Rivista Anarchica Online


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Venti di rivolta, rabbia e ingiustizie sociali/Botta...

Caro Andrea Papi, mi riferisco al tuo scritto “Venti di rivolta” (“A” 365, ottobre 2011). Io sono residente a Tottenham dal 1980 e vorrei rispondere a quanto hai scritto sui disordini nelle città inglesi nel tuo articolo “Venti di Rivolta”.
Le cosiddette “rivolte spontanee” succedono a Tottenham “ogni morte di Papa” e per trovare un incidente simile bisogna risalire al 1985 quando si è svolta la ribellione violenta attorno ad un enorme quartiere di case popolari di Broadwater Farm. In quell'occasione la polizia aveva fatto un'irruzione clamorosa e di carattere esageratamente aggressivo nella casa della famiglia Jarrett, perché uno dei figli era ricercato come sospettato per certi delitti. Il carattere violento dell'irruzione provocò un infarto e la morte della madre , Cynthia Jarrett. Allora, come anche nell’agosto di quest'anno, una protesta pacifica davanti alla caserma della polizia di Tottenham, subito degenerò in una sommossa con scontri contro la polizia, macchine bruciate e la morte di un agente di polizia, PC Blakelock.
Nell’agosto di quest'anno, il 29-enne padre di tre figli, Mark Duggan, fu perseguitato da due agenti del reparto Trident della polizia londinese (reparto specializzato in “black gun crime”), i quali forse scambiando le strade di Tottenham per immagini televisive del Bronx, hanno freddato Mark Duggan mentre viaggiava in un taxi. Di nuovo la famiglia di Duggan, insieme ad un folto gruppo di sostenitori, partendo da Broadwater Farm si è recata alla caserma della polizia di Tottenham cercando un colloquio con qualche ufficiale autorevole per fornire loro anche un tentativo di spiegazione. Solo un ufficiale di rango medio si è presentato per parlargli. Più tardi, forse per frustrazione, due macchine della polizia furono incendiate e i reparti anti-sommossa erano già presenti sul posto. Il resto era inevitabile.
Tottenham è un quartiere multiculturale con tante razze ed etnie e siccome è un quartiere popolare e relativamente povero, le varie ondate migratorie da varie parti del mondo passano per questo quartiere. Sono presenti tutte le correnti cristiane, musulmane ed ebree. L'appartenenza ad un gruppo religioso ha una certa importanza nella zona e la chiave per il benestare in questo quartiere è la famosa canzone di Aretha Franklin “R-E-S-P-E-C-T”. Ma forse ai responsabili della polizia di Tottenham non piace la musica nera e così ogni trent'anni dimenticano dove si trovano.
Per motivi personali e di famiglia io spesso viaggio fra Tottenham e la Calabria e nelle mie attività artistiche mi è toccato lavorare con giovani nei due ambienti preparando recite in parrocchia ed altre iniziative per organizzazioni nella comunità – in Calabria giovani di ex-zone rurali in via di trasformazione verso una vaga forma industriale/commerciale e ragazzi africani, asiatici e caraibici a Tottenham. In ambedue i casi ho visto come la scuola tende a bocciare proprio quei ragazzi che dimostrano potenziale creativo, soprattutto perchè disturbano lo svolgimento pacifico della giornata dell'insegnante. Nel 99% dei casi trovavo che ragazzi che erano abituati a prendere 10 per i compiti a scuola, fiutavano che io non ero un insegnante e che non avevo voti da distribuire e subito rifiutavano una loro collaborazione. Gli altri invece, inizialmente sorpresi che un adulto in una posizione (per loro) di autorità prestasse loro attenzione, cominciavano con buffonate, palpeggi fra loro ed altre “provocazioni” per poi dare delle “performance” eccezionali. Da questa esperienza ho dedotto che nelle città inglesi e nelle periferie di certi ambienti calabresi c'è un numero di giovani con qualità creative e di intelligenza acuta ma che sono stati rigettati dal sistema scolastico.
In Calabria questo non porta a conseguenze troppo clamorose come i disordini delle città inglesi, perché sia l'ambiente più piccolo che la rete di amicizie che quella familiare tendono a tenere la situazione sotto controllo – o così sembra.
Nelle città inglesi, e a Tottenham, Hackney e Brixton, in particolare, le conseguenze per loro e per la società sono disastrose. C'è una forte correlazione fra titolo di studio e prospettive economiche nella società anglosassone, solo che, grazie a Tony Blair e i suoi “rampolli”, chi vuole ottenere una laurea si deve indebitare a vita con istituti di credito. Dunque, molti giovani di Tottenham e di altri quartieri, già bocciati a priori dalla scuola, non provengono da famiglie benestanti e non si sognano neanche di tentare un corso di studio serio che può portare ad una laurea e dunque alla possibilità di successo nella vita. Rimangono loro solo la possibilità di successo nello sport – calcio e atletica leggera – o la musica popolare – rap, hiphop, soul e reggae.
In contrasto gli “indignados” che saranno sicuramente più “integrati” con una migliore preparazione scolastica ed anche con capacità linguistiche che gli permettano di discutere su come organizzarsi e se questa o quella forma di lotta sia libertaria o autoritaria. La loro indignazione consiste nel fatto che hanno fatto i bravi. Hanno studiato, hanno ottenuto titoli di studio o partecipato in corsi di formazione per poi trovare che la società spagnola non è stata all'altezza delle loro aspettative. La probabilità che la loro lotta porti ad una soluzione positiva è anche – ce la auguriamo – alta. Brava gente pulita, educata e soprattutto perbene con rivendicazioni legittime.
La famiglia Jarrett e la famiglia di Mark Duggan invece sono viste come “deliquenziali”, o potenzialmente tali. Peraltro, sia nel caso di Broadwater Farm nel 1985 che a Tottenham nel 2011, le ribellioni sono state precedute da un intenso periodo di attività poliziesca con il fermo di giovani neri e di altre etnie nel “stop and search”. Il governo Blair, seguendo il “buon esempio” fallimentare della Thatcher, ha introdotto una marea di nuove leggi e regole punitive, specificamente indirizzate ai giovani. E siccome la vita non è un film poliziesco hollywoodiano, la morte di Cynthia Jarrett nel 1985 e l'uccisione di Mark Duggan con tre colpi di rivoltella nel 2011, hanno provocato molta rabbia e di conseguenza questi “indignados” hanno dato fuoco alle città ed ai centri commerciali.
È ovvio che il saccheggio dei poveri negozi locali di Tottenham è stata una assurdità e non si saprà mai se questo è stata la responsabilità ciò è dovuto a elementi esterni alla comunità di Tottenham o ai ragazzi del quartiere stesso. Quello che è successo negli altri quartieri londinesi ed altre città ovviamente aveva cause locali. Le regole introdotte come parte della “guerra al terrore” hanno anche fatto la loro parte in città come Birmingham con più alte quote di giovani asiatici musulmani, i quali prima del 9/11/2001 si sentivano completamente integrati per trovarsi improvvisamente demonizzati subito dopo. Nei giorni seguenti si sono messi in azione anche bande di criminali organizzati e questo ha permesso alle autorità di tacciarli tutti come semplici criminali e saccheggiatori.
Le “rivolte” degli “indignados” di Madrid ed ora anche New York sono sicuramente più positive e si vede chiaramente da dove vengono e dove vogliono arrivare. Invece le “rivolte” disorganizzate delle città inglesi sono, secondo me, più cruente per il nostro futuro proprio perché la morte dolorosamente prolungata del modello occidentale del dopoguerra sta producendo una sottoclasse che nessuno vuole sistemare nel futuro modello di benessere borghese post-industriale, tranne che in un carcere o in “riserve” per etnie ed emarginati dove possono essere più facilmente controllati.
Nel ‘68 parigino c'era un gruppo socialista/libertario attorno alla rivista “Socialisme ou Barbarie” che diceva che il protagonista tradizionale della sinistra – il proletariato – era in via d'estinzione e che stavano emergendo nuove forme di sfruttamento e nuovi protagonisti. Il titolo stesso della rivista di Castoriadis poneva una domanda interessante. Pare, purtroppo, che nel mondo odierno abbiamo scelto “les barbaries”.

Nino Staffa
(Mongrassano (Cs) e Tottenham N17)

 

...e risposta/Un ideologismo per lo meno obsoleto

Carissimo Nino Staffa,
ti ringrazio del tuo interessamento e della tua risposta che, anche se da un’angolatura molto diversa, mi sembra confermare la sostanza di quanto ho sostenuto brevemente nel mio articolo, che cioè la rivolta inglese dell’agosto scorso era totalmente priva di radicalità politica e che i rivoltosi in questione non si siano posti neanche lontanamente il problema di un cambiamento radicale della società. Quindi, secondo la mia visuale, non si sono rivoltati all’interno di una cosciente prospettiva rivoluzionaria.
In ciò non c’è alcun disprezzo per quello che hanno fatto, come invece mi sembra si evinca dal tono delle tue parole quando parli degli indignados spagnoli, in un certo senso qualificandoli: “Gli indignados” saranno sicuramente più “integrati” con una migliore preparazione scolastica ed anche con capacità linguistiche che permettano loro di discutere su come organizzarsi e se questa o quella forma di lotta sia libertaria o autoritaria. La loro indignazione consiste nel fatto che hanno fatto i bravi… e via di questo tono, facendo supporre di voler insinuare che là, in Inghilterra, sì che ci sono i veri proletari e sottoproletari veramente incazzati, mentre in Spagna si stanno muovendo dei ragazzi per bene, quasi dei “fighetti”, la cui protesta non è proprio proletaria, almeno secondo i canoni di un ideologismo che considero per lo meno obsoleto. Tutto ciò rasenta il ridicolo.
Personalmente ho solo voluto sottolineare due aspetti diversi della rivolta odierna, cercando di identificarne le caratteristiche da un punto di vista libertario e rivoluzionario, senza dare qualifiche o esprimere giudizi, cercando solo di essere all’interno di una sincera ricerca della comprensione dei processi che si stanno manifestando, per come si manifestano, al di fuori di ogni schema ideologico.

Andrea Papi

Indignados/In risposta alle riflessioni pubblicate su “A” 365

Si sono scritte tante cose sugli Indignados e ognuno ormai si sarà fatto la propria idea a riguardo. Non avevo sentito la necessità di dire la mia sull’argomento, finché non ho letto su A delle riflessioni che non condivido e alle quali considero importante rispondere.
Per quanto riguarda la presenza/collaborazione di anarchici nel movimento 15-M, credo che chi ha partecipato lo abbia fatto a titolo individuale e svincolandosi da gruppi e sigle. Formare parte di un processo di sensibilizzazione collettiva presuppone mettersi in gioco, essere aperti agli sviluppi. Molte delle proposte di funzionamento del movimento rimandano a metodi libertari, denotando l’interesse verso un modello di organizzazione non gerarchica e autogestita. Credo che da questo punto di vista si possa rilevare la presenza di sensibilità anarchiche nel movimento 15-M, ma considero molto arrogante pensare alle persone scese in piazza come un bacino d’utenza da convincere delle proprie idee. Si può rallegrarsi vedendo come per molta gente sia terminata la “pace capitalista televisiva” (1) e si inizi a fare domande. Ma un processo di politicizzazione richiede i suoi tempi per ogni persona e non credo sia possibile imporlo dall’esterno.
In ogni caso considero che con una sensibilità anarchica non si possa pensare ad arrogarsi il diritto di indirizzare il pensiero delle persone o approfittare dell’occasione per fare propaganda.

«Tutti, o quasi, sanno che bisogna esserci, che in un movimento sorprendente e con ricche potenzialità come questo è fondamentale operare» (2)

E ancora meno voler offrire una dottrina, un insieme di idee proposte che si adatti allo scontento generalizzato. Non credo si tratti di convincere nessuno delle “nostre” idee, né di proporre l’anarchismo in modo più o meno digeribile

«…rischiamo di restare in un ghetto se non sappiamo comunicare e farci capire. Così alcuni slogan “duri e puri del Blocco Libertario, presente al corteo del 15 maggio, ci sono sembrati del tutto fuori luogo (…)Non è intelligente presentarsi con gli obiettivi finali (abolizione dello Stato e di ogni potere) di fronte a gente che era in piazza con molta curiosità e speranza, ma che fino a ieri era semplicemente isolata e svuotata di capacità critica e di azione» (3)

Considero queste posizioni realmente lontane dal pensiero libertario e quanto meno arroganti, in primo luogo in quanto sembrano delineare una divisione così netta tra il “noi” (illuminati?) e il resto del mondo (ignorante) ed inoltre perché cercano di “vendere” il pensiero anarchico nel modo meno radicale possibile perché possa essere accettato senza porsi il problema dell’obiettivo finale. Credo l’importante sia proprio il contrario, ovvero che ogni persona arrivi alla sua conclusione, più o meno moderata, senza che qualcuno cerchi di vendergli la sua dottrina. Inoltre non darei nemmeno per scontato che buona parte di chi c’era non avesse gia maturato un suo pensiero critico e che questa sia stata solamente l’occasione per esternarlo e/o confrontarsi.
Il movimento del 15-M è stato caratterizzato da un forte sentimento di legalità e da una chiara volontà di non superare i limiti marcati dalla legge. Dalla voglia di essere corretti e non aver nulla di cui poter essere accusati perché chi infrange le regole sono i politici ed i banchieri. Bene. Ma perché invece a chi, questa legalità l’ha creata o sbandierata è sistematicamente permesso violarla?
Questa non vuol essere un’esaltazione “dell’illegalità”, ma solo una riflessione su di essa, per superare la reazione di sorpresa e indignazione collettiva quando los Mossos d’Esquadra hanno ricevuto l’ordine di sgomberare la Plaça Catalunya: si è visto chiaramente che la polizia mena anche chi non ha fatto nulla.
Anche di questo bisognerebbe finalmente prendere coscienza, in quanto sembra ci sia ancora chi, anche tra quelli che scrivono riflessioni sulla nonviolenza, pensa che la polizia risponde solo ad una violenza provocata dai manifestanti.
Chi è rimasto seduto in Plaça Catalunya con le mani alzate al cielo forse non sarebbe d’accordo con l’affermazione «usando mezzi di comunicazione ironica o razionale si è visto che la polizia resta incerta sul da farsi» (4). Mena. Altro che incerta.
E i mezzi di comunicazione razionali sarebbero i fiori con cui sono scesi in piazza lo stesso pomeriggio per riaffermare la legalità e il pacifismo del movimento? Chi ha preso le manganellate quel giorno (o in altra occasione) alla prossima manifestazione ci penserà due volte a rimanere seduto fiducioso della correttezza dell’azione delle forze dell’ordine e magari comincerà a mettere in discussione i poteri su cui si basa il sistema. Ulteriore presa di coscienza.

«vogliamo uscire dalla nota spirale: repressione/arresti/feriti/paura/rancore/reazione/campagne antirepressive» (5)

E chi non vorrebbe uscirne? Chi applica la repressione? Chi la scatena? E se invece che rimanere seduti per terra si inizia a correre, le manganellate sono giustificate perché se stai scappando qualcosa avrai fatto?

«la nostra forza sta nella radicalità delle idee e delle proposte, non nella violenza degli scontri» (6).

Quante persone si riconoscono nella violenza degli scontri?? Questa riflessione mi sembra fomenti semplicemente un’idea denigrante dei movimenti sociali come se non si basassero su delle idee e soprattutto come se avessero come unico obiettivo lo scontro.
Alla faccia della moltitudinaria e pacifica manifestazione del 15 giugno per bloccare la seduta del Parlamento Catalano che doveva approvare i tagli, i politici hanno pensato bene di raggiungere il Parlamento in elicottero perché la folla bloccava gli accessi. Non riesco a pensare ad una maggiore violenza!!
“L’aver bloccato il parlamento pacificamente sembra sia stato un caso di lesa maestà che da ogni parte hanno prontamente condannato. Ci si chiede allora, come si dovrebbe protestare? Qual è la maniera per manifestare l’indignazione? Bisogna forse proibire il malessere delle persone?” (7). In questo caso utilizzare metodi nonviolenti non ha evitato di creare situazioni di violenza, né che la repressione sia poi applicata con la stessa o maggiore intensità che in caso di scontri.

Quest’ultima affermazione nasce alla luce degli ultimi avvenimenti che mi sembra importante riportare.
In questi giorni a Barcellona si sta scatenando la repressione per quella manifestazione, con una caccia alle streghe contro persone appartenenti ai movimenti sociali. La Audiencia Nacional (eredità del Tribunal de Orden público che funzionava durante la dittatura franchista) ha stilato una lista di 22 persone politicamente “pericolose” e per consegnare loro una citazione a processo sta utilizzando metodi che decisamente non si addicono alla nonviolenza del movimento: i primi accusati sono stati prelevati per strada da incappucciati in borghese e trattenuti in commissariato qualche ora prima di ricevere la citazione a processo. Gli avvocati difensori si sono mossi per conoscere la lista completa ed evitare a tutti lo stesso trattamento, ed hanno invitato gli altri accusati a comparire in tribunale per ricevere la notificazione senza violenza. Incredibile a dirsi ma sono stati prelevati nel bar della Ciutat de la Justicia da polizia antisommossa dopo essersi presentati volontariamente e in attesa di una decisione sulla loro situazione. L’azione della polizia catalana è stata condannata da vari poteri, rimane comunque evidente un preoccupante abuso di violenza per motivi politici.

Valeria Giacomoni
(Barcellona - Spagna)

Note

  1. Pakarov, Luca “La primavera degli indignados (e non solo)”.
    http://www.rollingstonemagazine.it/cultura/notizie/la-primavera-spagnola-degli-indignados-e-non-solo/39759
  2. Indignados/3: Gli anarchici e il movimento 15-M, A nº365 pag.11
  3. Indignados/3: Gli anarchici e il movimento 15-M, A nº365 pag.11
  4. Indignados/2: Qualche riflessione sulla nonviolenza, A nº365, pag. 10-11
  5. Indignados/2: Qualche riflessione sulla nonviolenza, A nº365, pag. 10
  6. Indignados/2: Qualche riflessione sulla nonviolenza, A nº365, pag. 11
  7. Pakarov, Luca “La primavera deglli indignados (e non solo)

 

Roma, 15 ottobre/Può esistere un movimento senza soggetto?

Quando ho letto per la prima volta il volantino di convocazione della manifestazione del 15 ottobre mi sono detto: “Finalmente! Possiamo darci da fare unitariamente su questioni concrete che toccano tutti e sulle quali si giocano le prospettive di libertà dei popoli negli anni a venire. Era dal movimento No global che non ci si muoveva su questo piano.” Ero e sono convinto che una grossa limitazione alle politiche di welfare, che ritengo fondamento di ogni prospettiva di emancipazione popolare, derivi dai decreti che BCE, Banca Mondiale, FMI e OMC impongono ai singoli stati. Così mi sono riconosciuto nelle parole d’ordine con le quali è stata convocata la manifestazione. Poi però più il giorno si avvicinava più mi interrogavo sul senso di quella giornata e su quello del movimento politico che l’aveva promossa: coloro che hanno indetto la giornata di protesta mondiale contro il neoliberismo sono “gli indignati” spagnoli, un gruppo che si rifà al noto libro di Stephane Hessel. Quello degli indignati è un movimento fondato sul rifiuto delle politiche neoliberiste adottate dai governi per la soluzione di una crisi che nel neoliberismo è nata; è un gruppo attivo in Spagna da diversi mesi e che nell’occupazione delle piazze si è costruito, in maniera più o meno assembleare, una propria identità e degli obiettivi concreti. Dunque è una realtà poliedrica, aperta e plurale ma con dinamiche interne abbastanza rodate e che perciò è stata capace di rintuzzare i tentativi di eterodirezione dei partiti (v. il dossier “Spagna” e l’articolo di A. Papi sul numero di “A” 365 ottobre 2011).
In Italia però le cose hanno preso ben altra piega: non ci sono state occupazioni di piazza e il discorso e la lotta antiliberiste sono state egemonizzate, piaccia o meno, dalla CGIL; è infatti intorno agli appuntamenti convocati da questo sindacato contro le politiche di svendita del welfare operate dal governo in carica che si è sviluppato quel poco di mobilitazione nazionale esistente in questi tempi di crisi. Il movimento degli indignati italiani ha iniziato ad esistere in vista della scadenza del 15 ottobre ed ha pensato quella giornata come momento palingenetico capace di imporre una nuova forza al panorama politico italiano; quasi che l’indignazione fosse un franchising di cui andasse impiantata una succursale italiana e non un moto interiore spontaneo vissuto da chi ritiene la propria dignità offesa dalla propria condizione e perciò è portato a rivoltarsi contro coloro che hanno determinato tale stato di cose. Comunque in apparenza ci si trovava di fronte ad un appuntamento che, convocato dall’esterno, portava alla nascita di una realtà nuova nella quale si sarebbero identificati coloro che avevano intrapreso nei mesi passati la battaglia referendaria dei beni comuni insieme a quanti avevano contestato le scelte governative di politica economica sotto l’ombrello del sindacato italiano maggioritario e di altre organizzazioni dei lavoratori.
È proprio riflettendo sulla concreta possibilità della nascita di una nuova soggettività politica critica, così come era stata promossa dagli indignati italiani, che mi sono deciso a disertare la manifestazione: questo tipo di happenings mi sono apparsi privi di una reale capacità di creare novità politica e perlopiù capaci di riproporre vecchie logiche di gestione del dissenso, vecchie modalità, vecchi e bolsi leaders professionisti della cavalcata della protesta. Infatti, a mio avviso, se un movimento non ha identità ma nasce come un esperimento in provetta, sebbene intorno ad ottime e condivisibili parole d’ordine, il minimo che gli possa capitare è quello di essere strumentalizzato da chi, forte dell’appartenere a organizzazioni già costituite e consenziente rispetto allo status quo (ma dissenziente a parole), ha poco o punto interesse affinché nulla cambi nelle dinamiche di gestione del dissenso. Come pensare un’uscita dal neoliberismo senza pensare a nuove forme di partecipazione operaia alla determinazione delle politiche sindacali, differenti da quanto finora proposto dalle organizzazioni di riferimento dei lavoratori? Come pensare il superamento della gerarchizzazione delle scelte in materia di politica economica senza concepire un progressivo superamento delle istituzioni di rappresentanza e un’affermazione dei processi decisionali locali? Queste questioni non erano minimamente poste in agenda da chi aveva tirato le fila del 15 ottobre e ciò dimostra a mio avviso quanto in realtà quell’appuntamento non significasse altro che un riscaldamento della solita vecchia minestra i cui ingredienti sono sindacato rappresentativo centralizzato e gerarchico e partiti che rivendicano una specifica identità di classe da poter spendere nelle contrattazione istituzionale (le elezioni, come si vede, sono ormai prossime).
Quella piazza mi sembrava destinata, per il carattere apparentemente acefalo del movimento che la occupava, a normalizzare un conflitto sociale che attraversa la penisola per le politiche sperequative lì realizzate negli ultimi trenta anni; un conflitto che a mio avviso non deve essere ricompresso attraverso meccanismi di consenso istituzionale, pena un’ulteriore svolta in senso autoritario, forse la definitiva, della costituzione morale e materiale di questo paese. Il 15 ottobre sotto questo aspetto è un tentativo di riportare su binari vecchi e arrugginiti problemi che ormai richiedono soluzioni più coraggiose e soprattutto la nascita di un soggetto collettivo nuovo in grado di dare ad esse forme politiche inedite. Ecco perché anche se la giornata si fosse svolta senza scontri, pacificamente, sarebbe stata dal mio punto di vista un passo indietro nel percorso di superamento del dominio dell’uomo sull’uomo che va sotto il nome di neoliberismo. Questo a mio avviso chiude anche il discorso con quanti ora tra gli indignati lamentano il fatto che pochi violenti abbiano impedito lo svolgersi di una bella manifestazione pacifica e innocente: pacifica certo, ma sicuramente non innocente rispetto all’accredito istituzionale cui sottintendeva. Molti tra gli indignati italiani sono talmente poco innocenti da prestarsi alla delazione: essi oggi collaborano con le forze dell’ordine nella ricerca di prove, fotografie e filmati, che permettano l’arresto e la condanna di altri manifestanti con loro in piazza a combattere contro il sistema!
Gli scontri a mio parere hanno semplicemente accelerato una dinamica: hanno svelato quanto da parte di una specifica area filoistituzionale si volesse mettere il cappello partitico sulla giornata di protesta; un’area che si è subito affrettata ad avvallare la distinzione tra manifestanti buoni e manifestanti cattivi dimostrando così di voler usare la piazza e la protesta per un maquillage della propria immagine. Gli scontri e le valutazioni su di essi espresse hanno inoltre mostrato, ahimé, quanta compiacenza rispetto a questa operazione vi fosse tra molta parte degli indignati italiani. Il quadro è completo osservando come personaggi responsabili della situazione di degrado economico e morale in cui versa il paese si siano affrettati a stracciarsi le vesti plaudendo alle giuste ragioni dei buoni manifestanti e deprecando i pochi teppisti (la dichiarazione più assurdamente ipocrita è ascrivibile al governatore in pectore della BCE Draghi che ha riconosciuto il valore delle ragioni di chi protestava).
D’altro canto chi è caduto nella trappola mediatica degli scontri a mio avviso si è ritrovato doppiamente manipolato: la prima volta per avere aderito ad una manifestazione che aveva tutt’altro fine da quello della trasformazione dell’esistente in senso favorevole agli sfruttati e non agli sfruttatori e la seconda perché si è pensato contiguo a tale appuntamento, ovvero ha creduto di sovradeterminarlo, attaccando materialmente i simboli del potere contro il quale quella manifestazione era indetta. Io non ritengo infatti che sia utile, ai fini della trasformazione politica, attaccare dei simboli: tale azione può avere solo delle ricadute mediatiche e, appunto, simboliche, ma non materiali. Penso che per abbattere le strutture del potere sia necessario togliere ad esse il sostegno della maggioranza della popolazione e per far ciò si debba interloquire, scontrarsi e convincere, giorno dopo giorno; penso si debba mostrare che vivere liberi non solo è necessario e possibile ma è anche un rifiorimento della propria umanità nella trasformazione dei bisogni di cui essa si costituisce. Distruggere un bancomat o una filiale di un istituto di credito può avere senso quando chi lo fa ha motivazioni storicamente determinate e manifeste e per questo si getta nell’agone politico come soggetto dotato di un’identità precisa; allora è un atto politico: pensiamo, per esempio, se tutti coloro i quali acquistarono bond Parmalat avessero preso d’assalto gli istituti di credito che li hanno raggirati anziché adire le vie legali per ottenere pochi spiccioli...
Ecco perché, secondo me, è piuttosto insensato e controproducente attaccare degli strumenti del potere, quali sono bancomat, agenzie interinali, forze dell’ordine o altro, senza avere degli obiettivi tattici e strategici definiti. Ma perché ciò si dia deve esistere un soggetto conflittuale con un’identità definita e non era questo il caso in essere al 15 ottobre. Dopo avere visto i principali giornali di lunedì 17 ottobre verrebbe da dire, citando una nota canzone di Gaber riferita a ben altro soggetto politico, che questi cosiddetti insurrezionalisti “... dalle masse sono riusciti ad ottenere lo stupido pietismo per il carabiniere.” Ma il ruolo degli anarchici non dovrebbe essere altro rispetto all’alternativa tra ribellismo simbolico e quieta adesione ad un istituzionalismo pacificato e pacificante? Non dovrebbero i libertari in genere battersi contro tutte le forme di dominio e le mistificazioni che le consentono facendo opera di chiarificazione nello spicchio di realtà che abitano? È un atto più liberatorio partecipare a una manifestazione costruita su premesse così ambigue o denunciare tali ipocrisie, come ad esempio la falsità che celebrava la mobilitazione degli indignati come “la seconda superpotenza mondiale” quando poi il mondo, quello vero, continua ad andare tranquillamente a rotoli anche dopo il 15 ottobre (v. l’editoriale di A. Mastrandrea su “il manifesto” del 15 ottobre 2011)?
Pregherei la redazione di “A” di rispondermi su tali questioni.

Giovanni B. Albani
17.10.2011
(Carraie - Ra)

 

Siamo tutti anonymous

Gli hacker mi stanno simpatici. Ci hanno insegnato che il rapporto con le tecnologie deve essere aperto, che bisogna appropriarsene e non subirle, che condividere il sapere è fondamentale, e che dove si rinchiude un’informazione o un codice dietro a password e firewall, si sta chiudendo uno spazio di libertà. Negli hackmeeting, che si svolgono ogni anno in un diverso centro sociale della penisola, ho trovato una comunità di persone che mette le sue capacità tecnologiche a disposizione di un cambiamento radicale, della politica libertaria, della libertà di informazione.
Naturalmente gli hacker non sono un fenomeno monolitico, anzi all’interno di questa definizione si trovano gruppi e attitudini ben diverse, da quelle anarchiche a quelle più liberiste. Anonymous, il gruppo di hackers più famoso del pianeta, è parte di questa complessità: come sosteneva Biella Coleman nel suo intervento su “A” del mese scorso (“A” 366, novembre 2011), all’interno di Anonymous convivono anime diverse, anche perché si tratta di un gruppo amorfo, organizzato come una rete e senza leadership riconoscibili, ma con un brand potente e alcuni strumenti di comunicazione riconoscibili (alcuni blog e account Twitter). Anonymous non usa simboli dell’anarchismo classico. Tuttavia Anonymous è fondamentalmente riconducibile a un’identità anarchica di base, così come altri movimenti che da Seattle in poi non si definiti anarchici ma che hanno mutuato molte idee e pratiche dalla tradizione anarchica.
Da questo punto di vista però, una delle caratteristiche principali di Anonymous è il suo populismo: questo gruppo usa simboli e slogan legati a un’idea di ribellione molto semplice, le forze del bene costrette all’anonimato e alla clandestinità contro i governi e le multinazionali che controllano il mondo e i flussi di informazione. Il simbolo più noto tra quelli usati da Anonymous è ovviamente la maschera di Guy Fawkes resa nota dal fumetto ma soprattutto dal film V for Vendetta. La maschera del personaggio cinematografico anarchico più famoso del decennio. Vorrei affrontare brevemente il legame tra le pratiche e i simboli libertari usati da Anonymous e il ruolo che esso ha avuto nel lanciare le mobilitazioni di Occupy Wall Street.
Il 17 settembre, un gruppo di poche centinaia di persone si è accampato a New York, nei pressi di Wall Street, per protestare contro il capitalismo finanziario e seguire l’esempio di piazza Tahrir al Cairo e delle acampadas che la primavera scorsa ha riempito per settimane le piazze di tutta la nazione spagnola. Avreste immaginato la stessa cosa nel cuore del capitalismo globale, Wall Street? Eppure l’accampamento di Liberty Plaza ha tenuto duro, è cresciuto fino ad accogliere migliaia di persone e, nel momento in cui scrivo, da più di un mese tiene la piazza e le prime pagine dei quotidiani, mentre in tutti gli Usa decine di altre piazza venivano occupate. Qualche nome? Los Angeles, Boston, Chicago, San Francisco, Seattle, e non solo. La mobilitazione Occupy Wall Street era stata lanciata prima dell’estate da Adbusters - letteralmente “acchiappapubblicità, una rivista canadese di critica della società dei consumi, libertaria, il cui tratto distintivo è la rielaborazione di immagini e linguaggi pubblicitari, il subvertising (sovversione della pubblicità). Ma il 23 agosto Anonymous ha aderito, a modo suo naturalmente, a Occupy Wall Street, pubblicando in rete un video in cui una voce travisata diceva “Anonymous calerà su Manhattan. Prepareremo tende, cucine, barricate pacifiche, e occuperemo Wall Street per alcuni mesi”. Nelle settimane successive sono stati pubblicati comunicati bellicosi, con dichiarazioni di questo tono: “Dichiariamo una guerra di popolo contro la Borsa di Wall Street”, e firmandole con il loro motto “Siamo anonimi, siamo una legione. Non perdoniamo e non dimentichiamo. Wall Street, aspettaci”. Quel video è stato forse il principale strumento che ha fatto conoscere il progetto di occupazione di Wall Street ai cittadini: grazie alla fama di Anonymous, la notizia è stata ripresa da molti mass media statunitensti e ha contribuito in maniera determinante a rendere possibile la realizzazione dell’occupazione.
In seguito, durante le prime settimane di occupazione di Wall Street Anonymous ha lanciato diversi cyber-attacchi contro istituzioni repressive come la NYPD, la polizia di New York, ma nessuna di queste minacce si è verificata. Come spesso accade, gli attacchi di Anonymous non hanno grossi effetti: nei casi migliori sono riusciti a saturare un sito internet, rendendolo inaccessibile. Però c’è qualcos’altro che ha reso Anonymous un importante tassello nel creare la mobilitazione a Wall Street, cioè la sua potenza mediatica. La simbologia anarcoide, l’anonimato, i video interpretati da persone vestite da top manager ma con la maschera di V for Vendetta, la promessa di colpire i potenti per proteggere “il 99%” cioè tutto il popolo sono tanto populisti quanto funzionali alla mobilitazione. In questo senso sia l’attitudine hacker più classica, sia l’anarchismo inteso come ideologia politica, mi sembrano passare in secondo piano rispetto alla necessità di lanciare una protesta forte seppure senza obiettivi politici chiari.
Non è un mistero che le mobilitazioni in Spagna e negli Stati Uniti siano state accomunate da una difficoltà a individuare richieste politiche chiare. In Spagna, la stragrande maggioranza della popolazione si diceva d’accordo con le “acampadas”, mentre a New York i manifestanti dicevano di rappresentare “il 99%”. Ovviamente, mettere d’accordo il 99% dei cittadini significa diluire ogni possibile rivendicazione. Anonymous insiste sul colpire i cattivi governi, le ingiustizie, ma senza avere alcun vero progetto politico. Ripeto, in un certo senso è un fenomeno anarchico: senza leader, senza strutture gerarchiche. Ma l’anarchismo di Anonymous mi sembra uno strumento più che un fine politico. La struttura a rete permette di aggregare persone in modo informale. L’immagine da Robin Hood della rete, da agenti segreti hacker al servizio delle lotte contro le ingiustizie, è molto forte, e permette di intercettare i bisogni delle migliaia di persone che non si sentono rappresentate dalla politica istituzionale, che non hanno più fiducia nelle organizzazioni, che vogliono trovare nuove forme di azione diretta, che vogliono partecipare in prima persona. Tutti possiamo indossare una maschera di V for Vendetta. Tutti possiamo partecipare al sabotaggio di un sito web. Tutti siamo Anonymous e Anonymous non è nessuno. A me Anonymous piace da morire.

Alessandro Delfanti
(Milano)

 

Indipendentismi e anarchismi

Gentile Redazione,
“sfogliando” sul sito di “A” alcuni vecchi numeri, mi soffermo con particolare interesse sull’articolo di Gianni Sartori “Indipendentismi e anarchismi” pubblicato sul n. 358 del dicembre 2010/gennaio 2011.
Nonostante il suo scetticismo riguardo “ ... la possibilità di un rapporto organico, “fisiologico”, stabile e strutturale tra anarchismo e indipendentismo di sinistra ...” Sartori cita diversi casi di collaborazione e sovrapposizione tra anarchismo e indipendentismo di sinistra. La possibilità che si possa essere anarchici e al contempo indipendentisti però, non viene presa in considerazione. Esiste questa possibilità? Credo di si. È un’eresia? Credo di no.
Penso che uno degli elementi che da sempre garantiscono la sopravvivenza di Stato e Capitale sia la totale omologazione delle identità e dei bisogni. Mai come ora, ma ben prima che si cominciasse a parlare di globalizzazione.
Se la pratica della monocoltura in ambito agricolo impoverisce i territori rendendoli nel tempo sterili, lo stesso accade a noi, sottoposti alla pratica della monocultura. La nostra cultura individuale e collettiva si impoverisce. Una sola lingua e un solo modello per tutti significano garanzia di controllo da parte dello Stato e garanzia di affari per il Capitale. Non solo oggi perdiamo e rischiamo di perdere per sempre specie animali e vegetali, ma anche lingue e conoscenze tradizionali.
L’individuo che fa parte di una cosiddetta “nazione senza stato”” (un termine che non condivido, dato che afferma implicitamente la necessità di istituzioni statali, ma che è comunemente accettato) non solo subisce l’oppressione dello Stato e del Capitale come qualsiasi altra persona ma viene anche privato della sua “identità collettiva”” che possiamo definire ““originale”” in favore di una identità ““artificiale”” alla quale volente o nolente si deve omologare. Baschi, catalani, corsi, bretoni, sardi (non prendo nemmeno in considerazione i padani per il semplice fatto che non esistono) etc. sono tali da sempre, da prima che qualcuno si arrogasse il diritto di tracciare confini che li includono in uno stato (oppure, ad esempio, nel caso di baschi e catalani addirittura che li separano) al quale appartengono solo dal punto di vista burocratico.
Se è vero che ““nostra patria è il mondo intero”” è anche vero che abbiamo radici etniche, culturali, linguistiche. Riscoprirle in un’ ottica libertaria e farne strumento di emancipazione penso sia possibile.
Riscoprire le proprie radici in un’ottica libertaria, credo, significhi riconoscere che la propria lingua e la propria cultura originarie si sono sviluppate anche grazie alle più svariate influenze, significa riconoscere nelle proprie elementi comuni ad altre lingue, etnie e tradizioni, rifiutando quindi ogni possibile appello ad una ipotetica “purezza”. Significa essere curiosi dell’altro avendo la consapevolezza di essere portatori di conoscenze anche molto antiche, ma anche saperle rinnovare. Significa scoprirsi parte di qualcosa senza perdere la propria individualità.
Farne strumento di emancipazione significa andare oltre le posizioni indipendentiste ““classiche”. L’indipendentismo mette in discussione le attuali entità statali e non ne riconosce i confini (ad esempio per gli indipendentisti baschi il confine che li divide tra francesi e spagnoli semplicemente non esiste). Quasi sempre però la critica viene mossa a “quello” stato ed alle sue istituzioni, e quasi sempre con l’idea di crearne un altro, non allo Stato in quanto tale. Qui si può inserire la critica anarchica allo Stato.
Impossibile non trovarsi d’accordo con Sartori quando scrive che ... si possa parlare legittimamente di ““movimento di liberazione”” quando la lotta va anche contro il sistema economico responsabile dell’oppressione coloniale (capitalismo, imperialismo, neoliberismo, capitalismo di stato...)”.
Se il Capitale è ormai quello delle vorticose transazioni finanziarie e il “padrone” non ha più un volto. Se lo Stato è svuotato di ogni vero potere, nient’altro che un apparato parassitario il cui scopo principale è perpetuare se stesso e la cui agenda politica è dettata dalle borse e dalle agenzie di rating. Se tutta la sua forza repressiva/aggressiva è al servizio dei potentati economici (però a questo punto mi chiedo: “quando non era così?”), forse sono proprio le lotte indipendentiste (ma non solo ovviamente), con il loro riferirsi a territori e popoli, che possono creare un cortocircuito in un sistema che sembra ormai inarrestabile.
Un’economia partecipata che soddisfi i reali bisogni delle comunità e la riscoperta di prodotti artigianali o alimentari a livello locale in contrasto con la produzione industriale e la grande distribuzione sono questioni tanto anarchiche quanto indipendentiste.
L’idea anarchica di libere comunità federate tra loro credo abbia già in sé il germe “indipendentista”. Nel momento in cui queste comunità dovessero nascere e federarsi che ruolo giocherebbero le comuni radici? Credo un ruolo importante.
Il pericolo, bisogna riconoscerlo, potrebbe essere quello di vedere nascere microstati su base etnicolinguistica fortemente escludenti e discriminatori nei confronti del “diverso”. Ma non è in fondo il rischio potenziale che correrebbe qualsiasi comunità? Perfino la più aperta ed eterodossa potrebbe trovare elementi validi per escludere e discriminare alcune categorie di persone. Anche qui il pensiero e l’azione degli anarchici potrebbe essere determinante per indirizzare il progetto e lo sviluppo di queste comunità in senso solidale ed inclusivo.
Un’altra e più immediata minaccia, che inquina qualsiasi discorso sull’indipendentismo, mi pare sia quella dei movimenti che si presentano come portatori di istanze regionaliste - indipendentiste ma non sono niente altro che fascisti travestiti. Un cambio di camicia, magari da nera a verde, et voilà il gioco è fatto. È lo stesso Borghezio a sostenerlo, nel marzo 2009 ospite ad un meeting in Francia:” “Bisogna entrare nelle amministrazioni e nelle piccole città. Bisogna insistere molto sull’aspetto regionalista del vostro movimento... è il modo giusto per non essere classificati immediatamente come fascisti nostalgici ma come un nuovo movimento regionale, cattolico, etc., anche se sotto queste cose siamo sempre gli stessi”.” Anche agli anarchici il compito di smascherarli.
Penso che un mondo davvero ricco ed interessante è quello dove mille lingue, mille culture, mille musiche e danze, mille cucine, mille arti e letterature, mille tradizioni si confrontano, si conoscono e si riconoscono, trovando nell’altro un poco di sé nonostante le differenze.

Igor
(Berlino - Germania)

 

A proposito del 4 novembre

4 novembre: «la guerra è pace», «la libertà è schiavitù», «l'ignoranza è forza».
Dicono che mancano i soldi per le scuole, per le università, per gli ospedali, per i servizi pubblici. Per rilanciare l'economia, il governo vuole licenziare di più e allungare l'età pensionabile. Dicono che bisogna fare a meno dei diritti perché i soldi non ci sono, c'è la crisi e bisogna tirare la cinghia.
Ma per l'esercito, le guerre e gli strumenti di morte i soldi si trovano sempre.
Venti miliardi e mezzo di euro: a tanto ammonta il bilancio del Ministero della Difesa per l'anno 2011. Centonovantadue milioni di euro in più rispetto al 2010. In particolare, le missioni all'estero di quest'anno sono costate un miliardo e mezzo di euro. E per la guerra in Libia, che ha visto l'Italia in prima linea, si parla di almeno settecento milioni.
In tempi di crisi, tutto questo è semplicemente disgustoso.
Le istituzioni italiane si apprestano a festeggiare, ancora una volta, la ricorrenza del 4 novembre (la fine della mattanza della prima guerra mondiale) con la solita retorica patriottica e nazionalista. Saremo costretti a sorbirci le ipocrisie di una classe dirigente impresentabile e corrotta che straparlerà di missioni di pace, di valori forti, di unità nazionale.
Caserme aperte al pubblico, mezzi blindati per le strade, uomini in divisa che imbracceranno fucili e accarezzeranno bambini. Un lugubre palcoscenico allestito per nascondere la cruda realtà del militarismo, una realtà fatta di morte e distruzione.
Quanto sia feroce e criminale la guerra lo sanno bene in Afghanistan, Iraq, Somalia, Libano, Kosovo, Libia, e in tutti i teatri di conflitto che hanno visto il coinvolgimento delle forze armate italiane nell'interesse dei grandi gruppi economici e delle classi dominanti. Lo sanno bene le popolazioni civili costrette a vivere accanto a installazioni militari altamente nocive per l'ambiente e la salute. Lo sanno bene i familiari di chi è tornato a casa in una bara avvolta nel tricolore.
Qui al Sud, dove manca il lavoro e la crisi picchia duro, l'unica prospettiva concessa ai giovani è quella di arruolarsi e fare gli assassini di professione. La guerra è entrata nella normalità del vivere al punto che ci si è perfino abituati a vedere i soldati per le strade impiegati in servizi di “ordine pubblico”. La guerra viene combattuta giorno per giorno nelle nostre città, nei centri di detenzione per immigrati, nelle servitù militari che occupano i nostri territori, nell'autoritarismo dei rapporti sociali e nella repressione del dissenso.
E allora, in questo mondo orwelliano dove «la guerra è pace», «la libertà è schiavitù», e «l'ignoranza è forza», uno degli atti più rivoluzionari che si possano fare è dire le cose come stanno, rifiutando con forza e determinazione la propaganda del potere.

Gruppo Anarchico “Andrea Salsedo”
(Trapani)

 

 

I nostri fondi neri

Sottoscrizioni.
Alessandro Fiori (Castel Bolognese – Ra) 15,00; Donato Apollonio (Milano) 40,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Amelia e Alfonso Failla, 500,00; Simone Capula (Torrazza Piemonte – To) 20,00; Andrea Cardin (Mira – Ve) 20,00; Paola Ghezzi (Marcheno – Bs) 20,00; Patrizio Quadernucci (Bobbio – Pc) 50,00; Giorgio Pittaluga (Recco – Ge) 10,00; Alessandro Fico (Fodega di Sant'Urbano – Tv) un fiore per Vittorio Arrigoni, 5,00; Davide Andrusiani (Castelleone – Cr) 20,00; Battista Saiu (Biella) 20,00; Giovanni Orru (Nuoro) 20,00; Luciano Chianura (Avetrana – Ta) 10,00; Pietro Goisis (Rognano – Bg) 60,00; Settimio Pretelli (Rimini) 30,00; Federico Caucci (Artena – Rm) 5,00; Davide Masoero (Lisbona – Portogsllo) 50,00; Antonio Gei (Piovene Rocchette – Vi) 30,00. Totale euro 920,00.

Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, trattasi di euro 100,00). Paolo Fossati (Arosio – Co); Alfonso Amendola (Salerno); Michele Pisicchio (Roma); Massimo Colombo (Triuggio – Mi); Salvatore Piroddi (Arbatax – Og); Lorenzo Guadagnucci (Firenze): Agostino Perrini (Brescia); Alfredo Gagliardi (Ferrara) 250,00; Gianni Mura (Milano) 1.000,00; Giuseppe Anello (Roma). Totale euro 2.050,00.