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A proposito di Berneri / Botta...

Davvero strabiliante la recensione degli atti del Convegno Un libertario in Europa, dedicato a Camillo Berneri nel 2007 (pubblicata su “A” n.° 365, di ottobre 2011). Quel che più s’apprezza sono la competenza e l’attitudine davvero rispettosa e distaccata verso gli interventi ivi contenuti. Un crescendo di giudizi suffragati non solo da vero ardore scientifico, ma anche da grande tolleranza, apertura al dibattito e sensibilità libertaria, che culminano nell’uso di espressioni precise ed inequivocabili. Per quanto attiene alla mia relazione, leggo ad esempio di una “procedura grossolana da un punto di vista storiografico e politicamente molto discutibile”. Complimenti.
Per quale motivo tanto nervosismo? Antonio Senta, che firma il pezzo, spiega innanzitutto che avrei la colpa di optare per “una interpretazione del pensiero berneriano alla luce dell’attività politica contemporanea”. Ammesso (ma per nulla concesso), mi si consenta di osservare sommessamente che qualsiasi lavoro “interpreta” l’autore: non potrebbe essere altrimenti. Del resto, Berneri dovrebbe forse vivere “mummificato”? Non è la stessa recensione a portare il titolo “Perché è importante (e attuale) Camillo Berneri”?
Di seguito, a prima vista, è certo singolare accusare un lavoro di essere “politicamente molto discutibile” perché, udite udite, mirerebbe alla “contaminazione fra anarchismo e politica”.
Mi rendo conto della difficoltà, però quando si scende su un terreno sdrucciolevole occorre dotarsi di scarpe adatte. Se egli teme la “contaminazione” si tenga lontano dal “contagio”. Altrimenti non s’arrabbi se presta il fianco. Si chieda quindi anche il nostro cosa ha scritto. In questi tempi domina una forma astrusa della politica che sa definirsi solo per opposizioni (e senza sintesi): l’“antipolitica”, oggi tanto di moda. Viceversa, una volta era molto popolare dir che “tutto è politica” e, dal canto loro, le femministe degli anni ‘70 (e non senza ragioni) arrivarono a sostenere che persino “il personale” fosse “politico”! Mutatis mutandis, il Senta sia coerente: se l’anarchismo non ha nulla a che fare con la politica, se deve sempre essere “impolitico” o “antipolitico”, allora non scomodi le categorie della politica.
Cerchi piuttosto di spiegarci con parole adeguate (in primis al suo discorso) dove e perché risulterebbe tendenziosa la mia relazione. Il problema principale sta tutto qui: le definizioni critiche non sono per nulla suffragate da confutazioni documentate e di specie. Allora la cosa s’aggrava e le espressioni sgradevoli – che andrebbero comunque evitate a priori – risultano infine anche gratuite.
Senta mi accusa di “utilizzare le più diverse citazioni di Berneri per dare valore alle [mie] teorie”. A lui “sembra che le idee, a volte anche stridenti tra loro, che Berneri elaborò nel corso della sua militanza, subiscano una torsione continua.” Ma ce n’è anche per Giampietro Berti, che offrirebbe: “una lettura impietosa che paga la fascinazione per un Berneri considerato come fautore e protagonista di una scienza politica anarchica”. Naturalmente anche lui: “nel suo intervento ... forza gli avvenimenti del Novecento e l’attività di Berneri dentro una cornice teorica ben discutibile”. Senta vuol davvero sostenere tutto ciò? Allora spieghi perché, indichi dove, confuti pure, ma a ragion veduta!
Anche a me “sembra” qualcosa. Come spesso capita, la fonte del disagio che scatena la vis polemica par denunciarsi già nella prima e più elaborata obiezione. Scrive Senta: “Berneri, rimarca Berti (...), sarebbe stato il primo a operare una divisione tra giudizi di valore e giudizi di fatto, aprendo le porte ad un anarchismo inteso come ricerca di soluzioni politiche. Tale interpretazione è centrale anche nella relazione di Stefano d’Errico”.
Sì, è proprio questo il punto. Andiamo con ordine caro Senta. Mi sono convinto da tempo che l’insegnamento più alto che ci ha lasciato Berneri sia contenuto in questa frase:

“Non è dunque la cosa che si pensa che costituisce la libertà, ma il modo con il quale la si pensa” (1).

Non si tratta di una riflessione isolata, perché il lodigiano ha poi scritto:

“Oggi è costume ridere della retorica fascista. Ma siamo delle scimmie che ridono davanti ad uno specchio” (2).

Ed ecco un collegamento con il presente: anche in tempi di politically correct, la confusione fra giudizi di fatto e giudizi di valore è quanto mai d’attualità.
Cultura e pratica d’analisi sono invece per Berneri indispensabili alla maturazione della coscienza e della sensibilità libertaria, ed è per questo che mostra di aborrire l’ideologismo, statico e immutabile:

“Un anarchico non può che detestare i sistemi ideologici chiusi (teorie che si chiamano dottrina) e non può dare ai principi che un valore relativo” (3). “Lo confermo: a me il richiamo ai principi non fa né caldo né freddo, perché so che sotto quel nome vanno delle opinioni. (…) Io ho dei principi e tra questi vi è quello di non mai lasciarmi impressionare dal richiamo ai principi. (…) L’uomo che «parte da principii» adotta il ragionamento deduttivo, il più infecondo e il più pericoloso. L’uomo che parte dall’esame dei fatti per giungere alla formulazione di principii adotta il ragionamento induttivo: che è l’unico veramente razionale” (4).

Questo lo scrisse, naturalmente, non perché non avesse principi (ché per dei principi ha dato la vita), bensì perché non sopportava – come nel caso dell’astensionismo, che criticò proprio in linea di principio, non ritenendolo valido in assoluto –, che si confondessero i metodi con i principi e che questi ultimi, sottratti alla sperimentazione, diventassero poi inamovibili. Il lodigiano non sopportava la superficialità raffazzonata ed invasata dei neofiti e la sicumera di alcuni dottrinari dell’anarchismo:

“Noi siamo sprovvisti di coscienza politica nel senso che non abbiamo consapevolezza dei problemi attuali e continuiamo a diluire soluzioni acquisite dalla nostra letteratura di propaganda. Siamo avveniristi, e basta. (…) È l’ora di finirla coi farmacisti dalle formulette complicate, che non vedono più in là dei loro barattoli pieni di fumo; è l’ora di finirla coi chiacchieroni che ubriacano il pubblico di belle frasi risonanti; è l’ora di finirla con i semplicisti, che hanno tre o quattro idee inchiodate nella testa e fanno da vestali al fuoco fatuo dell’Ideale distribuendo scomuniche”(5).
“Anche fra noi vi è il volgo, difficile a fare orecchio nuovo a musica nuova, che ad impostazioni di problemi e a soluzioni oppone vaghi disegni utopistici e grossolane invettive demagogiche. Ché quelle quattro ideuzze, racimolate in opuscoletti didascalici o in grossi libri incompresi, nel cervelluccio inoperoso si sono accucciate e se ne stan lì, al calduccio di una facile retorica che pretende essere forza solare di una fede intera, mentre non è che focherello fumoso” (6).

Se non si è artefici delle proprie convinzioni, se non si declina quell’alta forma di “laicismo” (sperimentale) insito nell’autonomia del pensiero e nell’onestà intellettuale, si finisce per convincersi di una cosa solo perché la dicono gli altri: secondo qualche sociologo, trattasi della (non meditata) opinione del “branco” (qualunque branco). Al contrario:

“l’anarchismo deve conservare quel complesso di principi generici che costituiscono la base del suo pensiero e l’alimento passionale della sua azione, ma deve sapere affrontare il complicato meccanismo della società odierna senza occhiali dottrinari e senza eccessivi attaccamenti all’integrità della sua fede” (7).

Berneri lavorava ad un programma:

“i nostri migliori, da Malatesta a Fabbri, non riescono a risolvere i quesiti che ci poniamo, offrendo soluzioni che siano politiche. La politica è calcolo e creazione di forze realizzanti un approssimarsi della realtà al sistema ideale, mediante formule di agitazione, di polarizzazione e di sistemazione, atte ad essere agitanti, polarizzanti e sistematizzanti in un dato momento sociale e politico.
Un anarchismo attualista, consapevole delle proprie forze di combattività e di costruzione e delle forze avverse, romantico col cuore e realista col cervello, pieno di entusiasmo e capace di temporeggiare, generoso e abile nel condizionare il proprio appoggio, capace, insomma, di un’economia delle proprie forze: ecco il mio sogno. E spero di non essere solo” (8).

Voleva un anarchismo inserito socialmente e “dentro” la storia:

“L’anarchismo è il viandante, che va per le strade della storia, e lotta con gli uomini quali sono e costruisce con le pietre che gli fornisce la sua epoca” (9).

Ma ha scritto anche di “peggio”:

“Qualunque società non può soddisfare interamente i bisogni di libertà dei singoli. La volontà delle maggioranze non è sempre conciliabile con quella delle minoranze. Qualunque forma politica presuppone la subordinazione delle minoranze. Quindi autorità. Sfuggire l’autorità vale fuggire la società. Nella botte di Diogene può stare il singolo, un popolo ha bisogno della città” (10).

Era forse per questo un democratico tout court o, peggio, un “autoritario”? La cosa è più complessa:

“L’anarchia mi pare risulti dall’approssimarsi, identificarsi mai, ché sarebbe la stasi, della libertà e dell’autorità. Come principi. Come fatti, libertà e autorità stanno tra loro come verità ed errore; come enti che differenziano e si identificano, nel divenire storico” (11). “La negazione a priori dell’autorità si risolve in un angelicarsi degli uomini ed in uno sviluppo irrompente di un genio collettivo, quasi immanente alla rivoluzione, che si chiama iniziativa popolare (...) Il problema delle rappresentanze, il problema dei rapporti intercomunali, il problema della surrogazione dello Stato: tutto questo ha soluzioni o strettamente parziali o del tutto insufficienti perché ottimistiche o anacronistiche” (12).

E v’è un indubbio iato fra autoritarismo ed autorevolezza.
In sintesi, ecco la differenza fra “l’anarchia” e l’“anarchismo” (l’idea e la sua forma politica):

“l’anarchico comprende che nella storia si agisce sapendo essere popolo per quel tanto che permette di essere compresi e di agire, additando mete immediate, interpretando reali e generali bisogni, rispondendo a sentimenti vivi e comuni. (...) La storia è opposizione e sintesi. L’anarchismo, se vuole agire nella storia e diventare un grande fattore di storia, deve aver fede nell’anarchia, come una possibilità sociale che si realizza nelle sue approssimazioni progressive. L’anarchia come sistema religioso (ogni sistema etico è di sua natura religioso) è una «verità» di fede, quindi per propria natura, evidente soltanto a chi la può vedere. L’anarchismo è più vivo, più vasto, più dinamico. Egli è un compromesso tra l’Idea e il fatto, tra il domani e l’oggi. L’anarchismo procede in modo polimorfo, perché è nella vita. E le sue deviazioni stesse sono la ricerca di una rotta migliore” (13).

Berneri è quindi

“un anarchico che crede all’anarchia e, ancor più, all’anarchismo” (14).

Non si tratta forse di espliciti richiami alla politica?
Ecco il problema: chi è abituato a vivere la militanza (e la politica) in termini religiosi, tanto da confondere il politicantismo (o “politicismo”) con la politica tout court, rischia di credere impossibile l’autogoverno della polis (forma eminentemente politica, che Senta poi cita contraddittoriamente anche come “antidoto” alla politica stessa). Chi pensa così, rischia, oggi come ieri, di credersi “il più anarchico di tutti”. Ma non si tratta che di una “anarchia” metafisica, che si dovrebbe (e potrebbe) realizzare senza programma, senza forme politiche e senza progetto (ovvero senza se stessa: un’anarchia “immateriale”).
Chi ragiona così, lo fa essenzialmente perché abituato a pensare che giudizi di fatto e giudizi di valore siano intercambiabili. Perciò vede necessariamente in chi parla di anarchismo politico l’attitudine alla “mediazione politica” la più dozzinale, l’attitudine a passare per forza “dal campo della riforma possibile” (mai sentito parlare della differenza fra gradualismo e riformismo?), e quindi lancia l’anatema. Da qui la dietrologia, il processo indiziario. Per Senta io vorrei “l’attività politica di governo (...) la mediazione dall’alto tra interessi contrastanti”, cosa che porterebbe niente di meno che “all’estinzione dell’anarchismo”! Quale sarebbe invece la via? Ma naturalmente “l’autogoverno degli uomini e delle donne, cioè democrazia diretta, cioè autogestione”... Perbacco! E non sono forme della politica?
La recensione di un libro non può essere meno argomentativa di una canzone dei Nomadi (che identificavano chiaramente ciò che di negativo c’è nella politica del conformismo, dello stato e della delega assoluta: “che è solo far carriera”).
Il grande compito dell’anarchismo sta nel lavorare contro l’autonomia della politica, contro l’idea inveterata che il fine giustificherebbe i mezzi, contro ciò che nega una politica a guida etica.
Tutto ciò però non autorizza a confondere i mezzi con i fini, a far assurgere i metodi alla stregua di immutabili principi. L’amore o l’odio per la politica imperante non autorizza a far di questa l’unica politica possibile. Il richiamo etico, proprio perché prioritario, non può essere astratto ed idealistico. Si declina invece giocoforza nella storia (ed anche in politica): si chiama etica della responsabilità. Scrisse Berneri:

“Essere col popolo è facile se si tratta di gridare: Viva! Abbasso! Avanti! Viva la rivoluzione! – o se si tratta semplicemente di battersi. Ma arriva il momento in cui tutti domandano: Cosa facciamo? Bisogna avere una risposta. Non per far da capi, ma perché la folla non se li crei” (15).

E questo si collega alla necessità di un progetto, perché la rivoluzione non è (non può essere) la palingenesi, né, per gli anarchici, l’equivalente di un colpo di stato (quindi occorre considerare il livello di coscienza e ‘maturazione’ della società civile). Ergo, è necessario un approccio umanista:

“Anche riguardo alla tolleranza il giusto morale e l’utile politico concordano. (...) La tolleranza è un concetto squisitamente nostro, quando non si intenda con questo termine il menefreghismo. L’anarchia è la filosofia della tolleranza” (16).

La rivoluzione non si può fare ‘inaudita altera parte’, anche perché nessun movimento politico sarà mai solo sulla scena della rivoluzione (come verificato dagli anarchici spagnoli, nonostante fossero i più forti), ed ecco il problema, squisitamente politico, delle alleanze (cui Berneri, come tutti sanno, lavorò alacremente ad esempio con i fratelli Rosselli).
In quanto alle critiche (che Berneri ricevette in abbondanza), lo confortava una frase di Malatesta, il cui ritaglio (sistema di raccolta e catalogazione molto usato dal lodigiano), conservava gelosamente:

“Chi non si sente più anarchico si ritira da sé, in maniera più o meno franca ed elegante; e chi si sente anarchico resta tale anche se nell’interpretazione tattica dell’anarchismo fosse il solo della sua opinione” (17).

Berneri è talmente eterodosso da nobilitare il ‘revisionismo’ in campo anarchico:

“Non temiamo quella parola revisionismo, che ci viene gettata contro dalla scandalizzata ortodossia, ché il verbo dei maestri è da conoscersi e da intendersi. Ma troppo rispettiamo i nostri maggiori, per porre costoro a Cerberi ringhiosi delle proprie teorie, quasi come ad arche sante, quasi come ai dogmi. L’autoritarismo ideologico dell’ ipse dixit non lo riconosciamo che come canovaccio di comuni motivi ideali, non come schema da svilupparsi in pure e semplici volgarizzazioni” (18).

Condividere il pensiero berneriano non è obbligatorio, ma certo non gli si rende un buon servizio facendolo passare per un ortodosso...
Io le citazioni di Berneri le ho fornite (e nei miei lavori ognuna è contraddistinta da una nota). Aspetto quelle di Senta (e magari anche un paio di libri documentati sul pensiero del lodigiano che risulteranno certamente meno “grossolani” dei miei).

Stefano d’Errico
(Roma)

Note

  1. C. Berneri, L’ateismo di propaganda, da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 1.2.1936.
  2. C. Berneri, Della demagogia oratoria (II), da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 7.3.1936, riportato fra i testi di complemento nell’edizione curata da P. C. Masini di C. Berneri, Mussolini grande attore, Ed. dell’Archivio Famiglia Berneri, Comune di Pistoia, 1983.
  3. C. Berneri, Astensionismo e anarchismo, da “L’Adunata dei Refrattari”, N.Y. 25.4.1936.
  4. C. Berneri, I principii, da “L’Adunata dei Refrattari”, New York 13.6.1936.
  5. C. Berneri, Anarchismo e federalismo. Il pensiero di Camillo Berneri, da “Pagine libertarie”, Milano 20.11.1922.
  6. C. Berneri, Per un programma d’azione comunalista, manoscritto del 1926 rimasto inedito sino al 1964.
  7. C. Berneri, Anarchismo e federalismo. Il pensiero…, cit.
  8. C. Berneri, Per un programma d’azione comunalista, cit.
  9. C. Berneri, Sovietismo, anarchismo e anarchia, da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 15.10.1932.
  10. C. Berneri, La concezione anarchica dello Stato, inedito incompiuto del 1926, conservato presso Archivio Famiglia Berneri – Aurelio Chessa (ABC), Reggio Emilia.
  11. C. Berneri, Libertà ed autorità, in “Fede!”, Roma 22.6.1924.
  12. C. Berneri, Per un programma d’azione comunalista, cit.
  13. C. Berneri, Sovietismo, anarchismo e anarchia, da “L’Adunata dei Refrattari”, N. Y. 15.10.1932.
  14. C. Berneri, Gli anarchici e G. L., da “Giustizia e Libertà”, Parigi 6.12.1935.
  15. C. Berneri, In margine alla Piattaforma, da “Lotta umana”, nella serie “Discussioni anarchiche”, 3.12.1927.
  16. C. Berneri, Della tolleranza, da “Fede!”, Roma 20.4.1924.
  17. Frammento presente nella “Raccolta di articoli sul pensiero degli anarchici classici”, presso l’Archivio Famiglia Berneri – Aurelio Chessa (ABC), Reggio Emilia.
  18. C. Berneri, Per un programma d’azione comunalista, cit.
Genova, 15 ottobre 2011 (foto di Silvia Lippi)

 

...e risposta / Passo e chiudo

Cao Stefano d'Errico,
ti rispondo volentieri e in maniera pacata, ignorando volutamente il tono acido della tua lettera.
Provo a spiegarmi nuovamente: leggendo attentamente il volume degli atti del convegno ho messo in evidenza di ogni relazione quegli aspetti su cui a mio modestissimo modo di vedere si potrebbe concentrare l'attenzione del lettore. Per quanto riguarda il tuo intervento, io rimango convinto che da un punto di vista storico (e di un convegno di studi storici si trattava) non sia corretto procedere col metodo che utilizzi tu, ovvero partire da una tesi sulla condizione in cui verserebbe oggi l'anarchismo, cercando di dimostrarla mettendo insieme avvenimenti, luoghi e tempi diversissimi tra loro. Nel tuo caso la tesi di partenza è che “esiste nel mondo una domanda di anarchismo – più o meno consapevole – alla quale non corrisponde una 'offerta' adeguata. Quel che resta del movimento libertario non riesce da tempo ad essere presente a se stesso a causa della marginalizzazione indotta da un dottrinarismo ossificato” (p. 150 del tuo saggio).
Procedendo da questo punto di partenza, scavi negli scritti di Berneri alla ricerca dei fattori di identificazione tra anarchismo e politica. Su questo termine è spesso difficile intenderci, forse ora ancor di più, da quando è in voga il termine “antipolitica”. Nella mia recensione intendevo, e intendo anche ora, politica come sinonimo di “di governo”, opposto cioè tanto al termine “sociale”, quanto al termine “autogoverno” o “autogestione”. Distinzione che è patrimonio del movimento libertario dal Congresso di Saint Imier del 1872 e che a mio avviso è uno dei motivi della perdurante attualità dell'anarchismo. Posso essere libero di avere tale opinione?
Nel tuo lavoro di ricerca sui testi assembli frammenti dei lavori di Berneri, tanto quelli pubblicati quanto quelli da lui volutamente non pubblicati (bozze, schizzi ecc. alcuni dei quali “cestinati”), scritti in epoche diverse e soprattutto in contesti storici anche molto distanti tra loro. Quel che ne viene fuori non sono né le tue parole, né quelle di Berneri, ma una contaminazione completa di quadri ideali e storici anche molto lontani tra loro. Ecco perché ti confermo che per me questo è un modo di procedere grossolano da un punto di vista storiografico e che distorce avvenimenti storici alla luce di una propria convinzione politica dell'oggi, e quindi, assolutamente parziale e particolare. Questo è quel che penso, sempre sia lecito esprimere un'opinione divergente e critica dalla tua.
Infine due precisazioni (visto che siamo in ballo, balliamo): la prima ministra donna fu la Kollontaj nel 1917 e non la Montseny (p. 198). Il testo de L'antisociale è in realtà di Guccini, cantata poi anche dai Nomadi, ma questa è davvero una piccolezza.
Desidererei che questa polemica si concludesse qui, perché mi pare chiaro non ci siano termini di intesa e forse nemmeno di sereno confronto, ma fattori potenziali di inasprirsi della dialettica tra noi.
Ciao.

Antonio Senta

 

Fetonte e la geografia

«Quattro miliardi di uomini su questa terra, / ma la mia immaginazione è uguale a prima. Se la cava male con i grandi numeri, / continua a commuoverla la singolarità», scriveva la Szymborska nel 1976. Oggi abbiamo due paurosi giganti, India e Filippine, l’uno che scimmiotta l’occidente, l’altro ingenuo come un adolescente, che si contendono il primato del nuovo nato numero 7.000.000.000.
Mentre Napoleone imperversava con le sue armate in giro per l’Europa la popolazione mondiale raggiungeva appena il miliardo. I sogni e le utopie, infondo, non erano così irrealizzabili. Oggi sì, e bisogna accontentarsi della realtà. Non voglio dunque prodigarmi in previsioni a lungo termine, non voglio avere sottomano troppi dati, non serve rifare calcoli e funzioni. Non tengo conto delle variabili. Il futuro sarà costituito da micro-clan, da micro-comunità di persone che vivranno sulle montagne, armate per difendere tutto ciò il cui valore oggi ci sembra irrisorio, cercando di sopravvivere. Mauro Corona e Dario Fo ci hanno già illuminato con due belle opere su quello che sarà un futuro diverso, ma i toni di speranza vanno via via smorzandosi e lasciano il posto a riflessioni più grevi, più reali. Nessuna catastrofe che dalla sera alla mattina ci faccia trovare con la testa sott’acqua o brancolanti nel buio. Un cambiamento rapido, piuttosto. Di una rapidità che richiede decisioni veloci, scelte di vita convinte, azioni e reazioni immediate. Un cambiamento che – senza alcuna illusione di giustizia sociale – porterà in pochi mesi tutti i nodi del proprio passato al pettine. L’epilogo è come sempre scontato: «all’inizio – diceva Humboldt più di un secolo fa – la gente nega una cosa; poi la minimizza, infine decide che la si sapeva già da tempo». Dovrei forse parlare della pericolosità del caos climatico; di quanto l’aumento della temperatura media di quasi 0,9 gradi nell’ultimo secolo sia deleterio per gli equilibri naturali (il livello dei mari si è innalzato di circa 6,5 cm negli ultimi 40 anni e l’estensione media dei ghiacci marini artici si è ridotta del 15-20% dal 1978) (1) da cui dipende il nostro mondo produttivo e quindi i nostri stili di vita; dovrei inoltrarmi nel significato profondo che implica una sesta estinzione di massa (dal 1970 il patrimonio di vita sulla Terra è diminuito del 30%) , causata solamente dalla turpe negligenza più che da una premeditata cattiveria, e nei meandri della fisica per spiegare la gravità dell’aumento, tra 1750 e 2010, del 31% di Co2 in atmosfera, con una corrispettiva forzatura radiativa che ammonta, ormai, a 2,5 watt al metro quadro.

Quando parliamo di cambiamento climatico

Si sa che la prudenza è oggi virtù ambigua, ma dal momento che proprietà dei sistemi caotici è «la tendenza delle piccole differenze a ingrandirsi rapidamente», sarebbe il caso di riscoprirla: quelle che oggi chiamiamo piccole bizzarrie domani significheranno – con enormi ripercussioni sulla vita umana – cambiamento del ritmo dei monsoni, stress idrico dovuto allo scioglimento dei ghiacciai montani, sparizione delle specie endemiche negli hot spot della biodiversità mondiale. Mi limito dunque ad una considerazione, se vogliamo, scontata: la libertà – intesa come potere individualmente decisionale – fa paura. E solo chi ha paura non vede la transizione. Solamente quando si teme di perdere qualcosa (la sicurezza, la certezza, la speranza, la possibilità stessa di desiderare) si ha paura. Questa nasce quando non si crede di avere il coraggio di ri-crearsi senza dogmi e senza vincoli in un contesto nuovo. Ecco spiegata l’ostinazione di ancora troppe persone nel ridimensionare e negare, nel non afferrare le priorità dei problemi (come se si potesse continuare a parlare di finanza e di mercati in un mondo che vede minata la produzione stessa). È proprio così che la paura impedisce di riconoscere il limite e i livelli di importanza nell’interpretazione del reale (i giochini di alcuni burloni in borsa, che determinano il destino di milioni di persone, sono comunque meno pericolosi, meno definitivi, di una manomissione del sistema fisico planetario, in quanto modificano uno stile di vita, ma non ne impediscono l’esistenza); impedisce di accettare le priorità ostacolando lo sguardo oltre il presente perché non vede garantita una finalità, un senso prefissato senza che lo si debba costruire con onesto disincanto (è più semplice disinteressarsi al futuro nel momento in cui non si è liberi di costruirsi una vita); impedisce, nascondendosi dietro allo schermo dell’iper-scetticismo e mettendo così in discussione dati, scienza e assiduo lavoro («lo scetticismo – ci ricorda Nietzsche – è l’espressione più spirituale di una certa multiforme condizione fisiologica, che nella lingua comune è detta debolezza di nervi o cagionevolezza») di confrontarsi con le proprie responsabilità.
Curioso, oggi, essere ancora stretti tra la morsa del dubbio e della negazione preventiva quando parliamo di cambiamento climatico. Chissà cosa avrebbe scritto Wilhelm Reich se avesse potuto dire la sua sulla psicologia del negazionismo, o meglio dell’indifferentismo. Probabilmente avrebbe anch’egli posto il problema tra i banchi di scuola. Sì, perché nelle aule continua l’inesorabile scioglimento della geografia, una delle materie fondanti della conoscenza dello spirito e dei caratteri umani, intendendo l’uomo – alla Elisè Reclous – come «natura che prende coscienza di sé». Se per il geografo anarchico la specie umana, giungendo a vedersi come parte di un tutto storico e geografico, dovrebbe «conseguire insieme l’autocoscienza e la corrispondente libertà», l’Istituzione italiana e i suoi esecutori-educatori decidono – ormai da un pezzo – che la materia non “serve”. Nelle scuole, dove questi temi vitali dovrebbero essere trattati, si respira un clima di ghettizzazione della geografia, proprio ora che, come Fetonte, ci troviamo tra le mani le redini di un pianeta, Gaia, di cui troppo poco sappiamo per governarlo con senno. Conoscere lo spazio e il territorio non è uno sfizio da lasciare ai ragazzi qualora avessero occasione di annoiare i loro pomeriggi con Google Earth. Ci sono studenti che sanno di epica e di matematica, ma che non immaginano se tra Trento e Verona ci siano otto, ottanta o ottocento chilometri di distanza, o se il Monte Bianco sia alto quaranta kilometri o quattromila metri, così come non capiscono dove sorge il sole o perché le precipitazioni nevose siano per noi vitali. Non sono nozioni. Sono coordinate per vivere, per conoscere forme e limiti della realtà. La misura-forma della terra (geo-metria) e la sua descrizione (geo-grafia) sono strade della conoscenza utili per entrare a pieno diritto nella maturità sociale come attori coscienti. Lo spazio è un elemento importante («il paesaggio – scriveva Eugenio Turri – è l’autoriflessività del proprio essere nella natura») e la sua misconoscenza produce un autismo sociale molto pericoloso. Soprattutto se riusciamo a leggere tra le righe: non è importante sapere a memoria le capitali (quella è mnemotecnica), ma avere la misura della propria persona e delle proprie azioni; capire la portata di una spazialità. Sapere che ordinare oggi patate dalla Cina ha ricadute sul domani, qualora milioni e milioni di persone compiano le mie stesse scelte.

Tutto, semplicemente, cambia

Noi troppo spesso, per ignoranza e per volontà del Potere che legge nella conoscenza del limite un freno al consumo, lasciamo che le redini della Terra ci sfuggano di mano: che legame potrà mai esserci tra la tragedia di Sarno (1998) e l’effetto dolcenera che ha distrutto case, famiglie e vite in Liguria in questo autunno 2011? Che legame ci sarà tra le rovinose frane descritte da Cicerone nel De divinatione quasi due millenni fa e lo sfruttamento delle foreste appenniniche distrutte per rimpinzare i forni delle terme della Città eterna e per mantenere le flotte nel Mediterraneo? Gestione dell’ambiente, conoscenza territoriale, indagine geografica qualitativa delle caratteristiche ambientali (una foresta centenaria è una garanzia maggiore, dal punto di vista idrogeologico, di un boschetto a gestione ventennale): questo è il legame concettualmente geografico che sfugge. Si è arrivati ormai a contrapporre – dimenticando che per i greci la parola *ghe («terra»), era il correlativo etico della radice *oikos («casa», da cui eco-nomia) – la geografia all’economia, varrebbe a dire la descrizione del Pianeta alla legge della casa in cui viviamo, cioè, ancora una volta, il Pianeta stesso: questa l’empasse logica. Ma la colpa, o il merito, dell’imminente cambiamento non è del golem “Economia”. È di chi ha creduto che l’economia, con i suoi parametri ermeneutici, fosse un metodo funzionale nell’interpretazione e applicabile nell’azione a ogni campo della vita umana, dimenticando che gli attori economici sono sempre uomini, e gli uomini sono governati da leggi dell’anima e leggi di natura i cui confini – per dirla con Plotino – nemmeno Dio ha ancora trovato. Figuriamoci se li trova l’economista!
Ma le barricate dell’ottusità contemporanea cadranno di colpo di fronte alle necessità materiali di un cambiamento (Marx, gettato dalla finestra, busserà prepotentemente alla porta, e non con le ideologie, ma con le fenomenologie), di fronte ai drammi delle dis-illusioni, alle nostalgie della facile età. La fine del capitalismo non deve portare a trionfalismi, nessuno guadagna nulla senza perdere nulla, e il rischio di nuovi impianti ideologici è alto. Tutto, semplicemente, cambia. E – ecco la nota di speranza – coloro che oggi come oggi già si aggirano lontani dai fagocitanti centri urbani e dai gangli lavorativi del Sistema – popoli indigeni e comunità anarchiche – saranno i veri traghettatori, ormai esperti, non più verso ma oltre la transizione.

Federico Premi
(Trento)

Note

  1. Tutti i dati sono espunti da libro di Kerry Emanuel, Piccola lezione sul clima, 2008.
  2. Questo il quadro fornito dal Living Planet Report 2008 del Wwf, in collaborazione con la Società Zoologica di Londra e il Global Footprint Network.

 

Dibattito Roma 15 Ottobre / Il gesto

(Ai giovani angeli cattivi di Roma)

Il sasso lanciato
la forza che ne sostiene il volo
che prorompe
da genetiche utopie
offuscate visioni
di passati e futuri
per cui morire forse
anziché agonizzare
su una croce
di realtà ipotetiche
costruite a tavolino
nel buio di sghignazzi con autista
e legioni armate fino ai denti

nel lancio
il braccio si tende
la mano lascia andare e
sembra quasi di toccarlo
finalmente
con le dita
quel cielo aperto
di là dall’incubo
la fine
di tutto questo
il crollo
dell’impero oscuro
fatto di soldi e sangue
per i secoli dei secoli
amen con il medio alzato
ma che rispetto? di che?
di azzurre vergini di gesso
che benedicono teste chine?
di dei metallici a quattro ruote?
di anime azzerate da troppi zeri
magnetizzate plastificate
racchiuse in portafogli
che erano cadaveri agonizzanti
glorificate in riti bancari in vetrina?
di gironi infernali con ballerine sceme
e burattinai e nani
che sbavano
che raccontano barzellette oscene
e comprano risate?

eccolo lì il bersaglio
troppo grande la sua superficie
per poter sbagliare il colpo
talmente insopportabile
vederlo schierato
in file di cavie prese per fame
cieche dietro scudi e elmi
e confusione in testa
sentirlo ridere
nei salotti delle retrovie
mentre organizza le menzogne
del giorno dopo

questo
tutto questo
doveva finire tanto
tanto tempo fa
e chissà se davvero
finirà mai
la speranza
gloriosa e sola
come un uccello nel futuro
vola
con quel sasso
che non ha bisogno di giustificazioni
che non deve scuse a nessuno
che
mi rappresenta.

Sandro Spinazzi
(20 ottobre 2011)


 

Ricordando Piero Milesi 1 / Quella pece al funerale

Piero Milesi e Maurizio Dehò

Maurizio Dehò, grande amico di Piero Milesi, attualmente componente dei Rhapsodija Trio, ci ha fatto avere questi suoi appunti del tutto informali, buttati giù subito dopo il funerale a Levanto, mercoledì 2 novembre 2011.

(…) Domenica, dopo almeno venti tra telefonate ed incontri per organizzare tutto con precisione, suoniamo col Rhapsodija Trio al Tempio, al matrimonio Lazarov, ebrei Bukari.
Volendo loro assolutamente il clarinetto recupero anche Mariolone ed è una gioia rivederlo e sentirlo suonare e suonarci insieme. Ma alla fine di tutto, dopo gli ultimi applausi e i complimenti reciproci, riaccende il cellulare e ci comunica, terreo, la straziante notizia della morte di Piero, il nostro Pierone. Tremendo. Passo due giorni da svanito, senza riuscire a concentrarmi su nulla. Al funerale di Levanto suoniamo insieme, Mario, io e Moni, le stesse cose preparate per il matrimonio della domenica prima e cose di vent’anni fa, come se una cosa fosse legata all’altra ed avesse preparato l’altra.
Alla tumulazione della salma, al cimitero di Bonassola mi viene in mente di fare un gesto d'affetto, ma forse un po feticistico; deporre cioè la mia pece per l’archetto del violino accanto alla sua bara, dentro la tomba. Spesso ce l’eravamo scambiata durante i concerti , anche se quella del mio violino non e’ proprio uguale a quella del suo violoncello.
Ma funzionava egregiamente.
Mi tormento per un po’, non so se è il caso, poi, quando manca un mattone alla chiusura totale, chiedo ad Andrea, il fratello, e lui acconsente con gioia. Silvia aggiunge che, in effetti, là dove sta andando potrebbe esserci carenza di pece, e quindi decido di buttargliela dentro, non senza prima aver fatto sentire il buon odore che la pece emana al fratello e poi a tutti i presenti, come per far capire a tutti che era un oggetto sì professionale ma anche con una sua bellezza ed un suo profumo. Per meglio sentire l’odore della pece ognuno la gratta con l’unghia e poi ne gusta l’intensità. La situazione è alquanto comica, la pece passa di mano in mano, sembra che stiamo li a farci una sniffata collettiva, e genera però molta commozione, mentre il tumulatore attende con l'ultimo mattone in mano.
Ma quando, nel silenzio totale si sente Andrea che declama “Ora riposa in pece!” capiamo tutti che lo spirito di Piero è ancora con noi, ci ha catturato e lo porteremo sempre dentro!
Lui amava questi giochi di parole, fino allo sfinimento!
Ciao Piero, come sono contento di averti conosciuto e di essere stato in tua compagnia nei momenti belli !
Il tuo violoncello, comprato con un’estate di sacrifici da me imposti sui tuoi guadagni della tournee, la tua allegra ubriachezza nella vasca da bagno dei miei genitori, fortunatamente in loro assenza, il nostro scatenato “treno”, un trionfo sicuro negli spettacoli, la serietà con la quale ci hai contagiato nella preparazione di Daloy Politzay col Gruppo Folk Internazionale, la partitura da te trascritta per il mio violino del Preludio di Bach per violoncello, la stima che mi hai dimostrato coinvolgendomi nella “Notte della Taranta” facendomene diventare uno dei protagonisti accanto a te, la passione, anche esagerata secondo me, che hai messo per produrre il nostro IATRIA con il Rhapsodija Trio, il tuo arrancare al piano elettrico, la notte di un recentissimo 31 dicembre, sui miei velocissimi pezzi tzigani che ti piacevano tanto e che con accanimento volevi imparare ed eseguire all’istante, facendo divertire e poi commuovere i presenti; ne ho mille di episodi che non voglio dimenticare mai e che mi legano alla tua profonda umanita’, alla tua simpatia, al tuo grande inconfondibile stile.

Maurizio Dehò
(Milano)

 

Ricordando Piero Milesi 2 / L'esilio volontario

Piero Milesi

È proprio vero: siamo fatti di tutti quelli che nel corso del tempo ci hanno attraversato o abbiamo attraversato con significanza intellettuale e affetto e così, ad ogni brutale espulsione dal tracciato esistenziale condiviso, perdiamo un pezzo insostituibile del nostro corpo morale, unico e stirneriano,
che è anche, per empatia o osmosi, il corpo dell’altro, continuando a vivere, in questa sottrazione progressiva, come invalidi invisibili fino a quando tutti i nostri compagni d’avventura non ci saranno più.
È una concatenazione a cerchio secondo l’ottica taoista dove l’apparente sparizione in realtà si ricicla
in una trasformazione panteista dell’essere. È una consolazione assai relativa perché è nello stato di coscienza che la persona amata ci manca. A questo proposito, Cesare Pavese diceva che l’uomo ha solo il ricordo che porta e il ricordo che lascia, ma il ricordo é di per sé intraducibile, e non può essere svilito dalla banale scappatoia dell’aneddotica. Gli aneddoti sono eventi esteriori, vivono di un loro chiasso goliardico, l’amicizia è racchiusa nel pudore, e ora, in questo caso, nella mestizia.
Si, il ricordo è intraducibile a parole, forse solo il mondo dei suoni può darne un’idea interiorizzata e emotiva, addirittura cosmica. Non a caso la musica è pre-esistente nelle cose intorno a noi, è il linguaggio rivelatore e unificante, il vero esperanto universale che tutto decodifica e ci ricongiunge al di là degli idiomi, a livelli sotterranei di vertiginosa verticalità. Ed è quello che Piero Milesi aveva scelto, ed è quello che dovrei usare adesso, se sapessi solfeggiare una memoria affettiva. Per far coincidere appieno l’alfabeto dei suoni con la grande opera compiuta, Piero aveva sentito il richiamo insopprimibile dell’esilio volontario, di un ritiro quasi monastico, in questa mia terra di Liguria che in ogni tempo ha attirato molti artisti in cerca di un eremo naturalistico idoneo alla concentrazione ispirativa per tentare – in solitaria – scalate creative sempre più ardue e complesse, soprattutto in completa autonomia dalle imposizioni commerciali correnti, protese al degrado estremo, e dallo stile di vita metroplitano, compulsivo e disumanante. Su questi temi ci capivamo bene perché anch’io avevo fatto la stessa scelta. Bisognava salvarsi, scappando da Alphaville.
Forse “Le nuvole” il brano di Fabrizio che aveva arrangiato e curato la direzione d’orchestra, è illuminante in tale senso. Un brano di cui l’autore aveva dato una spiegazione esistenziale e che riconvertito a Piero assume una valenza anche panteista, di ricongiunzione dell’uomo con la Natura, nuovamente disposto ad accoglierne i suoni e i rumori più impercettibili come un nudo primitivo dotato però di strumenti moderni di decodificazione.
Piero mi riporta immagini invernali, di sere invernali, dove a cena, sembrava che ci unisse il sentimento del profugo che si ritrova fra i membri di una comunità isolata ma solidale, dove della città lasciata non si parlava mai; al contrario si scopriva la gioia di una rinascita rigenerante tra gente semplice, a volte chiusa e aspra, ma rispettosa e sincera. Ed era quasi con infantile entusiasmo che frequentavamo le sagre di paese, la Casa del Popolo di Montaretto, e nuove amicizie del territorio che con l’arte sovente non avevano nulla a che fare. Ma era proprio l’inverno la stagione più propizia alle sue lunghe notti di ricerca creativa. Le notti fredde, ventose, di profonda solitudine, che acuivano maggiormente il bisogno di entroflettersi fino alle prime luci dell’alba per strappare al silenzio la sua musica intrinseca. Poco lontano, la casa di un altro comune amico: Mauro Pagani. Entrambi compagni d’avventura coinvolti in un’esperienza indimenticabile, quella musicale e umana con il principe del verso cantato: Fabrizio De André. “Angelo e demonio” diceva Piero con un sorriso e gli occhi addolciti di nostalgia. “Mi chiamava Zuccone” ribatteva subito dopo, come ricordasse un severo ma amabile professore di liceo di tempi andati. Ma lui era lì, per la sua musica, per focalizzarsi sul nucleo centrale finalmente raggiunto, e modellarne lo stile originale, la cifra immediatamente riconoscibile. Era stanco di un lavoro all’altrui servizio, quasi presentisse l’urgenza temporale di chiudere il contenzioso con sé stesso. Certo, Piero era un uomo mite, dai sentimenti delicati, addirittura compagno d’osteria e bevute, ciarliero e allegro, ma talvolta anche cupo e iroso, preda di insoddisfazioni profonde o di fatiche solitarie che l’avevano stremato. Così l’ho conosciuto, capace di rifiutare l’arrangiamento di un nuovo album di un cantautore o di una popstar, e magari regalare una bellissima canzone a un cantante di piano bar, o di mettersi al mixer in un concerto locale dedicato a Faber. Dunque antidivo per eccellenza e prodigo di consigli a quei giovani musicisti di gruppi territoriali che gli si avvicinavano timorosi e devoti per carpire un’indicazione o una deviazione di rotta.
Al suo funerale, ci siamo ritrovati in tanti, tra cui Mauro Pagani, Mario Arcari, Moni Ovadia, Reinhold Kohl,e naturalmente Dori Ghezzi, diapason di rara e delicata sensibilità. Don Gallo ha officiato laicamente la cerimonia, e Moni Ovadia ha cantato un brano ebraico in modo solenne e virtuoso. Ma, a dir la verità, ancora una volta, la punta di commozione più vibrante è venuta da una sua amica di Mattarana che ha voluto testimoniare al microfono il dolore della gente di quel paesino arroccato sulle colline dove Piero abitava. Non ha resistito molto a parlare, presto le sue parole sono state sostituite da un pianto irrefrenabile. Forse è stata quella l’alluvione che ci ha portato via Piero, un alluvione di lacrime popolari, semplici, autentiche, e voglio immaginare che siano state quelle ad averlo riportato per sempre nel cerchio sacro del Tao.

Mauro Macario
(Sarzana - Sp)

 

Emancipazione antispecista

Carissima redazione,
condivido l’impostazione culturale e filosofica di Troglodita Tribe, espressa in “Le ragioni dell’antispecismo”, apparso nel n. 367 di “A” rivista anarchica. Fabio e Lella hanno perfettamente ragione nel sostenere che la sottomissione di altre specie viventi all’egemonia tirannica della specie umana fa parte delle logiche del dominio che gli anarchici, in quanto anarchici, dovrebbero combattere, anche se in verità più che di “verità in tasca” si tratta di convinzioni e sentimenti profondi. Già a suo tempo, soprattutto in Per un nuovo umanesimo anarchico, ma anche con qualche sostanziale cenno in Tra ordine e caos, avevo sostenuto che l’anarchismo, concezione espressa da individui umani, dovrebbe superare il limite ottocentesco di concepire l’anarchia limitata esclusivamente alle società umane. Oggi, fortunatamente, si sta diffondendo una nuova consapevolezza, che riconosce che il discorso dell’emancipazione sociale non può rimanere rinchiuso negli angusti ambiti delle relazioni antropocentriche, mentre necessita di estendersi a tutte le manifestazioni della complessità degli ecosistemi, secondo me addirittura in chiave cosmica e non semplicemente in chiave terrestre. La liberazione, cioè la possibilità di esprimere individualmente e collettivamente la pienezza e la gioia della libertà in tutta la sua forza e in tutte le sue implicazioni, non può non comprendere, per coerenza endemica, l’intero arco delle relazioni e della complessità differenziata, altrimenti, al di là di ogni buona volontà, non potrà che riprodurre altre forme di dominio, in quanto tali sempre aberranti.
Ciò che non condivido è la certezza di Fabio e Lella che a breve il movimento anarchico diverrà ovviamente antispecista. Può darsi, ma non è sicuro. E che lo diventi oppure no nulla toglie al valore dell’anarchismo. Che l’anarchismo, come pratica e visone del mondo, sia di per sé, per la natura intrinseca del suo concepirsi, antispecista, lo trovo quasi ovvio, proprio perché l’anarchismo è sorto come sviluppo di un sentimento condiviso contro ogni ingiustizia ed ogni forma di dominio. Ma il movimento anarchico non è la stessa cosa. Il movimento è l’insieme degli individui che si riconoscono nei presupposti e nei valori dell’anarchismo e che agiscono e pensano per la loro realizzazione, sia completa sia parziale. Come dunque il movimento nacque proiettato verso una problematica sociale vissuta tutta, inconsapevolmente, in chiave antropocentrica, così non è detto che a breve tutti gli individui che si riconoscono nell’anarchismo si sentiranno, quasi “per forza”, proiettati anche verso l’impostazione antispecista.
Cari/e compagni/e, personalmente concordo pienamente con voi e, nel mio piccolo, ogni volta che mi si offre l’occasione, cerco di far comprendere come lo sfruttamento e l’oppressione che la nostra specie propina alle altre specie siano da condannare e da combattere esattamente come condanniamo e combattiamo quelli contro altri esseri umani diversi per condizioni cultura e origini. Ma i processi di consapevolezza e di emancipazione sono lunghi e difficili. Ci vuole pazienza e perseveranza, oltre che capacità di comprendere le ragioni di chi ha punti vista diversi, addirittura contrari. L’intolleranza non è mai amica delle lotte di emancipazione, qualunque esse siano, anche quelle interne al nostro movimento.

Andrea Papi
(Forlimpopoli - Fc)

 

 

I nostri fondi neri

Sottoscrizioni.
Antonio Ciano (Gaeta – Lt) “saluti a tutti e sempre avanti”, 10,00; Alberto Bonassi (Bergamo) 20,00; Giampaolo Pastore (Milano) 20,00; Roberto Dolciotti (Rosora – An) 20,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Amelia e Alfonso Failla, 500,00; Pino Fabiano (Cotronei – Kr) “ricordando Spartaco”, 10,00; Antonino Pennisi (Acireale – Ct) 10,00; Fabio Meregalli (Milano) 50,00; Gianni Carrozza (Parigi – Francia) 50,00; Gianlorenzo Tondelli (Castelnuovo ne' Monti – Re) 50.000; Simone Gatti (Borgotaro – Pr) 20,00; Rolando Paolicchi (Pisa) 10,00; Armida Ricciotto (Garlasco – Pv) 20,00; Michela Nava (Canzo – Co) 10,00; Jack Grencharoff (Quama – Australia) 361,00; Enrico Ambrosi (Montecchia di Crosara – Vr) 10,00; Antonietta Bonoli (Forlimpopoli – Fc) 50,00: Nicola Piemontese (Monte Sant'Angelo – Fg) 20,00; Paolo Facen (Feltre – Bl) 20,00; Gianni Pasqualotto (Crespano del Grappa – Tv) 200,00; Roberto Minichello (Mirabella Eclano – Av) 20,00; Daniele Fiorindo (Mestre – Ve) 10,00; Antonella Trifoglio (Alassio - Sv) 50,00; Ivano (Milano) 30,00; Angelo Roveda (Milano) 20,00; Cesare Vurchio (Milano) 20,00; Giuseppe De Vincenti (Brescia) 10,00: Enzo Francia (Imola – Bo) 10,00; a/m Gianfranco D'Ippolito, ricavato dalla Festa libertaria per i 40 anni di “A” il 4 dicembre 2011 (Cosenza), 310,00; Francesco Compari (Palanzano – Pr) 5,00; Ivan Franetti (Tirano – So) 20,00 Ivano Sallusti (Monticello Guidonia – Rm) 5,00; Nirko Piras (Nulvi – Ss) 10,00; Davide Turcato (Modena) 100,00; Luca Mittersteiner (Rovereto - Tn) 20,00; Fabrizio Cherubini (Firenze) 20,00; Pasquale Messina (Milano) 40,00; Francesco Berti (Bassano del Grappa – Vi) 50,00; Antonio Costa (Oxford – Gran Bretagna) 10,00. Totale euro 2.150,00.

Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, trattasi di euro 100,00). Patrizio Quadernucci (Bobbio – Pc); Stefano Stofella (Rovereto – Tn); Arnaldo Androni (Bacedasco Sotto – Pc); Marcella De Negri (Milano); Fernando Ferretti (San Giovanni Valdarno – Ar) 150,00; Giuseppe Anello (Roma); Massimo Merlo (Lodi); Gianni Pasqualotto (Crespano del Grappa – Tv); Gianfranco Aresi (Gorgonzola – Mi); Luciana Castorani (Cremona); Loriano Zorzella (Verona); Gianluigi Botteghi (Rimini) 50,00 (2a quota); Loredana Zorzan (Porto Garibaldi – Fe); Vladimiro Sarotto Bertola (Novara); Aimone Fornaciari (Nattari – Finlandia); Arturo Schwarz (Milano) 150,00; Mariangela Raimondi Riva (Milano) 150,00; Renzo Bresciani (Campi Bisenzio – Fi); Fabrizio Tognetti (Larderello – Pi); Silvano Montanari (San Giovanni in Persiceto – Bo); Alessandro Natoli (Cogliate – Mb) 120,00; Alberto Ramazzotti (Muggiò – Mb) 120,00; Mario Perego (Carnate – Mb) 200,00; Angelo Tirrito (Palermo); Stefano Cempini (Ancona) 250,00; Giordana Gara vini (Castel Bolognese - Ra). Totale euro 2.990,00.