Rivista Anarchica Online


scuola

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La ricreazione è finita

Preferirei essere intelligente.
Se lo fossi, e se facessi un altro mestiere, eviterei con cura di andare in vacanza in agosto. Però per il lavoro che faccio – insegnare, dovunque questo accada – si tratta di un’opzione non consentita. Perciò, felicemente rimbambita, d’estate mi dedico a un forsennato riposo, come fan tutti. È la consolazione dell’omogeneità, la perplessa convinzione di normalità che si genera quando si fanno le stesse idiozie in compagnia. Negli sporadici momenti di lucidità, abbiamo tutti il terrore di essere visti da qualche collega di lavoro o, peggio ancora, da qualche studente mentre facciamo i cretini con i nostri figli, ci infiliamo i pattini senza avere idea di come pattinare, indossiamo improbabili completini da mare, portiamo fuori il cane dimenticando di toglierci il pagliaccetto che usiamo come pigiama e ce ne andiamo in giro acconciati da “turisti” con la semplice scusa che “è estate”. Ho perfettamente presente il brivido di terrore che mi prende quando uno studente dichiara soddisfatto: “Prof, quest’estate l’ho vista!”. È un’emozione che non auguro a nessuno, ma che prontamente dimentico quando entro nella zona di ridicolo libero che va sotto il nome di “vacanza”. Tra parentesi, è proprio durante le vacanze che capitano le cose più interessanti in materia di legge. Mentre siamo tutti gloriosamente distratti, il governo vara le norme che poi si farà più fatica a rimuovere, escono i bandi dei concorsi più ambiti, dei quali nessuno si accorge se non quelli che devono vincerli, si sposano i ministri piccoli e grandi (soprattutto quelli piccoli, fisicamente e intellettualmente), e si costruisce l’ossatura delle nuove beffe della quali noi comuni mortali verremo fatti oggetto. Ce ne accorgeremmo, se non fossimo distrarti a divertirci come pazzi.
Gabbati dal caldo e dalla festa, poi, torniamo al lavoro in settembre, con un spaesamento geografico che ci è familiare e che viene potenziato dalla temporanea consapevolezza della follia che stanno diventando i luoghi di lavoro di questi tempi. Negli ultimi quattro anni, ogni volta che sono tornata al lavoro in settembre, era in corso l’aggiornamento dei curricula accademici per la produzione di un Nuovo Ordinamento. Attualmente, dove lavoro io, ci sono tre tipologie di nuovi ordinamenti, con differenze esiziali, ma amministrativamente distinti. Se uno studente rimane indietro con gli esami, diventa più semplice abbatterlo a fucilate che architettarne la quieta conclusione degli studi. In alternativa, si può distrarlo mandandolo all’estero.
Molti Ministri incaricati di badare all’Università hanno di recente celebrato i pregi dell’Internazionalizzazione. È la “mission” degli atenei, si dice. Occorre incoraggiare i contatti con l’estero: mandare studenti, inviare professori e incoraggiare la reciprocità. In questa volenterosa propensione verso il resto del mondo, vi è un vulnus che ancora non mi è riuscito di sciogliere: come si fa a viaggiare gratis? Chi mi aiuta a coprire le spese se vado, mettiamo, a Minsk, come visiting professor? Per questo, se potessi, punterei a Honolulu: se devo pagare tutte le mie spese, meglio migrare tra i surfisti.
Ancora più misteriosa è la procedura per mandare i nostri studenti a studiare all’estero. Senza soldi, sempre. Di fronte allo stupore degli aspiranti giovani viaggiatori, i miei colleghi e io ci siamo spesso esibiti in avventurose ipotesi di lavori estivi destinati a sostenere il privilegio di un doppio titolo internazionale. A essere onesti, bisogna dire che qualche progetto di finanziamento internazionale esiste, ma un po’ sottodimensionato. Uno degli spettacoli più interessanti di questo preciso momento storico in università è il modo in cui le strutture locali – i singoli atenei, cioè – si arrampicano sui vetri per ottenere la moltiplicazione magica dei fondi: è un rito alchemico, che non è ancora pervenuto a soluzione, ma confidiamo che prima o poi noi si riesca trovare la formula giusta. Nel frattempo, il mantra dell’internazionalizzazione continua a essere recitato dai politici incaricati di prendersi cura dell’elefante università. E come tutti i mantra, è auspicabile che prima o poi, a forza di seccare la divinità, ella acconsenta e ci regali il miracolo di una ricerca o di un progetto internazionale finanziato.

Con questi pensieri per la testa, chiudo le vacanze e torno al lavoro. Regolarmente, col raffreddore e il naso chiuso. Si tratta di una precisa sintomatologia psicosomatica: non voglio respirare la stessa aria dei deficienti che mi circondano. Che sono tanti e di norma collocati in posizioni di controllo istituzionale.
Per questo preferirei essere intelligente: perché a essere intelligenti, come dice mia figlia, si trovano spazi molto meno affollati.

Nicoletta Vallorani