Rivista Anarchica Online


Bresci

Perché parlare ancora del gesto di Bresci?
di Massimo Ortalli

Se lo domanda il nostro collaboratore Massimo Ortalli, fresco autore di un bel libro sull’argomento. Riproduciamo una parte del suo testo e la lucida introduzione di Ascanio Celestini.

«Appare meritevole di menzione, per motivazioni inerenti la storia italiana del primo Novecento»

Per essere pienamente compreso in tutte le sue implicazioni il gesto di Bresci va inserito nell’epoca e nella temperie culturale e sociale nelle quali si verificò. E ciò a maggior ragione rispetto ad altri fatti di minore importanza, visto lo scalpore che suscitò nel mondo intero e le conseguenze che ne derivarono. Anche per questo lo sguardo dello storico, come quello del militante, deve cercare di assumere una prospettiva e una larghezza di vedute particolarmente aperte e “laiche”.
Come abbiamo visto le “ragioni” di Bresci e quelle di Umberto di Savoia e del governo sono più che evidenti e, se dovessimo porle su un’ipotetica bilancia, le prime appaiono infinitamente più valide e convincenti delle seconde:

  • la gratuita spietatezza della repressione, attuata non per perseguire maggiore stabilità sociale o per attutire le contraddizioni esplosive della società italiana, ma solo per raggiungere un controllo più serrato e soffocante sui ceti popolari e sulle insorgenze create da una situazione drammatica;
  • la profonda umanità dell’attentatore, la sua attenzione alle sofferenze delle «vittime pallide e sofferenti», il suo spirito di sacrificio portato alle estreme conseguenze, la sua indiscussa assunzione di responsabilità che permetterà di farla franca alla probabile rete di complicità che lo appoggiò;
  • la brutale risposta che lo Stato, inizialmente, dette al gesto “illegale” del regicida, espressa in un processo, come abbiamo visto, irrispettoso delle proprie stesse procedure, in una detenzione disumana e barbara e, infine, in un “suicidio” di Stato talmente evidente da non riuscire neppure a mascherarsi;
  • l’esibizione vuota e impietosa della retorica ufficiale che si espresse lamentandosi della gravità di un gesto così incomprensibile, l’avere colpito il re “buono”, senza volerne approfondire le cause e le motivazioni;
  • il conseguente e inarrestabile mutare del clima sociale che fece sì che le condizioni di vita e i diritti dei lavoratori trovassero finalmente espressione, non più sotto forma di benevola e gretta elargizione, ma come conquista irrinunciabile e legittima.
    Sono questi, dunque, gli elementi utili per la valutazione di oggi, elementi numerosi, non di poco conto e che ancora rivestono una pregnante attualità, indipendente dalla contingenza temporale. Resta inoltre, pesante come un macigno, la domanda fondamentale, quella alla quale riesce difficile dare una risposta “definitiva”, soprattutto in un caso come questo: nella lotta politica e sociale è legittimo l’uso della violenza?

Come si è visto, le reazioni immediate del movimento anarchico furono apparentemente contraddittorie se non, addirittura, di segno opposto, dettate sia da un “opportunistico” spirito di sopravvivenza, sia da profonde e sofferte convinzioni etiche sul tema della violenza. Riassume la complessità dell’atteggiamento degli anarchici quanto si legge nel numero unico «Bresci» pubblicato a Forlì, dal giornale anarchico «L’Aurora», nel 1946:

L’anarchismo fu responsabile nel suo insieme dell’attentato di Bresci. Era una manifestazione conseguente della sua tattica. Non di una tattica specifica dell’attentato, che questa non è mai esistita; ma della tattica rivoluzionaria, della resistenza cioè alla violenza dello Stato e alle sopraffazioni del dispotismo.

Sempre più, dopo il regicidio, si affacciarono gli interrogativi sul tema degli strumenti dell’azione rivoluzionaria, domande che avrebbero trovato una risposta nella nascita e nel progressivo affermarsi dell’anarchismo di segno sindacalista, organizzatore e sociale. Se comunque, all’inizio, ci fu una discordanza nelle analisi, a distanza di anni il gesto di Bresci ha avuto sempre più una valenza positiva che si è espressa sia in una ricca iconografia sia nella sedimentazione storica. A tal punto che più nessuno, ormai, lontano e decontestualizzato il gesto, si abbandonerebbe alle condanne di allora.
Ne sono dimostrazione, fra i tanti, due episodi, circoscritti ma pur sempre significativi, che hanno evidenziato, sul finire del Novecento, un’oggettiva urgenza di rilettura del fatto. Il primo fu l’intitolazione di una strada al regicida proprio nella sua città natale, quella stessa Prato che, all’indomani del regicidio, non esitò a invitare la cittadinanza, in segno di lutto,

a chiudere i negozi, ad issare la bandiera tricolore abbrunata alle abitazioni e a dare prova solenne e sincera che Prato nutre affezione quanto le altre città d’Italia per la gloriosa dinastia dei Savoia.

Come prevedibile, quando la giunta comunale ha deciso di dedicare una strada al proprio concittadino, non sono mancate le rimostranze, i dubbi e le critiche, ma le motivazioni con le quali i trentotto consiglieri presenti hanno votato all’unanimità la delibera, lasciano pochi dubbi su come si fosse completamente ribaltato il giudizio sul regicidio anche in quella città:
Appare meritevole di menzione, per motivazioni inerenti la storia italiana del primo Novecento e il significato che in tale contesto viene ad assumere la figura del cittadino pratese. […] La sua memoria si affida, nella valutazione storica, al riconoscimento che l’atto da lui compiuto condusse ad una svolta della politica italiana in campo sociale, dopo le sanguinose e reazionarie repressioni che erano succedute alla guerra d’Africa e ai moti del 1898.

Gaetano Bresci

A Prato e a Carrara

E così oggi a Prato c’è una via Gaetano Bresci, mentre è scomparsa, da tempo, quella intitolata a Umberto Primo. A conferma della “profezia” di Bresci quando ai propri carcerieri ebbe a dire, come ricordato, che essi sarebbero stati polvere mentre egli sarebbe passato alla storia.
Il secondo episodio, che seguì il primo a distanza di una decina di anni, è stato l’innalzamento del monumento a Bresci nello spiazzo antistante il cimitero di Carrara, ottenuto dopo una lunga, tormentata ma vincente campagna che ha visto coinvolte e solidali, accanto al suo instancabile e determinato animatore Ugo Mazzucchelli, numerose istanze esterne se non addirittura estranee al movimento anarchico
Come ricorderà chi, in quegli anni ebbe parte attiva o più semplicemente si interessò alla campagna pro monumento, non fu facile raggiungere l’obiettivo, non solo per l’opposizione di parte dell’opinione pubblica, che vedeva nella “glorificazione” di quel gesto una sorta di legittimazione del terrorismo che in quegli anni interessava pesantemente la vita politica e sociale del Paese, ma anche per il contrasto più o meno esplicito di una parte dello stesso movimento anarchico che vedeva, nell’erezione del monumento, una sorta di “santificazione” di Bresci. Alla quale, si obiettava, si sarebbe opposto lo stesso regicida. Ma ebbero buon gioco, comunque, il determinatissimo Mazzucchelli e i compagni a lui più vicini, nel dimostrare il valore fortemente simbolico del monumento, quale una sorta di sentenza definitiva emessa dalla storia, una sentenza pesante come il candido marmo di Carrara utilizzato per l’opera. E infatti il monumento fu eretto, vincendo le resistenze di alcuni puristi dell’anarchismo e gli anatemi di certa borghesia tuttora nostalgica della “magia” di Casa Savoia. Una nostalgia non molto comprensibile, visti i tristi trascorsi monarchici e l’equivoca personalità di chi ancora portava quel nome.
Questi due esempi non possono essere risolutivi di un eventuale dibattito su Bresci e Umberto, però dimostrano chiaramente che l’Italia ha metabolizzato il gesto di Bresci non solo dal punto di vista storico ma anche da quello etico e morale. Tanto che si potrebbe pensare che la famosa Conferenza antianarchica organizzata dalle maggiori potenze mondiali per contrastare, sul finire dell’Ottocento, gli atti di vendetta individuale degli anarchici, sarebbe oggi più utile se si proponesse di contrastare ben altre quotidiane pratiche liberticide: la guerra “umanitaria”, la finanza “creativa”, l’economia “liberista”, il controllo dell’informazione e quindi delle coscienze.
Nella vicenda personale di Bresci nessun’ombra ne ha offuscato la figura, e anche se potremmo essere contrari in linea di principio a ogni atto di violenza, possiamo azzardare l’ipotesi che il suo gesto, così clamoroso, abbia positivamente contribuito a chiudere la stagione degli attentati politici, almeno di quelli anarchici. Se si eccettuano infatti l’assassinio di Ferdinando d’Austria a Sarajevo, che provocò ufficialmente lo scoppio della prima guerra mondiale ma che fu opera di un nazionalista, Gavrilo Princip, e i tentativi non riusciti di attentare a Mussolini, compiuti da anarchici ma anche da esponenti di giustizia e Libertà, la stagione dei regicidi può considerarsi conclusa proprio quel 29 luglio 1900. La morte di Umberto I può quindi essere letta come la cesura simbolica di una stagione che sembrava non avere altra opportunità di trasformazione se non quella del gesto disperato e risolutore dell’individuo.

La rivolta l’atto generoso

Ormai sono le masse popolari che si stanno affermando, le masse coscienti della propria forza in quanto classe sociale, non più disposte a subire senza lottare, e alle quali anche il gesto di Bresci ha aperto una strada altrimenti difficilmente percorribile. La data del 1900 non segna solo la fine di un secolo e la nascita del secolo nuovo, il secolo che porterà con sé le più grandi conquiste e le più grandi tragedie dell’umanità, ma è anche, per il movimento anarchico, la fine emblematica della fase che ha visto la modalità d’azione a sé più consona soprattutto nel gesto individuale o in quello di una esigua avanguardia. La rivolta, l’atto generoso, il gesto esemplare può e deve convertirsi nell’azione collettiva, nel progetto portato avanti con lucida coerenza, nell’affermazione solidale dei diritti di tutti, da tutti propugnati e da tutti, insieme, perseguiti. E gli strumenti possono ora poggiare su basi più solide di quanto non siano le spalle, per quanto robuste, del singolo individuo.
Le grandi rivoluzioni del ventesimo secolo non sono certo nate sull’esempio dei tanti Gaetano Bresci disposti a immolarsi sull’altare dell’emancipazione e della liberazione sociale, ma sicuramente è stato anche grazie ai Bresci, ai nichilisti russi, agli espropriatori spagnoli, che il potere si è rivelato essere più vulnerabile di quanto non si credesse.
In conclusione, che dire? Nulla occorre aggiungere per dimostrare la forza morale del regicida: la si è già descritta e non può essere messa in discussione. Ma il gesto, dunque? Fu altrettanto grande, fu altrettanto moralmente nobile, fu altrettanto “giusto”? Cosa penserà il lettore dopo la lettura di queste pagine? Da parte nostra, concludiamo con un’ultima considerazione. Indipendentemente da qualsiasi altra valutazione, il gesto di Bresci “doveva” accadere, era nell’ordine delle cose; e il primo responsabile, morale e materiale, fu proprio colui che ne divenne la vittima diretta. Questo ci ha consegnato, in modo definitivo, la storia.

Massimo Ortalli

Re di Sasso – Tempera di Flavio Costantini

Non per immortalare il re, ma per vederlo morto

Nel 1857 Carlo Pisacane, Battistino Falcone, Giovanni Nicotera e una ventina di rivoluzionari sequestrano un piroscafo, assaltano il carcere di Ponza, liberano trecento detenuti, ripartono per il Cilento e tentano un’insurrezione che finirà malissimo. Pisacane e Falcone vengono praticamente fatti a pezzi, mentre Nicotera si prende tre accettate in testa, gli sparano a una mano e viene preso a picconate tanto da estrargli l’ombelico, come scrisse un medico. Venti anni dopo un gruppo di anarchici issa la bandiera rossa e nera sui palazzi del governo di Letino e Gallo Matese e finisce dritto dritto in tribunale. Silvia Pisacane, figlia di Carlo, intercede per loro cercando aiuto nel padre adottivo, quel Nicotera che si salvò per un pelo nell’insurrezione del Cilento. Nicotera può aiutarli perché venti anni prima era un rivoluzionario, ma ora è il ministro degli interni. E proprio a lui oltre che a Depretis, Crispi e Cairoli si rivolgono gli internazionalisti della banda del Matese. Vogliono il processo politico e cercano negli ex rivoluzionari una sponda. Invece verranno processati come cospiratori e si salveranno per la difesa dell’avvocato Francesco Saverio Merlino e anche per la morte di un re, quel Vittorio Emanuele che per i libri di storia aveva fatto l’Italia, ma s’era dimenticato di cambiarsi il numero, così il primo sovrano del regno unito si chiamò secondo. Dopo di lui salì sul trono Umberto primo che proclamò l’amnistia e contribuì a far uscire di galera anche gli anarchici senza sapere che sarebbe stato proprio un anarchico una ventina di anni dopo a traversare l’oceano per andargli a sparare. E sarà di nuovo l’avvocato Merlino a difenderlo in tribunale.
È solo un girotondo di date e nomi, ma per i festeggiamenti dei 150 anni dell’unità d’Italia sarebbe saggio ricordare che Pisacane e Nicotera a Sanza come Bresci a Monza o Malatesta e Cafiero nel Matese dovevano ancora compiere quarant’anni e un paio di loro non li festeggeranno mai. Rivoluzionari di venti e trent’anni che col passare degli anni finiscono in galera, al camposanto o in parlamento. Non tutti, ma la maggioranza. E quando, i cinquantenni al potere incontrano i ventenni.. non si riconoscono. Succederà ancora nel corso del novecento quando gli ex partigiani al governo non sapranno confrontarsi coi movimenti degli anni settanta.
Non so quanto uno storico potrebbe ritenere che questi miei appunti possano essere di supporto ad una teoria seria, ma mi piace pensare che Bresci abbia voluto dare il suo contributo ad una lunga rivoluzione sognata dai ragazzini e tradita dai vecchi. E l’abbia fatto con una curiosa leggerezza che è anarchica e giovanile allo stesso tempo, l’unico slancio che può spingere un tessitore toscano a tornarsene dal New Jersey con una pistola e una macchinetta fotografica non per immortalare il re, ma per vederlo morto.

Ascanio Celestini
(introduzione al volume)