Rivista Anarchica Online


attenzione sociale


a cura di Felice Accame

 

Ma perché
Darwin è arrivato
così tardi?

 

 

Premessa
Più o meno a metà del Novecento, il genetista russo Dmitri Belyaev, allevando volpi argentate, fece un esperimento. Selezionò le volpi dopo averle suddivise in tre classi: quelle che non si lasciavano accarezzare e che mordevano gli insistenti, quelle che si lasciano almeno toccare ma che, comunque, preferivano starsene per i fatti loro e quelle più docili, quelle che avvicinavano l’uomo con un certo grado di fiducia. Nel giro di poche generazioni – sei, solo sei –, “le volpi addomesticate non solo si comportavano come cani, ma avevano anche assunto il loro aspetto. Persero la sontuosa pelliccia e divennero bianche e nere come collie gallesi. Le tipiche orecchie a punta furono sostituite da orecchie pendule da cane. La coda, anziché floscia, si fece dritta come quella del cane. Le femmine avevano l’estro ogni sei mesi come le cagne, invece che una volta l’anno come le volpi” e non solo, a quanto riferisce Belyaev, avevano cominciato ad abbaiare. Ecco un caso di evoluzione sotto i nostri occhi. Racconti analoghi possono esser fatti sui pesci guppy – che cambiano forma e colore delle macchie sul dorso in rapporto ai sassi dei torrenti in cui vivono –, sulle lucertole di Pod Mrcaru – che in soli trentasette anni sono evolute verso un’alimentazione erbivora – o sui batteri – che, in laboratorio, sono stati sottoposti a processi evolutivi relativi a quarantacinquemila generazioni (alla media di sei o sette generazioni al giorno). Insomma, l’evoluzione non è soltanto questione di tempi lunghissimi di cui non potremmo mai essere testimoni, è anche questione di un quasi qui e ora e non può essere ignorata. Tuttavia.

1. Nella sua ricca e appassionata argomentazione in difesa dell’evoluzionismo espressa ne Il più grande spettacolo della terra (Mondadori, Milano 2011), il biologo Richard Dawkins – cui devo gli esempi precedenti – si pone una domanda che sulle prime potrebbe sembrare fin banale: ma perché Darwin è arrivato così tardi? Storia della scienza alla mano – capacità osservative umane, semplice buon senso – un Darwin, anche un Darwin qualsiasi, non un gigante della cultura come Charles, non poteva emergere molto prima del diciannovesimo secolo?
Rispondendosi, Dawkins accoglie in pieno la tesi che fu già del biologo Eduard Mayr che, fino al momento in cui suonarono i suoi cento anni – e la sua ora – mai si stancò di far notare la coerenza della teoria evoluzionista. Darwin è arrivato così tardi per colpa di Platone. A questi si dovrebbe, infatti, la teoria dell’“essenzialismo” – una teoria così perniciosa, invasiva e resistente da far sì che Darwin – sintetizza Dawkins – comparisse “sulla scena scientifica con un assurdo ritardo perché noi tutti, non si sa se a causa dell’influenza greca o per qualche altro motivo, abbiamo l’essenzialismo inciso a fuoco nel DNA mentale”.

2. Data la gravità e l’epidemicità del male, allora, sarà bene vederci più chiaro. Innanzitutto, ricostruendo il pensiero di Mayr così come lo esprime nella sua fondamentale Storia del pensiero biologico (Bollati Boringhieri, Torino 1990).
Platone, allora, secondo Mayr sarebbe stato un irrimediabile “studioso di geometria” – uno per il quale un triangolo, indipendentemente dalla configurazione degli angoli, ha sempre la forma di un triangolo. Per lui “il mutevole mondo dei fenomeni non era altro che il riflesso di un numero limitato di forme fisse e invarianti, eide (come Platone le chiamava) o essenze, come erano chiamate dai tomisti del Medioevo”. Da questo punto di vista “un autentico cambiamento (…) è possibile soltanto attraverso l’origine per salti di nuove essenze”. Ora, dal momento che – come sostiene quella “singolare mescolanza di matematico e mistico” che è Whitehead – l’intera tradizione filosofica europea in altro non consiste che “in una serie di note a Platone” – va da sé che questo essenzialismo, “con la sua insistenza sulla discontinuità, sulla costanza e sui valori tipici (‘tipologia’), dominò il modo di pensare del mondo occidentale in una misura che non è ancora pienamente valutata dagli storici delle idee”. Ci si aggiunga, poi, che la filosofia dell’essenzialismo “si adattava bene al modo di pensare dei fisici le cui ‘classi’ consistevano di entità identiche, fossero esse atomi di sodio, protoni o pi-mesoni”, e si capisce ancora meglio il perché del suo successo. Ancora Alfred Russel Wallace – che arrivò per vie indipendenti a conclusioni analoghe a quelle di Darwin –, d’altronde, subì talmente il peso di questa tradizione da intitolare il suo articolo fondamentale Tendenza della varietà ad allontanarsi indefinitamente dal tipo originale.
L’essenzialismo fu dunque “la più insidiosa di tutte le filosofie” e “la storia naturale, fino al tempo di Darwin, continuò a essere dominata” da una metafisica della cui responsabilità non può essere sollevato neppure Aristotele che, almeno su questo versante, non modificò di granché il pensiero di Platone – tanto è vero che, nel De generatione animalium, afferma che “l’uomo e i generi degli animali e delle piante sono eterni” e che, conseguentemente, né potrebbero scomparire né essere stati creati.
Darwin fu uno dei primi pensatori a rifiutare (“almeno in parte”) l’essenzialismo, ma – a parere di Mayr – non venne per nulla compreso dai filosofi a lui contemporanei (“che erano tutti essenzialisti”), e il suo concetto di evoluzione per selezione naturale fu pertanto ritenuto inaccettabile. L’evoluzione, come venne spiegata da Darwin, peraltro, è “necessariamente graduale” e, pertanto, “incompatibile con l’essenzialismo”.
A dire il vero qualche argomento “promettente” per lo sviluppo di un pensiero evoluzionistico nella produzione filosofica che precedette Platone lo si poteva trovare – si pensi ad Empedocle, ad Anassimene, a Senofane, ad Anassagora e a Democrito ed alla riflessione sull’infinità del tempo, sulla generazione spontanea, sui cambiamenti del clima o sul processo ontogenetico dell’individuo –, ma già con Parmenide e, soprattutto, con Pitagora e, infine, con Platone tutto venne sacrificato alla ragion geometrica ed all’essenzialismo che ne scaturisce.

3. A occhio, allora, se teniamo nella giusta considerazione il peso della Chiesa Cattolica ed il dogma antievoluzionista che ne ha caratterizzato la dottrina – la seleziona naturale darwiniana, in pratica, spiega l’adattamento senza far ricorso a nessuna forza misteriosamente preordinata verso un fine –, potremmo chiuderla lì. Perché Darwin è arrivato così in ritardo sembrerebbe chiaro. Inutile dire che, con la religione islamica al potere, di evoluzionismo non si sentirebbe parlare un granché.

Charles Robert Darwin (1809-1882)

4. Ma a me i conti non tornano. Mi chiedo da dove salti fuori questo principio essenzialista e a che serva, che funzione svolga nell’apparato argomentativo di Platone. Faccio alla svelta a scoprire, allora, che questo principio nasce per coprire una contraddizione. Famoso è il cosiddetto “mito della caverna” con cui Platone cerca di esplicitare la sua teoria della conoscenza.
Si sta parlando della natura umana e della sua educazione (o della mancanza della sua educazione) e Platone ricorre ad un paragone: immagina uomini incatenati fin da bambini – immobili, impossibilitati fin a guardare a destra o a sinistra – in una caverna sotterranea, immagina un fuoco alle loro spalle e altri uomini che, salendo un viottolo, trasportino roba. Di questa roba i prigionieri non vedrebbero che le ombre proiettate sulle pareti. Va da sé, allora, che per costoro ciò che vedono sia reale e va anche da sé che, nel caso qualcuno dei portatori dicesse qualcosa, i prigionieri attribuirebbero le parole all’ombra che passa. Così allora stanno le cose per l’umanità intera? Niente affatto, perché il racconto – coerentemente a quanto si propone di dimostrare – comprende almeno altri tre capitoli. Nel primo, Platone prende in considerazione il caso in cui un prigioniero venisse liberato e potesse volgere il capo, quindi, verso la luce: per l’abbaglio sarebbe incapace di distinguere ciò di cui prima vedeva le ombre e se qualcuno gli spiegasse come stanno le cose non gli crederebbe; riterrebbe le cose viste prima più vere di quelle che gli vengono mostrate adesso. Nel secondo, Platone prende in considerazione anche il caso che il prigioniero liberato venisse trascinato a viva forza verso l’uscita della caverna. Va da sé che, una volta alla luce del sole, avrebbe serie difficoltà a vedere gli oggetti che stanno là fuori e avrebbe bisogno di qualche tempo per abituarsi alla nuova situazione. Occhio e croce, il suo processo percettivo attraverserebbe tre fasi: prima vedrebbe delle ombre, poi le immagini riflesse nell’acqua e, infine, le cose reali. Fra queste cose reali, l’ultima cui pervenire sarebbe proprio quella del sole – finalmente visto così come è e nel posto in cui è.
Nel terzo, Platone prende in considerazione l’eventualità di un atto di filantropia del prigioniero. Compassionevole nei confronti dei suoi ex compagni di prigionia, torna nella caverna. Va da sé che, innanzitutto, incontrerebbe nuove difficoltà a riabituarsi al buio; poi, va da sé che i compagni lo deriderebbero dicendo che, dopo tanta avventura, torna a casa con gli occhi rovinati, che si guarderebbero bene dal dargli retta e che, potessero, se lo strangolerebbero con le proprie mani.
Il mondo così come ci appare alla vista è la caverna, il fuoco è il sole, l’ascesa e la lenta acquisizione delle realtà superiori è l’ascesa dell’anima verso la conoscenza. Non ci vuole Sherlock Holmes per capire che il fortunato protagonista della transizione – dalla tenebra alla luce, l’ascesa verso l’essere – è il filosofo, che, nell’imbattersi con l’incredulità e l’astio di tutti noi, capisce di aver intrapreso quello che, biografia di Platone alla mano, per molti sarà un “mestiere pericoloso”.
Il problema di sapere il perché e il percome le cose cui giunge sono davvero reali, tuttavia, è ancora lì, esattamente come prima. Diciamo, allora, che la teoria espressa ne La repubblica ne presuppone un’altra, quella espressa nel Menone e ribadita nel Fedone e nel Fedro.
“Dal momento che l’anima è immortale e nasce più volte, ed ha contemplato tutte le cose, sia qui sia nell’Ade”, dice nel Menone, “non c’è niente che non abbia imparato”. L’anima ha visto e conosciuto tutta la realtà nella sua globalità – la realtà dell’aldiqua e quella dell’aldilà –, nessuna meraviglia se quest’anima, dunque, sarà anche capace di ricordarselo tutto il ben di Dio imparato. Anzi, ricordata una cosa, le altre possono seguire come le ciliegie. L’apprendimento è reminiscenza, sapere – come dice nel Fedone – è ricordare. Il Socrate di Platone, poi, non lesina la dimostrazione spettacolare della tesi: chiede a Menone di chiamare uno dei suoi servitori e comincia un interrogatorio in cui, a partire da un’area quadrangolare fa scoprire tutta una serie di verità matematiche, che, invece di considerare come conseguenze delle premesse, categorizza come risultati sulla “strada della reminiscenza” sagacemente ottenuti.
L’essenzialismo di Platone, allora – questo a Mayr sfugge, e sfugge anche a Dawkins –, è un derivato indispensabile della sua insostenibile teoria della conoscenza – il farsi la copia esatta di un tutto già fatto – o, per dirla in altri termini, di quel suo “realismo” che ha informato di sé gli apparati metodologici delle scienze nei secoli a venire senza che neppure oggi – dopo Darwin, anche dopo Darwin – perda qualcosa del suo potere condizionante.

5. Se così stanno le cose, mi dico, l’ostacolo non è stato solo Platone. La teoria della conoscenza è la base di ogni filosofia e nessuna filosofia, come a suo modo diceva Whitehead, ha potuto esentarsi dall’impostazione platonica del problema. Darwin non è arrivato tardi solo a causa di Platone, ma a causa della filosofia in quanto tale e i problemucci che ancora si porta dietro – per esempio, nel momento in cui, parlando di “evoluzione”, sembrerebbe assegnare uno scopo al processo – sono ancora i residui della mancata consapevolezza relativa all’uso delle categorie mentali.

6. Fermo restando – sempre – il fatto che alla domanda – come mai Darwin è arrivato così tardi ? – si potrebbe anche rispondere – con presumibile legittimità – anche in tutt’altro modo. Oh, bella, ma sarà poi vero che Darwin è arrivato tardi? Non sarà che, più banalmente, Darwin – un Darwin, almeno uno – è arrivato da tempo immemorabile e, come di tanto d’altro, ne sono state abilmente cancellate le tracce?
In fin dei conti, con la teoria eliocentrica – quella di Aristarco di Samo ben prima che di Copernico – ci siamo andati vicino: entro certi limiti era disponibile fin da circa trecento anni prima della nascita di Cristo, ma ci sono voluti quasi milleottocento anni per averne una versione – quella di Copernico – ratificabile dalla comunità dei colti. Alla luce di questa esperienza – e delle tante altre decentemente documentabili, come quelle ricostruite da Lucio Russo ne La rivoluzione dimenticata (Feltrinelli, Milano 1996) – potremmo interrogarci su quanti Darwin sono stati fatti sparire.

Felice Accame