Rivista Anarchica Online


riflessioni

Disattendere i poteri. Pratiche in movimento. Sguardi filosofici

di Silvia Bevilacqua e Pierpaolo Casarin
foto di Maddalena Bartolini e Luca Terravecchia

Sabato 15 e domenica 16 gennaio 2011 si è tenuto a Genova un convegno di studi organizzato dalla Comunità San Benedetto al Porto dal titolo Disattendere i poteri, pratiche in movimento.
Di seguito ne trovate una traccia. Un semplice sviluppo di alcuni, non tutti, pensieri emersi dalle riflessioni dei partecipanti al convegno.

 

“Io non voglio fare la parte del profeta che dice: Prego, sedetevi, quello che sto per dirvi è molto importante.
Il mio scopo è discutere insieme del nostro lavoro comune”

M. Foucault

Le giornate che stiamo qui per raccontarvi, attraverso il pensiero di chi vi ha partecipato, sono una proposta maturata nel corso di alcuni anni di esperienze di pratiche filosofiche in diversi contesti, comunità, carcere, scuole, piazze, ed è un invito alla possibile intersezione di queste con altre pratiche educative connesse all’orizzonte libertario. Questo, non solo per rintracciare differenze e traiettorie affini, rispetto al tema del potere e dell’autoritarismo, ma anche per mettersi in gioco in una direzione autocritica non dando, così, per concluso e definito il pensiero che intendiamo articolare. Pratiche in movimento è stato organizzato dalla Comunità San Benedetto al Porto in cui da diversi anni è attivo un progetto di pratica filosofica che ha coinvolto persone e associazioni che provengono da un orizzonte ampio del mondo educativo, sociale e politico. Le giornate organizzate nella Casa di quartiere nel ghetto di Genova sono iniziate con un’attività di pratica filosofica aperta al territorio e una presentazione di Domenico Chionetti, Maddalena Bartolini e Francesca Traverso dei progetti della stessa Casa di quartiere come luogo in cui si intraprendono relazioni, s’inaugurano spazi collettivi e di ascolto, si attivano progetti con scuole, abitanti, associazioni rivolti a valorizzare la vita e il vissuto nei caruggi dimenticati. Il secondo giorno, svoltosi a Palazzo Ducale, ha visto un’alternanza di pensieri e prospettive che, a partire dalla questione della disattesa dei poteri, hanno sollevato riflessioni su temi ed esperienze che mettono in discussione la linea gerarchica e disciplinare di alcuni modelli politici, educativi e sociali.
Partiamo dalla parola, visto che talvolta le parole si fanno pietra, ma anche carne, per aprire un orizzonte e non chiuderlo, per invitare a sguardi, per manometterla. Abbiamo pensato molto alla parola, come evocare la posizione del contrasto, della contrapposizione senza immediatamente pensare ad una lotta uno contro l’altro, ad una dialettica binaria? Come mantenere l’idea deleuziana della rizomaticità delle possibili linee che nascono senza centro e potere, ma si concatenano creativamente? Come mantenere lo sguardo foucoultiano dello scardinamento del dispositivo di potere? Come essere buoni artificieri? Sempre per rimanere interni ad un lessico foucaultiano. Da queste domande nasce disattendere. Disattendere è un movimento, un verbo all’infinito, un invito a muoversi nella direzione della non-attesa, della non soddisfazione di un’aspettativa che ci siamo pre-fissati o che qualcuno ha pre-fissato. In prima battuta potremmo stupirci. Cosa significa che non dovremmo non soddisfare un’aspettativa? Significa che dovremo deluderla? Se pensiamo alla società dell’efficienza, della ricerca di prestazioni omologate ad un dato sistema che senso ci offre questa prospettiva? E se diciamo disattendere i poteri dove ci conduce il significato nel farsi azione, movimento? Potrebbe essere non solo un invito, ma un fare pratico che contrasti il potere, la sua azione, che decostruisca sia i meccanismi, sia i dispositivi a cui siamo soggetti e a cui assoggettiamo. Una politica delle relazioni che gioca con noi nel quotidiano nelle linee dei ruoli, degli scambi delle situazioni che viviamo, ma che allo stesso tempo sia creativa nel generare pratiche, luoghi e tempi, esperienza ed esperimento di trasformazione. Contemporaneamente non sentirsi immuni, moralmente superiori e intraprendere una manovra critica autoriflessiva che sappia tenere conto del valore delle contaminazioni, delle differenze. Una non linearità rizomatica che può, forse, portare libertà e differenza, disattendendo la direzione dell’istanza gerarchizzata.

Momenti del Convegno

Mettere in connessione

Con questo s’intende immaginare l’inizio di un movimento di pratiche che abbia a che fare con le istituzioni e la politica dalle agenzie educative, mediche, carcerarie, ed altro ancora, sino alle relazioni quotidiane che intraprendiamo con gli altri e con noi stessi. A partire dalla questione del potere e dalla tradizione anarchica e libertaria, che storicamente lo ha messo in discussione, vorremmo rintracciare quel seme sotto la neve tanto caro a Colin Ward. Consapevoli che il potere genera stati di dominio, territorializzazioni di sapere, ma anche luoghi di relazioni, di possibilità.
Dunque, come possiamo attivare esperienze di reversibilità di questi meccanismi? Come allentare i meccanismi autoritari e gerarchici? Disattendere, dunque, non solo come decostruzione, ma come detonazione, allentamento, trasformazione dallo stato di dominio caratterizzato da immobilità per intonare una prospettiva in cui la libertà ha un senso perché ci induce a “ […] praticare un’uscita da se stessi, un’alterazione della propria condizione di soggetti bloccati nei dispositivi identitari[…]”. (1)
Naturalmente non si cerca una risposta, ma si desidera mettere in connessione, concatenare direbbe Deleuze, esperienze che si sperimentano in questa prospettiva di attenuazione e disattesa. Un impegno che ci riporta a riflettere sulla responsabilità che dovremmo sentire se parliamo di libertà di movimenti e movimenti liberi in un di-slocamento di noi stessi da marchi ed etichette, da pretese autoritarie, da colonizzazioni di territori sociali, culturali, filosofici, per avviarci in un’idea collettiva della ricerca.
Con questo spirito si sono proiettati degli sguardi sulle pratiche. In questi passaggi che tenteremo di armonizzare in un orizzonte aperto troverete riflessioni che ci offrono un’occasione in più per pensare a ciò che si fa e come lo si fa.
A partire dall’intervento di Francesco Codello l’invito è quello di riflettere sulle pratiche di educazione libertaria e sull’educare ad essere. Un’esperienza significativa di disattesa dei poteri, con una lunga storia alle spalle, di tipo pratico, educativo e politico, trascurata o lasciata ai margini dal sapere pedagogico ufficiale che spesso rifugge ciò che ha il profumo della possibilità della creazione di spazi liberi, autonomi. Francesco Codello, da anni impegnato a intercettare e conoscere pratiche di educazione libertaria, ci propone un orizzonte in cui il concetto di democrazia non va visto nella mistificazione che questa parola ha subito negli ultimi anni e ci mette in guardia dal rintracciare il suo significato nelle dichiarazioni esasperate di democraticità a cui oggi assistiamo. È chiaro che la democrazia di cui si parla ci porta sulla strada dell’idea partecipata, delle reti che si infittiscono e scambiano pensieri conoscenze in modo orizzontale, nulla ha a che vedere con la grande macchina dei finti sistemi democratici contemporanei. Dunque entriamo in queste scuole, che non vogliono essere l’isola perfetta immaginaria, ma intendono essere un esempio pratico, concreto e realizzabile di un ideale antiautoritario che si misura costantemente e quotidianamente con le esperienze che si vivono e con le domande delle persone in gioco. Queste scuole esistono ed esistono da diverso tempo, pensiamo a Summer Hill.
Queste scuole, come indica Codello, hanno delle caratteristiche che non vogliono essere precettive, ma piuttosto pratiche. Pratiche rispetto all’educare ad essere e non al dover essere a partire dalla partecipazione attiva ad una propria e reciproca crescita non coercitiva. Sono questioni, domande e pensieri importanti, che ci riguardano. Questo educare ad essere, dice Codello, non é la ragione perfettibile dell’essere, è esattamente l’opposto del sapere e della conoscenza per apparire, è un saper essere contro un sapere per consumare, è educare per condurre sé, contro educare per dover essere, e poiché “essere” è il fine dell’educazione la diversità è considerata ricchezza. Senza questo non vi è libertà.
Dunque non un’imposizione al dover essere, ma una tensione alla possibilità dell’essere che in ognuno ha una propria naturalità d’espressione.

Pierpaolo Casarin e Silvia Bevilacqua, autori di questo articolo.
Genova, 20 giugno 2009. Philosophy for Faber, dialoghi
filosofici in piazza in occasione della
manifestazione Faber e la città vecchia promossa
dalla Comunità San Benedetto al porto di Genova

Rischiosa possibilità

Tema ripreso dalle parole di Felix Garcia Moriyon che connette il progetto di M. Lipman della Philosophy for Children al pensiero anarchico e ad un profondo impegno con la democrazia. Garcia sottolinea che il concetto anarchico di una democrazia partecipata esige persone attive, autonome solidali capaci di pensare a se stesse in modo critico, attento e creativo sempre disposte a cooperare con gli altri. Questo, aggiunge, può accadere solo se nel nostro percorso di vita e crescita passiamo attraverso contesti e relazioni che permettano che questo accada. Ciò che i pensatori e militanti anarchici sostengono, dice Garcia, è che quello che danneggia maggiormente la società è il problema del potere e dell’oppressione. Dunque la domanda che interseca questa pratiche è: come trovare i modi, e dunque le pratiche, per superare questi stati di dominio e creare non solo spazi ma pratiche di libertà che non lascino a margine questa tensione alla disattesa del potere?
Con questo, è chiaro, usciamo nettamente dalla visione disciplinare autoritaria che l’educazione dominante ha imposto e che non pensa all’essere e alla sua libertà di essere ma alla fissità e al mantenimento di un certo stato di cose.
Le caratteristiche delle scuole raccontate da Francesco Codello rappresentano l’esperienza pratica di queste idee che non vogliono essere semplici premesse o intenzioni, ma un agito. Si realizza di fatto la partecipazione diretta alle decisioni e all’organizzazione della scuola, senza limiti o distinzioni di età, sesso, condizione economica, cultura. Tutti hanno il medesimo potere nelle assemblee settimanali rispetto alla definizione e decisione condivisa delle regole di vita della comunità. Dunque non siamo alla distorsione della visione superficiale che intende l’anarchia come sregolatezza, ma alla sua più profonda libertà come impegno a vedere le regole come non definitive, non calate dall’alto, ma piuttosto discusse, dialogate e decise criticamente con la partecipazione di ognuno e di tutti. Forse, se lo spazio di libertà che intendiamo aprire ha in sé il seme della sua possibile alterazione, allora possiamo sentirci più vicini alla libertà? Con questa pratica della libertà e della libera partecipazione anche l’adesione ai corsi e alle lezioni è libera, non vi è obbligo di frequenza.
Una semplice e al tempo stesso rischiosa possibilità. Codello ci chiede di immaginare cosa succederebbe nelle nostre scuole; solleva anche una questione più ampia che riguarda il nostro tempo. Siamo abituati a vedere come significativi gli spazi e i tempi perlopiù adibiti a, strutturati per, organizzati a, canalizzati, orientati, impiegati, tutto il resto rischia di apparire tempo speso male, tempo perso. In queste scuole si opera una disattesa del tempo utile, si da la possibilità che questo tempo liberato ci sia e sia lasciato non all’organizzazione, ma al desiderio e al piacere di essere vissuto perché è tempo. Qui si gioca il nostro tempo, oggi bloccato, dominato. Si tratta di dilatarlo, de-specializzarlo, liberarlo, darlo alla scelta.
Qui ci viene incontro anche il pensiero di Giuseppe Ferraro, nella sua riflessione Ai margini della città quando dice:
le cose inutili sono quelle importanti, le cose utili sono quelle necessarie, sono tanto più necessarie quando rendono possibili le cose importanti inutili, ma quali sono le cose importanti? Le cose importanti inutili, le cose inutili, sono il tempo che noi diamo e che non è dovuto. Le cose inutili sono nei rapporti d’amore […] quell’inutile, che è importante, è il tempo che noi doniamo, è il tempo che si dona, è il tempo che non si ha perché, se si da il tempo che si ha non è un dono.
Questa prospettiva ci chiede anche di liberarci dall’idea di un certo tipo di tempo organizzato, programmato, trascurando così l’idea che la scelta di ognuno sia parte di un percorso educativo, di vita, in cui siamo soggetti attivi. Chiaro che questa prospettiva offre a molti la sensazione che qui ci sia un rischio … che nulla può darsi come vero e indiscutibile. In queste scuole anche la scelta dei docenti segue un percorso di condivisione e decisione orizzontale, essa non avviene per scorrimento di graduatorie ma avviene con il consenso di bambini e bambine, ragazzi e ragazze.
Codello ci invita a pensare l’educare come ciò che porta all’essere e non al dover essere, una relazione di reciprocità non gerarchica, ma dialogica in cui si disattende l’idea che l’educazione sia il tentativo di plasmare le persone secondo un’idea di essere umano predefinita. Rifacendosi a Tolstoij ci ricorda che ogni educazione che tenda alla libertà tiene presente il concetto di empatia come elemento essenziale da possedere per potere essere un educatore.
Anche Garcia nella stessa direzione ricorda che ciò che si cerca in educazione non è né una conversione in cittadini obbedienti e tantomeno in buoni anarchici, la sfida consiste nell’aiutare a pensare da soli e arrivare a essere chi si è o vuole essere.
Empatia, affettività, relazione sembrano disattendere una certa rigidità e programmazione dell’insegnamento, disattesa che si rintraccia anche nella filosofia in carcere quando nelle parole di Ferraro si intravede come orizzonte l’idea di una filosofia che sia toccarsi come avvicinamento al mondo, come libertà dei corpi che sono in gioco. Meno divieti dunque per una possibilità di crescita libera, che non sia un processo di normalizzazione affinché si sottomettano alle norme sociali senza prestare attenzione alle necessità individuali nel collettivo. Per questo Garcia vede nel progetto della Filosofìa para ninos la possibilità di dare attenzione al pensiero alle sue capacità, alla tensione critica creativa e affettiva di cui si ha bisogno per far fronte ai problemi propri di una società. In particolare in relazione all’idea della comunità di ricerca e di pensiero che si costruisce nella pratica filosofica con i bambini si valorizza un altro concetto basilare dell’anarchismo, quello del mutuo appoggio, tentando così di raggiungere il fragile equilibrio fra libertà e uguaglianza. Non buoni e cattivi, ma esseri in compagnia di altri esseri. In questo la Filosofìa para ninos rompe il dispositivo autoritario e gerarchico della classe, dice Garcia: “dobbiamo rompere gli oppressivi muri delle scuole, e la non educazione che offre la classe insegnante attuale. Lasciare soli i bambini a pensare, giocare, costruire la loro crescita e allo stesso tempo essere persone libere, capaci di provvedere a se stesse”.

Il pensiero dell’attenzione

Il maestro dunque, dice Antonio Cosentino, è colui che si sottrae a questo ruolo di maestro. Il progetto di Lipman si basa sui concetti di facilitatore e di comunità di ricerca, disattendendo il sistema scolastico per valorizzare una relazione educativa che inviti a esplorare il mondo per trovare un posto, ricercando autonomamente nella riflessività.
In questa disattesa del paradigma autoritario che rintracciamo nella pratica delle scuole libertarie nel progetto politico e filosofico della filosofia con i bambini, nelle esperienze della filosofia nel carcere, luogo impossibile, s’intravede ciò che la disattesa ha nella sua risonanza e nella sua visione pratica di ciò che s’intende quando si parla di mircropolitica delle relazioni, di dislocamento dei meccanismi di potere che non sono solo ad un livello istituzionale o istituzionalizzano, ma si giocano nel quotidiano, in ognuno di noi.
A questo va data attenzione. È Walter Khoan che sottolinea la centralità di origine deleuziana del pensiero dell’attenzione, dell’essere in attenzione. Cosa ci può permettere di realizzare un progetto politico e di relazioni che sia di reciprocità, cooperazione, trasformazione, e libertà? L’attenzione, non comune, quella che risale alla parola portoghese espreita, un’attenzione doppia. Forse può essere l’attenzione della filosofia. Un’attenzione che attende se stessa e che non ci lascia nella verità, nell’idea che siamo nella verità. Kohan continua dicendo che questo disattendere i poteri é qualcosa di importante e che il potere pedagogico e soprattutto una forma di potere dell’insegnare ha bisogno di essere decostruito. Rispetto a questo, ciò che è importante è non accettare più la forma del potere pedagogico che pensa che “si apprende da...” o “si insegna per...”, perché non sappiamo se si può insegnare, solo sappiamo che si può ascoltare e apprendere con. Si apprende quando si apprendono, non le cose certe, ma la verità come relazione e si insegna non quando si insegna per, ma quando si ascolta con”.
In relazione a questo si dovrebbe vedere la scuola non come un’educazione obbligatoria ma come spazio aperto che sappia valorizzare la curiosità e lo stupore attraverso una libera partecipazione. Garcia nella sua riflessione sottolinea l’importanza del porre domande, momento essenziale della Filosofia para ninos, in quanto il mondo che circonda bambini/e, ragazzi/e è una fonte inesauribile di esperienze e vita ed è importante che tentino di organizzare i loro pensieri e su questi decidono il da farsi. Oggi tuttavia, dice Garcia, assistiamo al processo contrario. Con il procedere degli anni scolastici i bambini perdono gran parte della loro freschezza originaria. Si rendono conto che molte domande sono inadeguate rispetto al processo di apprendimento che è visto unicamente come interiorizzazione di conoscenza di norme di adulti. Nella Filosofia para ninos dice Gracia vi è questa possibilità comunitaria in cui si fa esperienza di dialogo filosofico, come pari, in cui si partecipa ad una ricerca pubblica e condivisa.
A questo si collega la riflessione di Codello, all’importanza di riprendere l’idea di Goodman del concetto di educazione incidentale sottolineandone la natura liberatoria e contrapponendola alla pedagogia diretta, considerata autoritaria in quanto promotrice di principi morali e costumi precisi senza garantire spazio per la libertà di essere ciò che si è. L’incindentalità è la caratteristica, secondo Codello, di un’autentica educazione libertaria, intesa come possibilità di svegliare o risvegliare la sete di conoscenza vissuta come processo di continua sperimentazione e non come misurazione del raggiungimento di un obiettivo. Ciò che Codello ci invita a disattendere è l’attesa stessa, l’ansia da prestazione, la domanda di cosa si farà nella vita? Questo ci impedisce di vedere e di rispettare ciò che il bambino/a, il ragazzo/a è o vuole essere. Non possiamo accorgerci di chi abbiamo di fronte se ci avviciniamo e portiamo attenzione solo a che cosa può e deve essere.
L’idea delle pratiche in movimento ha a che fare con un’attenzione doppia che abbiamo dedicato in questi anni alla filosofia e alla sua idea pratica (che gioca bene con un paradosso). La pratica filosofica nelle sue esperienze di comunità e carcere e le scuole libertarie ci offrono uno sguardo che invita a scoprire la linea di fuga, della resistenza al potere.

L’esercizio del potere politico

E a questo proposito Ferraro ci racconta di un’esperienza di dialogo in carcere: “In uno dei primi incontri ci fu Michele che disse ma che cos’è la filosofia? Lo disse con quell’aria anche un po’ distratta della persona che sta molto tempo con la droga. Io gli dissi è l’arte della fuga. Non capii neanche io perche gli risposi così, mi venne spontaneamente. La guardia si allarmò. L’arte della fuga. La cosa curiosa è che Michele aveva tentato la fuga ed era rientrato una settimana prima, spontaneamente. Aveva operato la fuga e si era trovato poi solo. Risposi è l’arte della fuga, non so neanche io veramente perché gli risposi così, so solo che quando andai a casa, continuai a ripetermi questa frase e in effetti è una frase di Platone. Nel Teeteto si legge che la filosofia è l’arte della fuga, fuggire da qui per andare là, per andare in un altrove che è qui, non da un’altra parte. L’arte della fuga, curiosamente, è anche il titolo del canone di Bach ed è il canone che segna l’inizio della musica moderna. L’arte della fuga, per Bach, è una nota che segue un’altra nota che segue un’altra nota. inseguita a cosa da vita? Ad una melodia.”
Una melodia può dare vita se ci si incontra sul terreno della cooperazione e della partecipazione. Si può percepire il mondo nascosti dietro al cellophan di un prodotto ben confezionato oppure essere vita, contatto, epidermide, pensandoci in una prospettiva cangiante in cui le posizioni gerarchiche e i poteri individuali si sottraggono, dissolvendo leader, capitani, favorendo l’autonomia e coinvolga noi stessi e tutti. Forse in queste due giornate e in tutte le esperienze raccontate abbiamo provato a farlo, in una comunità inoperosa, che non produce ed esce dalle logiche del tempo e dello spazio e straripa, traccia una linea di fuga nella creatività. Questa tensione a disattendere posizioni rigide, di verità, di cornici di senso, di ruoli, per rilanciare il gioco della relazione con la verità (direbbe Foucault), in cui noi stessi cresciamo e ci costruiamo come persone, potrebbe sottrarci alla tentazione di “avere ragione”? e affidarsi così alla relazione vivente, non solo bios, ma zen, vivente.
Nel caso di molte situazioni, ancora, potremmo estendere l’osservazione che fa Foucault sulle parole del folle: “dal profondo del medioevo il folle è colui il cui discorso non può circolare come quello degli altri: capita che la sua parola sia considerata come nulla, senza effetto, non avendo verità e importanza.” Molti di noi oggi impersonificano questo folle che dice ma ch è afono, senza voce.
Dare voce. “Io sono l’estremo la parte più esposta la voce sono la danza. Dove si chiede un’ala per uscire dal fisso del tronco io nasco”. (2)
L’esercizio del potere è radicato, non si produce solo nell’ambito del politico (partitico, istituzionale ect), ma nei rapporti interpersonali quotidiani spesso non riconoscibili come “normali”. Provarlo a disattendere significa fare un’operazione di dislocamento, di resistenza ad un dato sistema, e a noi stessi, una presa di posizione per dare voce, appunto, alla libertà. Fuori le mura, come ci indica Ferraro, simboliche o reali che siano. Dunque non basta entrare e decostruire, ma ciò che si immagina è una trasformazione che avviene nella sperimentazione. In un ribaltamento del potere che non va più eretto e sostenuto, ma ripetutamente disatteso. Smontare il paradigma dell’educazione come oppressione e addomesticamento, come dispositivo di produzione di soggetti adatti al sistema, e disattendere l’idea stessa di ri-educato, re-cuperato, in-carcerato, in cui la punizione, il castigo, la sottomissione passano come strumenti educativi senza far emergere la natura autentica di queste coercizioni rivolte solo a costringere, rinchiudere, eliminare, adattare.
“Il sistema, dice Don Gallo nell’intervento che raccoglie e rilancia gli interventi della giornata e che chiude il nostro articolo, vuole distruggere le istanze collettive, vuole distruggere da sempre l’essere in sé, cioè la coscienza critica. Queste riflessioni, confronti, idee, pensieri hanno dato il tempo oggi di contaminarci. Questo è rilevante, questo ci insegna l’importanza della messa in gioco di differenti esperienze teoriche e pratiche in ambito sociale, educativo e istituzionale. Ormai la manipolazione mediatica è incessante tambureggiante, sistematica. Ve lo avranno spiegato, credo, drogano le nostre menti, lo abbiamo letto anche nel testo di Noam Chomsky. (3) Questa disposizione in cerchio ci richiama alla non distinzione di età, di sesso, di cultura, di maturità e allora crediamo che non sia possibile, per il singolo, la ricerca del suo essere uomo se non lotta con l’obiettivo prioritario del bene comune. Non vogliamo identificarci con questo sistema dominante. Certo vogliamo stare sulla terra, avere libertà di circolazione, cercare un adattamento per opposizione cioè una identificazione con le classi sfruttate, con le lotte di liberazione. Questo è il cammino e dico che siamo coscienti che solamente uomini liberi e donne libere possono essere liberatori”.

Silvia Bevilacqua, Pierpaolo Casarin

Note

  1. Galzigna, Mario (a cura di), Foucault, oggi, in: Il soggetto che non c’è di Pier Aldo Rovatti, p. 222, Feltrinelli, Milano 2008.
  2. Mariangela Gualtieri, Senza polvere senza peso, Foglia che parla, Milano, Einaudi 2006, p. 20.
  3. Si riferisce al testo di Noam Chomsky, Ecco come drogano le nostre menti, facilmente reperibile sul web.