Rivista Anarchica Online


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Medio Oriente/Caro Codello, ma i problemi sono altri

L’articolo di Codello Al di là dell’apparenza, sullo scorso numero, è senz’altro interessante, anche se, soprattutto per quanto riguarda Arrigoni, non è molto chiaro fino in fondo su ciò che vuol sostenere. Prima di tutto credo che abbia poca importanza se Arrigoni sia stato o no un vero un pacifista. Oltre al fatto che non sta a noi giudicare, quella di pacifista è da sempre una patente che viene distribuita con un pressapochismo sconcertante, spesso frutto di ignoranza. Ritengo perciò che non sia giusto né che ne valga la pena, soprattutto in riferimento a chi ha pagato con la vita, mettere in discussione la qualifica di ciò per cui è ricordato. Anche perché riguardo alla questione palestinese mi sembra che i problemi veri siano di ben altra fatta. Lì, più che uno scontro tra palestinesi ed ebrei, a tutti gli effetti c’è, ingombrante e pregnante, la presenza di uno stato, quello israeliano, formalmente nelle procedure democratico, ma molto molto autoritario, con punte di sciovinismo xenofobia e teocrazia a tratti spaventose. In contrapposizione dall’altra parte, mi riferisco ad Hamas in particolare, c’è una tensione per la formazione di uno stato a propensione molto autoritaria, con grossi pericoli di punte avanzate di teocrazia fondamentalista. Se riuscirà ad instaurarsi rischierà di far invidia allo stato di Israele. Si può affrontare quel problema da un punto di vista libertario soltanto staccandosi da queste due opzioni contrapposte, perché evidenziano uno scontro tra due autoritarismi nefandi. Bisogna avere l’accortezza e la forza d’animo di non schierarsi, né di qua né di là, dal momento che si tratta di una guerra per il trionfo di un’autorità, non certo per raggiungere una condizione sociale di libertà. Tutto ciò non emerge come secondo me dovrebbe dall’articolo. Lo si può solo intuire se già si conosce il discorso.
Per quanto riguarda Asor Rosa invece Codello è stato troppo buono. Personalmente sarei stato in modo esplicito molto più antibolscevico. E non m’interessa se avrei fatto irritare i neofiti mascherati di un bolscevismo aggiornato, che non hanno neppure il coraggio di dichiarare onestamente che vorrebbero di nuovo la dittatura, mentre per opportunismo, se non costretti dalla polemica, si limitano a riproporre lo stereotipo che vogliono contrastare la dittatura borghese. Ritengo infatti che i convinti neobolscevichi siano i peggiori di tutti, perché propagandano di lottare per la libertà mentre agognano di instaurare una dittatura. Seppur di classe, anzi (pardon!) di partito (unico naturalmente), non potrà che essere sempre dittatura, feroce e antiproletaria, come la storia del bolscevismo vissuto e trascorso ha ampiamente dimostrato.

Andrea Papi

 

Nessuno perde quando vincono le donne

Che cosa succede oggi nella politica italiana? Che la realtà supera, come è naturale, la fantasia.
Un uomo, S.B., per tentare di riempire il vuoto lasciato dalla fine del patriarcato, vuoto che si apre allo sguardo accorto di chi si orienta al Bene come matrice portentosa del nuovo, ha messo in scena un regime pornocratico, accendendo in milioni di uomini e donne un coinvolgimento viscerale, nutrito sì da narcisismi e frustrazioni e radicato certo nelle paure più profonde, ma che, nella sua potenza di sintomo, svela il desiderio oscuro del potere.
Che senso ha la vicenda di questo anziano signore, che, prima di tutto – e non bisogna mai dimenticarlo – soffre di delirio d’onnipotenza? Invece di godersi il tramonto della sua vita giocando con i suoi nipotini, sereno come un bravo nonno, si concia come un guitto d’avanspettacolo, esibendo la sua impotenza nella tavernetta della villa in Brianza, quasi una sublime macchietta della disperazione dopo la morte dell’adorata mamma. E non faccio ironia: la madre era per lui ragione di vita. S.B. da allora è in un lutto senza pianto: è l’uomo più solo in Italia.
Molta gente, in Italia e fuori, si fa domande che non danno risposte: sembra che non si possa capire quello che succede. Si indignano: come è possibile? Come è possibile che questo soggetto faccia quello che fa, abbia questo potere trasformando le persone in fanatici e fanatiche? Nonostante la sua volgarità arrogante eccetera eccetera.
S. B. dà corpo a un’idea di società in cui la lingua è il denaro: come il denaro è fatto per la falsificazione, così falsificando la lingua si cerca un controllo del reale, facendo di sé un inutile feticcio del sesso maschile. S.B. dovrebbe essere aiutato dal S.I.M.A.P. di competenza, essendo in evidente stato confusionale: i suoi comportamenti e le sue parole sono sempre in un rapporto di contraddizione.
Chi non trova risposte, alle domande che il caso S.B. ci pone, vuol dire che sta sbagliando strada: le categorie del pensiero politico che sembravano dar forma al mondo e spiegarlo sono (da sempre, dico io) solo chiavi che aprivano porte di città fantasma. È necessario uno sguardo nuovo, in cui tutta la realtà sia accolta, anche la densa sostanza dell’immaginario che nutre il profondo dell’umano, fino a farne parola.
Se si guarda alla «verità effettuale» senza pregiudizio, ecco che ben altro si scorge nei fatti: S.B. è finito politicamente e il merito della vittoria va alle donne, a partire da quando Veronica Lario ha parlato. La vittoria è in primo luogo dell’ordine simbolico: le parole delle donne, tutte quante, danno luogo a un discorso politico in cui si rivela che il re è nudo, alla lettera. Questo discorso può essere riassunto in poche frasi: S.B. è un uomo che « non sta bene», «è un uomo solo», «un vecchio» col «culo flaccido».
Non è vera la diceria del silenzio delle donne sulla storia di S.B.; al contrario, il regime pornocratico crolla proprio nelle parole delle donne che gli sono più vicine: una moglie che lo amava ha rotto il segreto perché gli vuole bene e le «bimbe» del bunga bunga incestuoso spargono la verità ai quattro venti, crocerossine che toccano con mano il male di S.B., la paura che attanaglia l’uomo-che-ride. La paura più nera, non quella di morire, quella di vivere.
La sconfitta politica del berlusconismo segna la fine del fascismo in Italia, anzi, del fasciocomunismo, di cui la Lega è l’espressione pasoliniana. C’è tutto un fiorire di analisi diagnosi esorcismi dai pulpiti della cultura intellettuale della cosiddetta sinistra sul senso della Cosa-berlusconi: ma non basta la buona volontà, le dialettiche più accreditate dall’accademia del sapere critico non sfiorano neppure il nocciolo della questione storica, finché questo sapere manca di sale, finché si pensa come pensiero neutro, nel limbo dell’indifferenza sessuale.
Quella della sinistra è una politica che non muove, speculare, più che in difesa: al priapismo rispondono con le flagellazioni.
Invece la politica delle donne ha come pratica l’Eros, è in fondo una Erotica: da qui la sua efficacia nel fare luce, semplice sottile lucida. È la politica che le donne agiscono come una lingua comune, dove avviene quello scambio vitale fra conscio e inconscio, tra visibile e invisibile, tra materia e spirito la cui logica è l’imprevedibile, il carnevale.
Il berlusconismo è spento perché in Italia il femminismo ha fruttato una coscienza che apre un orizzonte di senso nuovo: è propriamente un novum storico perché ormai non c’è più separazione tra privato e pubblico, tra personale e politico, tra la casa e il palazzo.
Attraverso la vicenda di S.B. ormai in Italia le donne hanno preso la scena e le loro parole fanno ordine di realtà per chi le ascolta come discorso di libertà. Niente sarà più come prima. L’Italia è in questo momento il luogo di una rivoluzione epocale di portata mondiale: qui si rivela il potere dell’ordine simbolico della madre, potere che da sempre agisce e che col femminismo irrompe, sconfina e si dichiara nell’agorà.
Secondo questo ordine la relazione fra amore e sesso è il cuore della politica.
S.B. è già passato: la scena del potere istituzionale è in affanno, in ritardo, ha perso il volo. Le donne hanno vinto, mentre i “capi” dei partiti si sono rivelati incapaci di vincere: per farlo avrebbero dovuto capire S.B., cioè, in parole povere, capire che cosa vuol dire essere uomini e che cosa vuol dire essere donne. Ragionare sul proprio essere: ma sono in grado di farlo, persi in quello spettrale reality che li aliena dal popolo? Perché ormai è chiaro che S.B. è il sintomo la cui potenza svela l’impotenza dei rapporti di forza su cui si regge la legge che tenta di ridurre i soggetti umani a cose. E il capolavoro di S.B. è stato l’avere incarnato, svelandola, la ragione necessaria di questa suprema impotenza: la paura del potere femminile, potere di amore, libertà assoluta non contro la legge ma oltre la legge. Così ha captato e sedotto un immaginario maschile confuso dalla fine del patriarcato, in cui il corpo delle donne è l’Oggetto senza soggetto, feticcio di una fissazione maniacale. Lo spettacolo allestito dall’impresario mostra l’osceno dell’omosocialità maschile: l’invidia del godimento femminile. Basta pensare alla scena madre della tavernetta: decine di donne giovanissime, belle e nude a disposizione. È qui, nel segreto della casa, che il Capo celebra l’esercizio del potere. E questo non avviene in un qualche sultanato, ma nella città italiana più “europea”. In questo modo S.B. ha tentato invano di dare una forma al vuoto che il tramonto del Nome-del- Padre apre, orizzonte fertile di incredibili creazioni – bibliche – del grande Millennio che avanza. Ma S.B. fallisce, non può che fallire, dato che la mutazione ha fatto storia, è irreversibile.
Gli uomini dei partiti (e le donne che li tengono su, altra onlus che ne fa dei deboli feroci), cercano invano di riprendere il microfono, attribuendo la sconfitta di S.B. ad altra causa, inventandosi scuse per non riconoscere l’evento del discorso delle donne: non perché vedono, ma proprio perché sono nella cecità politica. Le loro parole suonano come un balbettio che frana in una afasia senza un vero silenzio in cui la verità li possa toccare.
Ogni rappresentazione della forza (lo Stato moderno, misera maschera di mercenario fanfarone) è ormai inefficace, dato che è venuto meno il potere della rappresentazione. È la fine del regime della rappresentanza: politici sono i soggetti in carne e ossa, uomini e donne. Il corpo è la ragione politica perché non è mai neutro: sono già tanti gli uomini che scoprono la bellezza di avventurarsi nelle libere relazioni che l’amore apre sciogliendo i rapporti di forza. E sempre più saranno a mettersi in gioco, in quel gioco divino dell’essere dove si vince sempre la propria grandezza umana.
Ho parlato di un discorso intrecciato dalle donne, tutte quante: ma è chiaro che le parole di questo discorso sono molto diverse tra loro, che c’è conflitto politico. Anzi, è proprio questo il campo del conflitto politico più vivo, in cui si fa piazza pulita della retorica del genere, falso mito che tenta di mettere a tacere la potenza della differenza sessuale. Le donne non sono un genere, un’astrazione in cui si mortifica la ricchezza della singolarità di ciascuna. Le donne sono il sesso la cui scienza del mondo avviene in grazia di tale esperienza di comune singolarità. Merito storico del femminismo è stato quello di fare luce proprio sul conflitto simbolico che da sempre agisce non solo fra uomini e donne, ma anche tra uomini e uomini, ma anche tra donne e donne.
Se finalmente si coglie la verità profonda della relazione fra amore e sesso come nucleo fondante della civiltà, la storia si lascia leggere in una nuova visione: le contraddizioni non vengono rimosse, ma possono essere decifrate per schiudere un inaspettato orizzonte di senso.
Che cosa significa, allora, la fascinazione che S.B. ha esercitato su tante donne? È chiaro che le categorie politiche dell’economicismo (destra/centro/sinistra) non sono solo inutili, ma proprio fuorvianti. Ma ancor più quelle moralistiche che oppongono “brave ragazze” e “cattive ragazze”, ormai inaccettabili anche per le donne che sono contro S.B.: l’ordine simbolico della madre insegna che le donne non possono conoscere se stesse che attraverso il riconoscimento dell’”altra”, in ragione del nudo e crudo essere donne. Solo questo orientamento ci permette di capire un punto essenziale: S.B., con la sua messa in scena, coglie un desiderio politico vitale che non può mai essere pervertito del tutto, nonostante la grottesca simulazione della potenza di Eros. Da qui l’ appeal che ha portato tante donne a dargli credito.
Nella ecolalia della politica del cosiddetto centrosinistra, invece, risuona la narrazione della crisi, con la sua economia del sacrificio: una strategia depressiva, in cui la felicità è interdetta in nome della sua caricatura, la burocrazia dei diritti. In questo modo si cerca di azzerare l’Eros politico, che si accende nelle libere relazioni di differenza di donne e uomini, le cui storie concrete fanno la Storia.
Il desiderio politico delle donne di “destra” non ci interroga solo, ci dà anche preziose tracce: una donna di spettacolo ha scritto un libro di poesie per S.B., per l’uomo che trasforma «la realtà in sogno». Parole illuminanti in cui la verità, anche mezza ubriaca, si fa strada.
Il discorso storico del desiderio femminile, infatti, dà vita a una politica in cui la realtà e il sogno sono fatti l’uno per l’altra.
Io guardo il tuo mondo in faccia, Dio, e non sfuggo alla realtà per rifugiarmi nei sogni – voglio dire che anche accanto alla realtà più atroce c’è posto per i bei sogni –, e continuo a lodare la tua creazione, malgrado tutto!: Etty Hillesum, 18 maggio 1942.

Mara Paltrinieri
mystic.mara@tiscalit.it

 

Sulle cooperative americane

Appena ricevuto il numero di Maggio della rivista mi sono subito soffermato sull’ottimo lavoro, devo dire, di Enrico Masetti a cui vanno e vivamente i miei complimenti. Sono anni che cerco di diffondere tali modelli imprenditoriali che definisco allo stesso momento liberali e libertari senza dimenticare che hanno alla base una rappresentanza democratica e una trasparenza amministrativa che rende queste cooperative o fondazioni ad azionariato diffuso delle vere “aziende famiglia libere”. Il dossier di Masetti è ricco, vi sono blog, siti e video da guardare oltre che gli innumerevoli esempi di cooperative citati. Il modello di gestione finanziaria descritta da Masetti è definito negli Usa “mutualismo” e proprio da questo continente grazie a formulazioni teoriche che hanno influenzato e parecchio anche la sinistra libertaria ( e i left-libertarian) si è diffuso una forma nuova di neo-mutualismo, che tra i principali teorici trova Kevin Carson. Il neo-mutualismo ritiene che il capitalismo come comunemente inteso sarebbe impossibile senza stato, pertanto il libero scambio non comporterebbe rischio di sfruttamento, una volta eliminati le infiltrazioni statali nell’economia e le procedure autoritarie che questo comporta. Questo dossier suggerisco di distribuirlo anche nelle manifestazioni dei lavoratori qui in Italia magari aggiungendo una piccola parte schematica ove inserire come costruire e a quali fonti giuridiche affidarsi per creare una cooperativa libertaria e mutualista. Che ne pensate?

Ancora complimenti,

Domenico Letizia
(Maddaloni – CE)

 

Vegan 1/Pensare non solo alla specie umana

Vorremmo tentare di rispondere alle domande che Roberto Panzeri (Vegani o vegetariani, in “A” 362, maggio 2011, pag. 105) pone in merito al dossier vegan alla cui realizzazione abbiamo partecipato. Premettiamo, naturalmente, che lo facciamo solo a titolo personale. Chiedere “cosa ne pensano i vegani?”, infatti, è un po’ come chiedere “cosa ne pensano gli anarchici?”.
Ed è interessante partire da questo punto perché troppo spesso si confonde il veganismo con una religione con dei precetti da seguire. E questo, probabilmente, succede proprio perché diverse religioni impongono il divieto di mangiare carne.
Il veganismo etico, invece, è la pratica e la politica che consentono di applicare nella vita quotidiana la filosofia antispecista. Che è un po’ come dire che la tolleranza ed il rispetto per il diverso sono le pratiche che consentono di applicare l’antirazzismo, l’antifascismo, l’antisessismo... Questo punto è molto importante perché consente di comprendere che un vegan etico (un antispecista) non è alla ricerca della purezza personale che potrebbe essergli fornita dal non uccidere animali. Ciò che si ricerca, invece, è lo scardinamento e lo smascheramento dell’ideologia del dominio che consente di trattare le persone (umane e non umane) come delle merci di cui disporre liberamente, come delle entità da controllare e sfruttare finchè rendono. Ciò che si chiede, soprattutto alle persone che già condividono l’antifascismo, l’ antirazzismo... è di estendere queste pratiche, di non riservarle esclusivamente alla specie umana, proprio come un tempo si chiedeva di non riservare i diritti civili esclusivamente alla razza bianca.
La prima domanda riguarda la protezione dei vegetali coltivati che potrebbero essere mangiati o distrutti da altri animali. Personalmente coltiviamo e raccogliamo una buona parte del cibo che ci serve e abbiamo scoperto che le tecniche di allontanamento e di scoraggiamento non solo sono efficaci, ma consentono di evitare l’avvelenamento del cibo che mangiamo. Il nostro campo di patate, tanto per fare un esempio, è stato più volte saccheggiato dall’istrice che scavava mirabili tunnel sotto la recinzione per portar via i preziosi tuberi per sé e la sua famiglia. Invece di buttare cemento o di interrare reti ancor più robuste o di piazzare ciniche trappole abbiamo pensato che bastava piantare un po’ più di patate, così, oggi, ce n’è per noi e per l’istrice. Se consideriamo che il frutto delle coltivazioni non è di nostra esclusiva proprietà, l’atteggiamento cambia radicalmente e molti animali non sono più concorrenti, ma compagni con i quali occorre venire a patti. È comunque necessario considerare che l’agricoltura (anche se biologica) non si preoccupa minimamente degli animali non umani, tutti quelli che non riconoscono il concetto di proprietà relativo al campo coltivato. Ed è proprio per questo che in ambito vegan si sta cominciando a praticare l’agricoltura pacifica: un metodo di coltivazione, già attivo in Inghilterra e Usa, che non prevede l’utilizzo di concimi animali e l’uccisione delle persone non umane che minacciano le coltivazioni. Chiedere come fanno i vegan che non coltivano il proprio campo, chiedere come fanno in attesa che l’agricoltura pacifica si estenda a livello di massa, è un po’ come chiedere ad un anarchico come si regola quando la polizia (di cui non riconosce l’autorità) lo ferma ad un posto di blocco. Come già accennato non si tratta di cercare la purezza o la perfezione, ma di fare tutto ciò che è possibile per evitare lo sfruttamento, la prigionia e la morte di esseri senzienti.
La seconda domanda riguarda le api e la malattia che, a quanto sostiene Roberto Panzeri, ha determinato l’estinzione di tutte le api selvatiche o non curate. Ci sentiamo di smentire decisamente questa affermazione visto che circa un mese fa i meli selvatici vicino a casa nostra erano pieni di questi insetti. Si trattava delle Osmie: api selvatiche importantissime per l’impollinazione. Ma non solo, le migliaia di persone che hanno partecipato al Vegan Fest Expo di Camaiore hanno potuto vedere dei trespoli fatti con cannette abitati da questi insetti (e non si trovavano certo in quel luogo per essere sfruttate e derubate del loro miele). Certo che non possiamo rischiare l’estinzione della specie apis. E anche se stesse per accadere riteniamo che il comportamento più intelligente sarebbe quello di favorirle ed aiutarle, non certo quello di allevarle con lo scopo di prelevare il loro miele che è una sostanza fondamentale per la loro salute e la lo proliferazione.
La terza domanda riguarda il concetto di essere senziente. Roberto Panzeri sostiene che anche una carota e un pezzo di legno sono esseri senzienti. Un essere senziente, secondo noi, è un essere in grado di provare dolore e piacere fisico e psichico. Ciò che noi conosciamo e definiamo come dolore e piacere viene percepito e trasmesso per mezzo di un sistema nervoso. I vegetali, non possedendo questo sistema, secondo quanto ne sappiamo, non percepiscono il dolore e il piacere. Ma non è neanche questo il punto essenziale. Molti, infatti, sostengono (a livello intuitivo o attraverso personali osservazioni o credenze) che anche i vegetali siano esseri senzienti. Occorre considerare che, anche se tutto ciò fosse vero, sarebbe un motivo in più per sostenere un’alimentazione priva di prodotti animali. Chi si nutre di animali, infatti, è responsabile della morte di un numero di vegetali enormemente superiore rispetto ad un vegan. Gli animali di cui si nutrono gli umani, infatti, non sono liberi ma vengono allevati e nutriti con vegetali appositamente coltivati. Si tratta di uno spreco immenso: un campo di cereali che potrebbe sfamare cento persone viene utilizzato per nutrire animali imprigionati che poi saranno uccisi per nutrire dieci persone. Ne consegue che per sfamare cento persone occorrerà sacrificare dieci campi di vegetali. Senza contare il devastante impatto ambientale, lo spreco di acqua e l’emissione di gas serra. Ma la motivazione che spinge il vegan etico a scegliere i prodotti di origine vegetale rispetto a quelli di origine animale è ancor più semplice e immediata: cereali, frutta,verdura, legumi, semi oleosi sono indispensabili alla sopravvivenza umana, mentre carne, uova, latticini miele, pelle...non lo sono affatto e, oltretutto, il loro consumo costituisce, in termini globali, un comportamento arrogante e violento anche volendo restare in stretto ambito umano. Bisogna infatti considerare che gli animali sfruttati e uccisi per nutrire il ricco occidente vengono spesso alimentati (molte volte forzatamente) con cereali cresciuti nel sud del mondo.
Roberto prosegue la sua lettera invitando gli estensori del dossier vegano ad approfondire la conoscenza del mondo vegetariano. A questo proposito ci preme far notare che solo negli ultimi anni, le nuove generazioni, grazie alla facilità di reperire informazioni approfondite, passano direttamente al vegan senza, prima, scegliere il vegetarismo. È ben raro quindi che un vegan non sia stato, in passato, vegetariano e che, di conseguenza, non conosca molto bene e in prima persona quel mondo.
La caratteristica fondamentale del vegetarismo è determinata dal desiderio di non essere responsabile della morte di altri animali. Ma questo, di fatto, non avviene perché l’allevamento di animali per la produzione del latte e delle uova ne determina comunque l’uccisione quando la loro produzione comincia a calare. Inoltre tutti i nuovi nati maschi vengono uccisi perché non rendono e, si sa, la merce che non rende non può continuare a vivere perché diventa un costo.
Ma anche questo non è il punto essenziale. Il vegetarismo, infatti, accettando e finanziando l’allevamento accetta e finanzia l’ideologia del dominio, non mette minimamente in crisi il paradigma della piramide gerarchica che regge lo spettacolo che ci governa. La differenza è enorme. Gran parte del movimento di liberazione animale ha oramai da tempo effettuato questo salto di qualità individuando nell’ antispecismo la chiave di volta. L’antispecismo, infatti, non è una dieta, non è una scelta personale, e non è neanche uno stile di vita ma una lotta politica e sociale per ottenere la liberazione del mondo umano e animale da tutte le forme di oppressione.

Troglodita Tribe
(Serrapetrona – Mc)

 

Vegan 2/Servono anche risposte concrete

Cerco di rispondere seguendo passo passo la lettera di Troglodita Tribe

  1. Nella mia lettera scrivevo che “in tutti i movimenti ci sono diverse anime”. Sono convinto che il movimento vegano non faccia eccezione. È quindi evidente che il chiedere “cosa ne pensano i vegani” sia da intendere “cosa ne pensa chi ha scritto il dossier”.
  2. Le tecniche di allontanamento e scoraggiamento sono valide solo in alcuni casi o valide in parte.
    Ad esempio: quando i caprioli hanno mangiato le verdure dell’orto mi sono limitato a mettere una rete di recinzione, per limitare le limacce taglio spesso l’erba intorno all’orto e metto la pacciamatura il più tardi possibile, ma questo non basta a contenerle.
    In molti casi il problema resta e quindi occorre dare di volta in volta risposte concrete oltre che di principio.
  3. Per le api. Anche qui mi sembrava evidente che parlavo dell’apis mellifera. So che altri generi di apis convivono con la varroa. Ciò detto: nell’articolo si dice che andrebbero favorite e curate. Come?
  4. Nella mia lettera parlavo di alberi e non di pezzi di legno.
    A parte questa doverosa precisazione, ritengo che sia tutto da dimostrare che i vegetali non provino piacere e dolore.
    Io credo che ogni essere vivente ed inanimato merita il dovuto rispetto e la dovuta attenzione anche se non sempre è possibile dar seguito a questi principi.
    Ad esempio: fino a qualche anno fa riuscivo a procurarmi la legna per l’inverno tagliando alberi già morti. Ora non mi è più possibile ma preferisco tagliare alberi invece che usare metano od altri combustibili fossili.
  5. Vorrei far notare che le motivazioni addotte nell’articolo di Troglodita Tribe circa l’enorme risparmio di vegetali che una scelta vegan etico comporta, sono le stesse che hanno spinto, 30-40 anni fa, alcuni della mia generazione (e qui si svela la mia veneranda età) a coltivare ed allevare “in modo bio” e a non mangiar carne.
  6. Mi sono permesso di invitare gli estensori del dossier vegano ad approfondire la conoscenza del mondo vegetariano perché nel dossier stesso si scriveva: “Il vegetarianesimo è una dieta mentre il veganesimo è uno stile di vita”. Volevo sottolineare che non tutti sono vegetariani solo per motivi dietetici. Alcuni, ed io tra questi, non mangiano carne perché hanno elaborato una propria visione del mondo, dei rapporti con gli altri uomini, gli animali e le piante, cercando e praticando strade “diverse”. Insomma un proprio stile di vita.
Spero di aver meglio chiarito il mio pensiero e i miei dubbi, anche se i tempi ristretti per la risposta e i miei pressanti lavori stagionali (api, orto e piante) non mi hanno lasciato abbastanza tempo per riflettere.

Roberto Panzeri
(Valgreghentino – LC)

 

Vegan 3/Animalista e razzista?

Ho letto con molto interesse l’articolo di Luca Carli e Adriano Fragaro,”Antispecisti di destra?” (“A” 360, marzo 2011), perché anche a me è capitato molte volte di discutere di antispecismo, animalismo e politica. Specialmente in discorsi che tiravano in ballo un famigerato gruppo di “animalisti dal nome percentuale”, noti per gli slogan e gli atteggiamenti tutt’altro che nonviolenti, e fondato da un personaggio politico di estrema destra che, sembrerebbe utilizzi questa organizzazione per acquisire consensi. Molti degli appartenenti non sanno, non ci credono, lo negano o lo ritengono poco importante. L’argomento che sento utilizzare spesso è che non sia importante la filosofia o l’orientamento politico sul quale essi poggiano, ma le azioni che compiono. Se in parte si può condividere (un animale salvato è sempre una buona cosa), ci sono, al contrario, dei buoni motivi per diffidare di questo strano sincretismo fra estrema destra ed animalismo. Sincretismo che diventa contraddizione se al posto di animalismo mettiamo antispecismo.
La lettura di quell’articolo mi ha fatto pensare a due cose. La prima è sul significato di antispecismo. Sono arrivato all’ipotesi che l’antispecismo, non solo non possa essere di destra, ma nemmeno di sinistra, se con questi termini si indicano degli schieramenti appartenenti al sistema politico dei governi attuali. Con “politica” inteso come “Arte di governare gli stati”.
Penso che il rispetto per l’altro (altro animale, in questo caso), sia qualcosa che avrà sempre difficoltà ad entrare pienamente nel sistema politico attuale. Perché esso è incentrato sulla gerarchia e sul dominio e come tale, impedisce chi ne è coinvolto di poter “giocare alla pari”. Per questo motivo, la politica, intesa come politica di governo, non può essere antispecista. Quindi, come non può esistere un partito antispecista di destra, non può esistere nemmeno un partito antispecista di sinistra. Perché entrambi sono prodotti di un sistema che si appoggia sull’idea della delega e della gestione centralizzata.
Guardando la cosa da un altro punto di vista, ci si può concentrare sugli ideali. Una persona, anche se non riesce ad uscire dal sistema della delega e della gerarchia, in base alle proprie convinzioni morali, può scegliere di “darsi” ad un partito o ad un altro, per via di una ideologia di massima, realmente attuata, oppure semplicemente percepita o propagandata. Possiamo provare ad entrare in questo contesto, ed osservare l’amalgama che emerge da tutte queste cause sparse.
Questa seconda prospettiva, mi ha fatto pensare ad un altra questione, forse ancora più interessante: “Perché in questi casi, alcuni notano l’incoerenza di certe posizioni, mentre altri no? E possono esistere queste posizioni presumibilmente incoerenti?”
Conosciamo le ideologie che stanno alla base dei movimenti a cui si ispirano le correnti politiche. Conosciamo l’etica che sta alla base dell’animalismo e dell’antispecismo. Questo ci aiuterà, da esterni, ad osservare con uno sguardo il più possibile non soggettivo e non coinvolto. Sappiamo che il comportamento delle persone, se visto dall’esterno, può apparire più o meno contraddittorio, mentre dal proprio interno, una persona percepirà sempre se stessa, la propria coscienza, come un’unità coerente. Sappiamo che nel caso dovesse dubitare razionalmente della propria coerenza, agirebbe in modo da rifiutare questi dubbi e tornare quindi a percepirsi nuovamente come coerente, oppure modificare se stessa in modo da tornare ancora a percepirsi coerentemente. Il primo è il processo più frequente e semplice, mentre il secondo è più raro e richiede tempo.
Dal nostro punto di vista non coinvolto, una volta compreso come la coscienza costruisca per se stessa una coerenza interna, dovremmo ammettere di non poter affermare che non possa emergere una qualche forma sincretica in cui convivano ad esempio, sia la teoria della razza che la difesa degli animali. Essa può emergere, fintanto che chi vi appartiene, percepisce in sé coerenza. Tuttavia, noi esterni, percepiremmo come stridente questo accostamento, instabile. Perché riteniamo di conoscere le idee non soggettive che principiano quelle ideologie e le vediamo in contrasto fa di esse. Sentiamo che c’è una tensione ed un conflitto, invece di un’armonia.
Allo stesso modo, percepiamo incoerenza in quei casi, più semplici da individuare, in cui sappiamo di persone che vogliono difendere a tutti i costi la vita di alcuni cuccioli di gatto nel caso li vedano maltrattare, non farsi alcun problema nel magiare cuccioli di pecora a pasqua. Anche in questo caso, il loro meccanismo interno compenserebbe l’incoerenza, in modo da permettere alla loro coscienza di sentirsi unitaria, coerente e continua, senza buchi, strappi ed interruzioni. Possiamo anche avere dei nazisti che si ritengono antispecisti. Un giorno ammazzano qualche decina di ebrei e rom, ed il giorno dopo difendono i cerbiatti. Loro, internamente, non hanno compreso la radice che sta alla base dell’antispecismo, ma magari nelle azioni verso gli animali non umani, lo praticano come se l’avessero fatto.
Conoscendo che alla base dell’antispecismo c’è l’idea di rifiuto della violenza e della parità di considerazione delle varie specie (e quindi delle varie “razze”, anche se parlare di razza in base ai tratti somatici è scientificamente sbagliato. vedi: Human equality is a contingent fact of history di Stephen Jay Gould http://www.scribd.com/doc/18185121/Human-Equality-Is-a-Contingent-Fact-of-History), ci accorgiamo che nel loro comportamento, qualcosa stona.
È tuttavia possibile considerare coerente un razzista animalista: semplicemente potrebbe ritenere che la propria razza, in quanto superiore alle altre e quindi in diritto di dominarle e comandarle, abbia anche il compito di decidere sulla vita o la morte degli altri animali e che debba difenderli perché sono di sua proprietà. Magari perché sono belli e motivo di orgoglio per la propria nazione, o chissà cos’altro. Sarebbe, coerentemente, un nazionalista razzista, che ritiene corretta l’idea di dover dominare sugli altri, ed in questo, riuscire ad incastrarci anche l’animalismo. Noi potremmo ritenerlo coerente. Ma questo non potrebbe accadere con l’antispecismo.
Non intendo dire che una persona simile dovrebbe smettere di essere animalista, ma che mi fiderei poco di lui, perché il suo comportamento si appoggerebbe su concetti parziali, che non sono stati approfonditi. Oppure definisce se stesso con dei termini di cui non conosce il significato. Usa un significato personale in luogo di quello originario e comunemente accettato. Per questo motivo, essa potrebbe modificare la propria attitudine da un momento all’altro. Ancora di più se questa persona si ritiene addirittura antispecista. Sarebbe instabile, difficile da prevedere, perché noi non conosciamo i meccanismi interni che in quella persona legano fra loro dei concetti che comunemente e originariamente, sono così distanti da venire percepiti come incompatibili.
Dovrebbe smettere di definirsi antispecista o animalista? O di esserlo? Non lo so. Io credo che dovrebbe prima di tutto riesaminare le proprie idee e poi decidere un eventuale cambiamento, sempre che ne sia in grado. L’ideale sarebbe che mantenesse le idee dell’antispecismo e cambiasse le altre, ma non possiamo forzarlo a fare questo. D’altro canto, se è pur vero che persone simili possono agire in modo utile per la causa antispecista o animalista, io non farei comunque affidamento su di esse per via dell’instabilità che si crea in loro.
Sono quindi felice per alcune azioni che vengono comunque fatte in difesa degli animali, ma non riesco in nessun modo a fidarmi delle persone che le compiono, né posso impedirmi di provare fastidio nel leggere motti come “Gli animali saranno rispettati o perché la gente li ama, o perché la gente avrà paura di quello che gli potrebbe accadere se non li si tratta con rispetto!”.

Stefano Stofella
(Rovereto – Tn)

 

Vegan 4/La nostra replica

Accogliendo l’invito della Redazione e ringraziando per lo spazio concessoci, cercheremo di chiarire alcuni concetti espressi nel precedente articolo “Antispecisti di Destra?” pubblicato nel numero 360 della rivista.
Il presupposto da cui si è partiti può essere riassunto nel modo seguente:
a) gli altri animali hanno bisogno degli umani per essere liberati;
b) gli umani hanno bisogno degli altri animali per liberarsi.
Il primo assunto non è altro che la semplice constatazione di un dato di fatto: siamo la specie animale dominante sul pianeta Terra e come tali i diretti responsabili delle sofferenze altrui perpetrate attraverso il nostro dominio incontrastato. Possiamo scegliere se, come e quanto sfruttare gli altri animali e questo, ovviamente, a prescindere da qualsiasi manifestazione della loro volontà.
È all’interno di tale situazione che sono costrette a muoversi quelle che abbiamo definito “le varie anime” del movimento animalista: le loro istanze, più o meno radicali che siano, partono da un presupposto che viene considerato come dato e immutabile, ossia che la società umana, in tutte le sue componenti (culturali, economiche, politiche, antropologiche ecc.), non sia modificabile e che quindi si possa certamente operare un cambiamento, in senso positivo, in alcune sue componenti ma senza intaccare quelli che sono i pilastri su cui si regge.
È sempre all’interno di tale cornice che è nato e si è sviluppato il pensiero antispecista.
Peter Singer, il cui lavoro è, ripetiamo, da considerarsi fondamentale, non si è solo limitato a dare una definizione di specismo, non ha solamente affermato l’analogia che lo lega ad altre forme di discriminazione intraspecifiche come il sessismo e il razzismo, ma ne ha in qualche modo descritto l’origine quando ha intuito che il meccanismo che sta alla base, da cui si muovono e che giustifica quelle forme di pregiudizio è il medesimo, ossia scrive Singer “lo schema è lo stesso in ciascun caso”.
Singer descrive esattamente il funzionamento della macchina specista, vale a dire il meccanismo della trasformazione della differenza (un uomo è diverso da un cane) in gerarchia (l’uomo in quanto tale è superiore al cane), e ne dichiara le analogie con le con le altre forme di discriminazione intraspecifiche e denuncia la contraddizione che caratterizza la nostra società quando si rifiuta di estendere alcuni suoi valori agli animali non umani.
Ma c’è di più. Infatti non è solo il “funzionamento” delle diverse forme di discriminazioni a essere uguale: le cause che ne hanno consentito la nascita, e le condizioni che ne permettono il perpetuarsi sono comuni.
Chiedersi se sia possibile eliminare queste forme di discriminazione senza conoscere quali ne sono le origini e soprattutto senza eliminare quei fattori che ne costituiscono le cause e le condizioni di sviluppo significa ampliare e travalicare ogni prospettiva meramente animalista o umanista, per comprendere appieno il nesso che lega lo sfruttamento umano e quello degli altri animali e, di conseguenza, quello che lega la liberazione umana con quella animale.
È a partire da questa considerazione che deriva il secondo assunto: il dominio ed il controllo dei corpi non solo ha come vittime gli altri animali, ma anche gli umani stessi. Non può esistere una reale liberazione se non una totale liberazione di tutti gli oppressi a partire dai non umani base della piramide sociale umana pur non facendone parte.
Non è quindi necessario identificare la destra con il fascismo o, ancor peggio (perché siamo riusciti purtroppo a fare di peggio), con il nazismo per accorgersi che comunque i valori di cui è portatrice (si pensi al principio identitario, al conservatorismo, all’autoritarismo, solo per citarne alcuni) sono in netto contrasto con la visione antispecista.
Tornando a quanto si chiede il lettore va da sé che non si può parlare di partiti antispecisti, se intesi come partiti istituzionalizzati, si può però parlare di politica antispecista come volontà di influenzare la società e di mutarne sin dalla base le caratteristiche. L’impianto teorico antispecista è rivoluzionario, non potrebbe essere altrimenti, e come tale alieno ad ogni istituzione umana utile all’esercizio del controllo e del dominio sull’individuo e sulla società.
Se è inoltre vero che non è in alcun modo possibile parlare di antispecismo di destra, dobbiamo tenere in considerazione che ritenerlo meramente di sinistra, tentando di riproporre steccati ideologici che non appartengono più alla società contemporanea umana, sarebbe alquanto limitante. A tale proposito suggeriamo la lettura della lettera aperta della Veganzetta al futuro movimento antispecista (http://www.veganzetta.org/?p=665http://www.veganzetta.org/?p=665).
In conclusione è opportuno ribadire che non solo sin dalla sua nascita l’antispecismo dispone di un solido impianto teorico, ma che molta strada è stata percorsa dalla definizione di specismo elaborata da Ryder e dagli enunciati di Singer, e che l’antispecismo contemporaneo può realmente essere in grado di fornire i necessari strumenti ideologici per gettare le basi per una lotta di liberazione animale (umana e non) che rifiutando ogni discriminazione basata sulla specie, in nessun modo potrebbe avallarne delle altre seppur intraspecifiche.

Luca Carli, Adriano Fragano

 

Grazie a Dada Knorr (e anche ad “A”)

Grazie a Francesca Palazzi Arduini, la Dada Knorr di tante battaglie, del blog http://femminismi.wordpress.com/ e della tv groucho-marxista, i suoi scritti mi piacciono moltissimo, come si fa a non condividere queste riflessioni, la contestazione dei business a qualsiasi livello, la messa in discussione del leaderismo, delle “gerarchie” (così bene descritte anche dai vegani con il loro antispecismo), vorrei che aprissero una “breccia” nel sessismo di una parte (spero piccola!) di compagni ma anche di compagne (qualora riproponessero ruoli semplicemente “ribaltati” dove la donna imita l’uomo in autoritarismo e prepotenza) e dei loro atteggiamenti.
Lo so, nel suo scritto (“Berlu is a virus”, “A” 362, maggio 2011) c’era molto di più, vale la pena di rileggerlo, è una “ventata d’aria fresca” dove il berlusconismo e la tv commerciale ma non solo, hanno fatto tabula rasa della presenza femminile, per sostituirla con dei simulacri di femmina che non ha parola, ma solo immagine (dove l’immaginario è tutto maschile).
Complimenti a Dada e a voi perché coltivate da tanti anni libertà preziose, di pensiero, di relazione e di cambiamento.

Patrizia Diamante
(Firenze)

 

Anarchia e “vil materia”

Cara redazione,
non mi dilungo negli apprezzamenti per il vostro lavoro: i quaranta anni della rivista e la ricchezza di contenuti e la grafica di ogni numero mensile parlano da sé.

La prima rubrica che leggo solitamente è quella sulla vostra storia (“Trentasette anni fa”). In quella di maggio (n. 362) rievocate l’intervista di Paolo Finzi a Pier Carlo Masini sulla sua biografia di Carlo Cafiero, pubblicata allora da Rizzoli.

Il titolo dell’intervista è particolarmente “pesante”: Il programma di Marx è una grossa assurdità reazionaria. Poi scrivete che il titolo riprende un’affermazione dell’anarchico pugliese ed è testimonianza del taglio fortemente polemico che l’intera equipe di “A” porta avanti nell’affermare l’autonomia del pensiero anarchico dalle multiformi versioni del pensiero marxista. E, immagino, da molti dei gruppi extraparlamentari di allora.
Tutto chiaro. Allora non c’ero, e non ha molto senso dire se leggere questa cosa mi avrebbe fatto rizzare i capelli. Oggi invece i capelli rimangono al loro posto, ma mi viene da riflettere su una questione: è vero, l’anarchismo, come pensiero e anche come pratica – anzi “pensieri” e “pratiche” – sembra essere sopravvissuto anche al tramonto generale del marxismo. Eppure molte della categorie marxiane – penso al materialismo, al concetto di alienazione e di merce – sono utili perché assolutamente attuali. La questione sociale, e con essa la lotta di classe, non si è mai sopita e anzi negli ultimi trenta anni circa, si è dispiegata in tutta la sua violenza, seppur secondo l’indirizzo voluto dai padroni e dallo stato. I ventenni/trentenni precari di oggi tutto questo lo sentono bene, seppur non lo teorizzino apertamente o lo facciano con parole o modi diversi rispetto al passato; gli immigrati ancor di più; così le donne, ancora e sempre più spesso, sfruttate due volte, al lavoro e in famiglia.

Di tutto questo vorrei che “A Rivista” scrivesse di più di quanto già fa. Il motore della storia è sì l’indignazione e l’anelito alla libertà e alla giustizia, ma è anche, banalmente, la “vil materia”. E lo stomaco dell’operaio, del disoccupato, dello studente, dell’immigrato brontola rumorosamente, su entrambe le sponde del Mediterraneo.

Un saluto insieme materiale e ideale.

Antonio Senta
(Bologna)

 

Alla riscoperta di Pierre Monatte

Quanto segue è il completamento ideale di un discorso aperto con l’articolo a firma Walker che è comparso sul n.120 di «Lotta di Classe» e titolato “Dalla Carta d’Amiens e il Congresso di Amsterdam ad oggi: Autonomia, indipendenza e autosufficienza del sindacalismo rivoluzionario”.
In quella sede, dopo un breve excursus storico, si tentava di cogliere la sostanza delle difficoltà che hanno contraddistinto (e contraddistinguono) i rapporti tra organizzazione sindacale libertaria e rivoluzionaria e movimento anarchico organizzato. Si rilevava la necessità che questi rapporti tutelassero l’autonomia e l’indipendenza del sindacato nel rispetto reciproco tra organizzazione politica e organizzazione sindacale.
Tuttavia a questa necessità si può consentire in modo assolutamente formale, risolvendola in una pura separazione tra due ambiti nettamente separati, in una sorta di divisione del lavoro: da un lato l’attività politica rivoluzionaria, dall’altro la difesa economica dei lavoratori affidata alla lotta rivendicativa, anche la più radicale.
Questo non risolve – e non ha mai risolto – il problema. A questa visione di principio hanno sempre consentito – a parole – i grandi sindacati riformisti, fossero di ispirazione socialdemocratica, comunista o cattolica. Nei fatti, invece, il sindacato è sempre stato considerato “cinghia di trasmissione” delle istanze politiche delle “avanguardie” e per la verità questo atteggiamento l’hanno avuto anche molti anarchici, tra i quali citiamo solo l’esempio illustre di Errico Malatesta… Ed è proprio questa attitudine che spesso rende, e ha reso, parole vuote l’autonomia e l’indipendenza del sindacato rivoluzionario. Nella sostanza la mancanza di una definizione del suo progetto.
Tutto ciò ci riporta al sopracitato congresso internazionale anarchico di Amsterdam del 1907 e al serrato dibattito che vi si svolse, tra, appunto, Malatesta e Pierre Monatte, allora giovane sindacalista rivoluzionario della CGT. Proprio a Monatte dobbiamo una delle più lucide esposizioni dei capisaldi del sindacalismo libertario e rivoluzionario e della necessità della concretezza e dell’autosufficienza del suo progetto.
Apre infatti il suo intervento dichiarando:

“Il mio desiderio non è tanto darvi un’esposizione teorica del sindacalismo rivoluzionario quanto di mostrarvelo all’opera e , così, di far parlare i fatti. Il sindacalismo rivoluzionario, a differenza del socialismo e dell’anarchismo che l’hanno preceduto nel corso del tempo, si è affermato meno per le teorie che per gli atti, ed è nell’azione più che nei libri che si deve andare a cercare”

e più avanti:

“Il sindacalismo, ha proclamato il Congresso d’Amiens nel 1906, è sufficiente a se medesimo. Queste parole, io lo so, non sono sempre state ben comprese, nemmeno dagli anarchici. Che cosa significa ciò se non che la classe operaia, diventata matura, capisce infine infine di bastare a se stessa e non aver bisogno riporre su alcuno la realizzazione della propria emancipazione. Quale anarchico potrebbe trovare da ridire ad una volontà d’azione così decisamente affermata?” (1)

Due, quindi, le affermazioni forti: il fondarsi del sindacalismo rivoluzionario sulle pratiche più che sulle teorie ed il suo essere sufficiente a se stesso in quanto nel suo ambito e solo in quello la classe operaia divenuta matura, trova gli strumenti per costruire la propria emancipazione. “Agir par soi-même, ne compter que sur soi-même” (2) precisa infatti Monatte.
Ma quali sono questi strumenti, peculiari della concezione sindacalista rivoluzionaria?

“… si tratta dell’azione diretta. Questa, non c’è bisogno di dirlo, riveste le forme più diverse. Quella principale, o meglio la sua forma più eclatante, è lo sciopero. Arma a doppio taglio, si diceva poco fa: arma efficace e ben temprata, diciamo noi, e che, utilizzata con abilità dai lavoratori, può colpire al cuore il padronato. È con lo sciopero che la massa operaia entra nella lotta di classe e si familiarizza con le sue nozioni; è con lo sciopero che ella compie la sua educazione rivoluzionaria, che ella misura la sua forza e quella del suo nemico, il capitalismo, che prende coscienza del suo potere, che impara l’audacia.
Il sabotaggio non ha valore minore. Si può formulare così: a cattiva paga, cattivo lavoro. Come lo sciopero, è stato impiegato in tutti i tempi, ma solo di recente ha acquisito un significato veramente rivoluzionario. I risultati prodotti dal sabotaggio sono già considerevoli. Là dove lo sciopero si è mostrato impotente, è riuscito a spezzare la resistenza padronale” (3).

Azione diretta dunque, nella duplice forma dello sciopero e del sabotaggio (“A mauvaise paye, mauvais travail”). Sciopero però non politico, né semplicemente rivendicativo, ma come educazione rivoluzionaria e presa di consapevolezza dei lavoratori della propria forza in vista dello sciopero generale espropriatore che sancirà la fine del potere del capitale.
Questo a una condizione:

“Se l’espropriazione e la presa di possesso collettivo degli strumenti e dei prodotti del lavoro non possono essere compiute che dai lavoratori stessi, il sindacato è chiamato a trasformarsi in gruppo produttore e si trova ad essere nella società attuale il germe vivente della società di domani” (4).

Un punto chiave: il sindacato rivoluzionario non può limitarsi ad essere l’organizzazione di lotta dei lavoratori, deve costruire già dall’oggi le basi di una economia alternativa – autogestionaria e federalista, aggiungiamo noi – pronta a sostituire quella esistente basata sul profitto e lo sfruttamento capitalisti.
Infine:

“Il sindacalismo non promette ai lavoratori il paradiso terrestre. Domanda loro di conquistarlo e assicura che la loro azione non resterà vana. Il sindacalismo è una scuola di volontà, di energia, di pensiero fecondo. Apre all’anarchismo, da troppo tempo ripiegato su se stesso – delle prospettive e delle esperienze nuove. Che tutti gli anarchici vengano dunque al sindacalismo; la loro opera sarà più feconda, i loro attacchi contro il regime sociale più decisivi” (5).

Sappiamo come andò. Le concezioni espresse nella replica di Malatesta, convenzionali, fondate su un indifferentismo sindacale in linea con la tradizione anarchico-politicista, ebbero alla lunga la prevalenza. L’appello di Monatte restò largamente inascoltato, Il sindacalismo rivoluzionario e libertario percorse la sua strada, spesso la stessa del movimento anarchico, ma a volte no. Non c’è mai stata un’adesione complessiva degli anarchici al progetto rivoluzionario complessivo così ben espresso da Monatte, non ci sono stati nemmeno molti contributi critici costruttivi alle concezioni sindacaliste libertarie e rivoluzionarie. I risultati li vediamo oggi nella dispersione progettuale regnante, nell’impotenza a costruire e nella tendenza a ripercorrere i vicoli ciechi di altri modelli sindacali.

Guido Barroero
(Unione Sindacale Italiana – AIT)

Note

  1. Intervento di Monatte nella seduta del 28 agosto. La traduzione di questa e delle altre citazioni è mia.
  2. Ibidem
  3. Ibidem
  4. Mozione finale di Dunois, sottoscritta da Monatte, Fuss, Nacht, Ziélinska, Fabbri, K. Walter
  5. Intervento cit.

 

I nostri fondi neri

Sottoscrizioni.
Piero Torelli (Sermoneta – Rm) 20,00; Marco Morelli (Pomezia – Rm) 15,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Amelia e Alfonso Failla, 500,00; Alfredo Mazzucchelli (Carrara – Ms) 300,00; Tommaso Regazzo (Pisa) 10,00; Roberto Chiacchiaro (Cinisello Balsamo – Mi) 20,00; Domenico Gavella e Roberta (Rabenna) 50,00; Tommaso Bressan (Forlì) 40,00; a/m T. Bressan, Gianfranco Landi (Forlì) 25,00; Antonino Lacava (Forlì) 10,00; Giorgio Casadei Turroni (Forlì) 25,00; Antonietta e Andrea Papi (Forlì) 15,00; Roberta Grandi (Imola – Bo) 10,00; Gianpiero Landi (Castel Bolognese – Ra) 20,00; Linda Carloni e Adriano Paolella (Roma) 500,00. Totale euro 1.560,00.

Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, trattasi di euro 100,00). Roberto Nanetti (Settimo Torinese – To); Sergio Guercio (Torino). Totale euro 200,00.

translation Enrico Massetti