città e villaggi francesi questa giornata é l'occasione per una nauseabonda propaganda guerrafondaia anche a sostegno delle guerre recenti o ancora in corso su diversi fronti: Centrafrica, Libia, Afghanistan nelle queli lo stato francese è tuttora coinvolto.
Sui 36000 monumenti eretti che veicolano il trittico patria-coraggio-vittoria un centinaio si demarcano in modo radicale e ritrovano la memoria di chi ha sofferto e subito queste carneficine.

Gentinoux (Francia) - “Maledetta sia la guerra e chi la fa”
è scritto sulla base del monumento nel centro cittadino

Vecchi ex combattenti, hanno eretto monumenti pacifisti o più esplicitamente contro la guerra. È il caso à Gentiuoux, nella Creuse (Limoges per capirci) dove da una ventina di anni l'11 novembre appunto si ritrovano quanti affermano il loro odio per la guerra e le sofferenze imposte dalla follia dei generali. Un sole esempio : la famosa offensiva del "Chemin des Dames" del generale Nivell che porto agli ammutinamenti di reparti interi, causo la morte di 25.000 uomini al giorno. Questo monumento é stato voluto dal sindaco del villaggio, ex combattente, ed eretto nel 1922. Si vede la statua di uno bambino, pugno chiuso, che si indirizza alla scritta "maledetta sia la guerra". La prefettura non lo ha mai inaugurato ufficialmente ma da allora é meta di pacifisti ed anarchici. Vi partecipano ogni anno circa 400 persone che intonano la Canzone di Craonne – inno furiosamente antimilitarista,la cui diffusione é stata vietata per decenni dal potere - davanti al monumento, levando il pugno contro la coglioneria militare.

Gentinoux (Francia) - 11 novembre 2011- Un aspetto
della manifestazione anti-guerra, che come ogni anno
ha richiamato centinaia di pacifisti e di anarchici

Ciò da luogo ad una manifestazione per alcuni aspetti surrealista. Alle 11 del mattino precise un gruppetto smilzo con bandiera francese in testa si fa largo tra la folla, avanza verso il monumento. Un "eletto" fa un piccolo discorso immancabilmente fischiato dai 400 militanti pacifisti ed anarchici presenti , ricordando quanti sono morti per la patria , per i suoi valori e poi si defila in buon ordine . Malgrado il fatto che il monumento non abbia mai avuto un riconoscimento ufficiale, lo stato ed i suoi rappresentanti non abbandonano la piazza ai pacifisti ed agli antimilitaristi. Dopo la loro partenza incomincia la vera commemorazione. Si succedono sul palco i pacifisti e gli anarchici,chi vuole parte poi per il cimitero di un villaggio vicino (Royère di Vassivère) per posare una corona di fiori sulla tomba di un fucilato per l'esempio. Durante la guerra 14-18 furono fucilati in Francia circa 650 militari scelti a caso fra la truppa, per appunto dare l'esempio e mostrare che cosa sarebbe successo a chi osava far opera di fraternizzazione con il nemico o propagava idee sovversive ed antimilitariste.
Alla fine della commemorazione gli anarchici si ritrovano tutti allo spazio Villard per un pasto in comune, discutere, comperare libri esposti sulle varie bancarelle, tessere contatti, rifare il mondo finalmente federati sotto il motto: ieri come oggi "guerra alla guerra".

Paolo Soldati
soldati.paolo@wanadoo.fr

 

 

Indignados/
“Occupy Wall Street” visto da Portland, Oregon

Quarant’anni or sono Portland era considerata una città mediocre. Due esempi: veniva scelta come prototipo della mentalità dell’americano medio e prescelta come sede di punizione per un impiegato governativo di alto livello che avesse commesso qualche marachella (un po’ come la nozione del “domicilio obbligato, coatto o meno, in Italia).
Oggi le cose sono alquanto cambiate e quel che succede a Portland è spesso scaraventato fotograficamente nel maggior quotidiano nazionale, il New York Times (c. il numero di sabato 29 ottobre, sezione A, p. 10). Nell’edizione odierna del giornale nuovaiorchese viene infatti riprodotta la metà del bel manifestino in cartoncino colorato che veniva agitato dai manifestanti della dimostrazione avvenuta ieri in piazza nel massimo centro urbano dell’Oregon. Qui va fatta una precisazione importante. L’illustrazione apparsa a p.10 fa vedere soltanto lo slogan “i am the 99%” e non la parte inferiore che potrebbe essere concepita come un’apologia dell’Anarchia. Raffigura difatti 4 dimostranti in rosso che agitano quattro cartelloni rossi con, dirimpetto, uno che sventola una bandiera nera e altri, vestiti di nero, che fanno il segno della vittoria o innalzano un cartellone nero. La simbologia è piuttosto chiara anche se purtroppo non corrisponde alla realtà. Difatti sia marxisti che anarchici non sono compresi nel programma, né come oratori, né come co-organizzatori di questa dimostrazione. Forse per questo i rari poliziotti che circolano non indossano la tenuta anti-sommosse e rassomigliano ad innocui vigili urbani. Come si vedrà non lo dico negativamente.
Ma chi sono gli organizzatori di questa manifestazione e a che orizzonte appartengono gli oratori?
Le chiese sono ampiamente rappresentate: 5 oratori. Nessuna organizzazione atea o agnostica lo è. Ma non importa.
I parlamentari sono rappresentati, ma solo i democratici, i repubblicani si sono astenuti e nessuna formazione di sinistra è ufficialmente presente: Ma non importa.
L’unico sindacalista è membro della centrale riformista, l’AFL-CIO. Nessun sindacato autonomo: Ma non importa.
Perché dico che non importa? Intanto perché s’è parlato molto di rivoluzione, non nel senso di affrontamento violento, di barricate e bombe. Piuttosto di rivoluzione economica (dalla bocca di uno degli oratori) o, implicitamente, di rivoluzione morale, delle coscienze, dei comportamenti. Non è già di per sé una rivoluzione scendere in piazza, rivendicare, opporsi al capitalismo sfrenato, avanzare proposte alternative? Per un popolo avvezzo all’apatia, socialmente inconsapevole, che misconosce il resto del mondo e cha ha recentemente scoperto (tramite i film di Moore, i libri di Chomsky, le statistiche delle Nazioni Unite, dell’UNESCO, dell’OMS, dell’OIL) che il governo continua a propinar menzogne e a celare la verità agli americani, che questo paese ha cessato di essere un paradiso (semmai lo èstato) e che c’è molto cammino da percorrere in campo sanitario, assistenziale, educativo, sociale e via di seguito, scendere in piazza è una rivoluzione, prendere in mano le redini della propria vita, abituarsi alla solidarietà dopo decenni e secoli di disciplina, di cieca ubbidienza, di cultura tendente alla concorrenza (essere i “primi” in tutto, essere “i migliori”), cercare e proporre delle soluzioni, riunirsi con sconosciuti, discutere, negoziare, praticare, insomma, la democrazia diretta.
La rivoluzione in America non la possono fare le sparute compagini neo marxiste o socialiste libertarie, la può fare solo il popolo desto, alla maniera locale. Creando strutture alternative (come le banche alternative il cui elenco circolava ieri), nella lotta ecologica (contro i costosi e dannosi oleodotti progettati in comune dal Canada e dagli Stati Uniti), fondando grandi cooperative di produzione, trasporto e consumo, creando fonti di lavoro, esigendo una più equa remunerazione per il lavoro svolto, e così via.
Anni or sono quando proponevo una lotta comunalista per frenare il caro vita citavo due esempi. Il primo era quello dell’alto costo del ritiro dei rifiuti. Facevo un paragone fra Portland, Nizza e San Remo, città nelle quali alloggiavo alternativamente, pagando lo stesso canone, con la differenza però che nella mia città nativa la raccolta della spazzatura avveniva due volte al giorno mentre a Portland passavano una sola volta alla settimana. L’obiezione immancabile era: e chi paga la differenza? A nessuno veniva in mente che il costo superiore era, a Portland, quello dell’intermediario, rapace o meno, ma comunque superfluo. Il dilemma era invece quello del servizio municipale contro la privatizzazione. Oggi c’è già chi pensa ad un ritorno al sistema dei servizi pubblici Il secondo esempio portava sul servizio del Pronto Soccorso. In America, chiamare un’ambulanza è costosissimo soprattutto se non si è assicurati. A San Remo, con mia somma sorpresa, l’ unica volta che me ne sono servito è stato gratis, a carico della Croce Rossa. Al volante un infermiere, accanto a lui un medico, entrambi volontari. Quando ho chiesto se dovessi qualcosa mi hanno risposto: il servizio è gratis, ma nulla la impedisce di fare un’offerta, se e quando può.
In fin dei conti non vedo perché la Croce Rossa Americana non potrebbe offrire lo stesso servizio. In fin dei conti, quando doniamo il sangue, impiegando a volte un tempo prezioso o accorrendo alla loro clinica quando chiamati d’urgenza, non ci stiamo sdebitando in anticipo per un’eventuale futura nostra necessità?
Queste e altre proposte concrete del genere avrei formulato se mi fosse stato proposto il microfono. Non è avvenuto perché la dimostrazione era programmata in tutti i particolari e se si fosse annunciato il microfono libero l’incontro, durato ormai due ore, si sarebbe eccessivamente prolungato.
Una mia amica era delusa per la scarsa presenza. Ci saranno state duemila persone, il che in una città di mezzo milione di abitanti non rappresenta certamente il 99%, ma ci si deve render conto che mobilitare grandi masse, nel bel mezzo di una giornata lavorativa non è facile, soprattutto all’ora di pranzo. In più, dopo altre manifestazioni già avvenute nei giorni precedenti e prima di nuove dimostrazioni con data già annunziata.
All’insegna di This Land Is Our Land l’evento aveva un sapore un po' patriottico e, forse, non ci si è neanche accorti che il programma conteneva un pezzo ben noto del cantautore anarcosindacalista Guthrie, attivo militante del glorioso sindacato IWW, che i Guthrie (Woodie e Arlo, padre e figlio) hanno cantato per sette decenni: This Land Is Your Land.
Un plauso sincero merita l’iniziatore, Tom Lauderdale, noto pianista locale, fondatore del complesso Pink Martini, coadiuvato da brave cantanti e da ottimi solisti. Gli oratori sono stati inaspettatamente “spinti” e l’incontro è risultato positivo e pervaso da uno spirito nuovo. Ci lascia con la speranza – in passato troppo spesso delusa – di stare assistendo al sorgere di una nuova America, che pretende autogovernarsi. Proprio quello che, anche in modo anomico, corrisponde ai dettami di quel che noi chiamiamo anarchismo.

Pietro Ferrua

 

 

Sardegna/
Tutto a posto nel Poligono?

I risultati delle analisi svolte dall'Istituto Zooprofilattico della Sardegna su campioni biologici prelevati dagli allevamenti che insistono sul territorio del PISQ (Poligono Interforze del Salto di Quirra – ce ne siamo occupati in “A” 365, ottobre 2011 – n.d.r.) sono stati presentati come se si avesse finalmente la verità: l'attività militare non fa poi così male, è compatibile addirittura con l'allevamento, e gli allarmi ripetuti nel tempo, le morti, i detriti bellici interrati, i ritrovamenti di inquinanti, le malformazioni, tutto ciò non è che un incubo che deve essere rimosso e dimenticato.
Poche voci si sono levate per discutere queste rapide conclusioni, tra esse quella (inaspettata) di Legambiente, e ci sarebbe da dire che comunque la lettura dei dati potrebbe anche essere del tutto diversa da quella presentata. La metà dei reperti di fegato e reti presenta eccessi di cadmio e piombo, sette allevamenti mostrano problematiche di varia natura, ma soprattutto desta preoccupazione il fatto che le sostanze inquinanti che in passato erano state con certezza ritrovate (soprattutto nanoparticelle di vari metalli pesanti e torio radioattivo), oggi non siano più riscontrabili, infatti ciò significa che risultano disperse nell'ambiente, e non più concentrate in un'area identificabile e bonificabile.
È quindi sempre meno comprensibile il ragionamento che ha portato il Ministero a parlare prima della bonifica di 700 ettari , ridotti poi addirittura di 7 ettari ! Di quali aree si sta parlando? Di quali modalità di bonifica?
Già sappiamo che da metà dicembre dovrebbe partire lo studio epidemiologico annunciato dall'Assessorato Regionale (su quello promosso dal Ministero della Difesa non vale la pena pronunciarsi, se non per lo spreco di denaro pubblico in semplici atti di propaganda). Avremo finalmente un lavoro localizzato sui residenti della zona di Quirra, oppure ancora una volta si studierà tutta l'Ogliastra per dire che chi è morto non ha comunque "rilevanza statistica"? (e pace all'anima sua..)
Sono in molti a sentire che si sta commettendo una ingiustizia.
Questo apparente conflitto tra apparati dello Stato non poteva che produrre un compromesso che, infine, assolve lo Stato dalle sue responsabilità e gli permette di continuare i suoi interessi. E se ci sarà un processo, questo si limiterà – forse – ad identificare qualcuno che pagherà per tutti, mentre a pagare davvero, con la propria salute, e dignità, saranno fino in fondo le popolazioni.
E infatti già sale la recinzione che divide definitivamente vincitori e vinti, e sottrae da sguardi indiscreti i segreti militari ed industriali del Poligono.
È davvero finita qui? Ci si può convincere che questi dati possano far zittire l'opposizione ad una presenza che mortifica il territorio sotto tutti i punti di vista?
Chi pensa questo non ha capito che il soldato non è un lavoro qualsiasi, e forse ritiene trascurabile che il PISQ sia un luogo dove la guerra viene pensata, progettata, sperimentata, analizzata. Per poi metterla in pratica.
Forse il Poligono di Quirra non produce esattamente carne e formaggi...
Buon appetito con i veri prodotti di Quirra!

Atobiu
dei Gruppi Autogestiti per lo Smantellamento del PISQ
http://smantellamentopisq.blogspot.com

 

 

Expo 2015/
Pratiche di resistenza e nuove visioni

Nelle stanze dei bottoni della città di Milano, e non sono poche, da tre anni si lavora a reti unificate per affascinarci con la visione di un Expo innovativo, sostenibile, partecipato.
Facciamo un passo indietro, anzi in alto. Proviamo, con un esercizio d'immaginazione, a sorvolare a bassa quota la metropoli nel tentativo di comprendere alcune peculiarità dell'expo milanese proprio a partire dalla sua diffusione sul territorio: una parte dei padiglioni troveranno spazio nel polo fieristico di Rho, il più grande d'Europa (un'operazione vetrina di vilipendio del territorio agricolo periurbano che ha visto la luce nel 2005 ed oggi minata da caporalato e precarietà); a poche centinaia di metri sorge la Cascina Merlata (in fase di crollo a causa del naufragato progetto Villaggio Expo); i nuovi padiglioni temporanei (espressione poco chiara di un equilibrismo di green economy, orto globale e fiera dell'innovazione tecnologica in campo agroalimentare) sorgeranno qui vicino, poco oltre la ferrovia. Proviamo ora a prendere quota, sotto i nostri occhi possiamo scorgere ora tutta la città: non possiamo apprezzare il progetto di riqualificazione delle sessanta cascine demaniali, rimasto carta per opuscoli; anche il progetto delle vie di terra (corridoio verde in centro città) è stato accantonato a causa della crisi, il mantra con cui si giustifica ogni promessa non mantenuta nella metropoli meneghina. Resterebbe il bel progetto delle vie d'acqua di collegamento e rilancio dei navigli navigabili (insensato sotto il profilo idrogeologico, faraonico sotto il profilo della spesa).
Di ritorno dal nostro tour immaginifico un'osservazione sorge spontanea: se le articolazioni dirette e tangibili di questo expo sono tanto fragili ed evanescenti, la potenza del brand Expo si dipana altrove dentro e fuori la città di Milano e si farà nei prossimi anni motore di speculazioni legate al mattone, al turismo, alle infrastrutture, alla gestione di servizi all'impresa e alla persona.
Di questi temi, di pratiche di resistenza e nuove visioni della città abbiamo parlato nel primo campeggio di azione climatica, lo scorso giugno. Dal 14 dicembre siamo tornati a costruire a Milano le basi di un secondo ClimateCamp, un percorso di cooperazione sociale capace di farsi laboratorio di azione, comunicazione, conflitto.

Abo

 

 

Trapani / Un'altra vita
In cantiere

La vicenda del Cantiere Navale di Trapani (CNT) dovrebbe essere nota, ormai.
Cinquantotto lavoratori sono in cassa integrazione da mesi, e l’unica prospettiva offerta dal padrone è il licenziamento.
È altrettanto noto che le motivazioni ufficiali addotte dall’azienda per giustificare la distruzione di questa realtà produttiva sono del tutto inconsistenti. La crisi del settore non ha mai messo a repentaglio l’esistenza del Cantiere Navale, tanto che le commesse non sono mai state un problema e il lavoro non è mai mancato.
Al contrario, i lavoratori hanno assistito a una gestione aziendale perdente, a un lassismo che ha mandato alla malora strumenti di lavoro e infrastrutture, a un’arroganza padronale senza precedenti.
Il risultato è che, allo stato attuale, il Cantiere Navale versa in condizioni disastrose dal punto di vista finanziario e l’azienda non sa proporre niente di meglio che la mobilità in attesa di tempi migliori. Probabilmente, i “tempi migliori” saranno quelli in cui il padrone potrà esternalizzare la produzione, assumendo a condizioni schiavistiche manodopera poco qualificata, massimizzando i profitti e abbattendo i costi.
Di fronte a tutto questo, il sindacalismo concertativo ha assunto atteggiamenti tristemente conosciuti, da decenni a questa parte, nelle vertenze di tutta Italia: massima apertura alle aspettative padronali, disciplinamento dei lavoratori, autoritarismo nei rapporti tra rappresentanti e rappresentati.

Quella del Cantiere Navale di Trapani poteva essere una storia come tante, con un finale già scritto. Invece, è successo qualcosa di inaspettato.
Dopo mesi di agitazione, trentasei lavoratori hanno rotto con i sindacati e hanno deciso di prendere le decisioni in prima persona. Hanno costituito un collettivo autorganizzato e hanno cominciato a discutere fra di loro, senza burocrati o professionisti della concertazione. Hanno piantato una tenda all’ingresso del cantiere navale costruendo un presidio permanente che dura da più di due mesi. A poco a poco hanno cominciato ad assaggiare il gusto della partecipazione, della solidarietà, del mutuo appoggio. Infine, quando il silenzio ostile delle istituzioni e delle “autorità competenti” si è fatto più assordante, i lavoratori hanno occupato una petroliera, costruita con le loro mani, ormeggiata da mesi al cantiere.
La nostra solidarietà – concreta e disinteressata – agli operai in lotta, fa parte del nostro codice genetico. Siamo anarchici e, in quanto tali, non possiamo che stare al fianco dei lavoratori, degli oppressi, di tutti coloro i quali subiscono un’ingiustizia. Allo stesso tempo, proprio perché anarchici, sentiamo l’esigenza di esprimere il nostro punto di vista e offrire le nostre proposte per cercare soluzioni praticabili.
Noi rispettiamo profondamente il desiderio di stabilità e sicurezza dei lavoratori del Cantiere Navale di Trapani e delle loro famiglie, specialmente in questi tempi di crisi. E non ci scandalizzeremmo se, tra gli stessi lavoratori, nascesse la comprensibile aspettativa di vedere il loro cantiere navale gestito da un soggetto imprenditoriale più capace, più trasparente o più corretto.
Tuttavia, noi non crediamo che ci siano padroni buoni. Al contrario, pensiamo che fino a quando esisterà il lavoro salariato, non ci sarà mai alcuna possibilità di vivere una vita degna di questo nome.
I licenziamenti, la chiusura delle fabbriche, le crisi economiche, sono tutti prodotti del sistema capitalistico e della logica del profitto. Non è possibile sperare di ottenere miglioramenti sostanziali restando nell’ambito di questo recinto angusto dove da una parte c’è chi lavora, e dall’altra c’è chi vive del lavoro altrui.
Questa analisi non può che rafforzare la nostra volontà di realizzare le aspirazioni per le quali lottiamo ogni giorno: l’abolizione della proprietà privata, l’abbattimento di tutti i poteri gerarchici, la costruzione del comunismo libertario.
Ma a dispetto dei nostri detrattori, noi anarchici abbiamo i piedi per terra, e sappiamo che, purtroppo, la rivoluzione sociale non è esattamente dietro l’angolo, tanto meno a Trapani.
Nonostante ciò, pensiamo che i problemi del Cantiere Navale possano comunque essere affrontati con un approccio radicalmente diverso.
Il cooperativismo, se correttamente applicato e ispirato ai suoi valori originari, è uno strumento efficace che permette di riequilibrare le forze in gioco in un sistema capitalistico. I lavoratori, piuttosto che lavorare per gonfiare il conto in banca di un padrone, autogestiscono la produzione superando l'assetto gerarchico dell'azienda per sostituirlo con rapporti di lavoro orizzontali, ispirati, sia per quanto concerne la forma sia per quanto riguarda la retribuzione, ai princìpi dell'uguaglianza e della solidarietà. Quotidianamente, in Italia e nel mondo, migliaia di lavoratori organizzati in cooperative dimostrano che un modo alternativo di intendere il lavoro – libero dai ricatti, dalla speculazione e dall'avidità – è possibile.
La recente storia della cantieristica italiana ci ha offerto esempi molto simili alla vertenza del CNT, risolti, dopo lunghe e logoranti lotte dei lavoratori, proprio con la costituzione di cooperative che, rigettando la logica del profitto a tutti i costi e in nome del mutuo appoggio, hanno permesso la revoca dei licenziamenti e la creazione di nuovi posti di lavoro.
Un esempio lampante, in tal senso, è quello degli operai dei Cantieri Navali “Megaride” di Napoli, i quali, dopo essere stati sfruttati per anni, in seguito alla gestione criminale dell'azienda, ricevettero un giorno la lettera di licenziamento.
Non si arresero e, dopo una lunga lotta – fatta di presidi permanenti e occupazioni – presentarono nei confronti dell'azienda un'istanza di fallimento che, una volta accettata dal giudice, gli diede la possibilità di rilevare il cantiere dopo essersi costituiti in cooperativa. Ancora oggi, i Cantieri “Megaride” sono una florida realtà produttiva.
Anche nel caso del Cantiere Navale di Trapani, l'ipotesi cooperativistica ci sembra una strada percorribile.
Siamo consapevoli che ogni scelta debba tenere conto del contesto in cui matura, e siamo altrettanto coscienti che ogni esperienza ha le sue peculiarità. Tuttavia, è possibile trarre validi spunti di riflessione a partire dal patrimonio di lotte e conquiste portate avanti da altre realtà in altri territori.
Evidentemente, la costituzione di una cooperativa non è una proposta rivoluzionaria.
Si tratta, piuttosto, di un primo passo in direzione di qualcosa di diverso dall'esistente.
E non ci pare poco.

Gruppo Anarchico “Andrea Salsedo” – Trapani