Rivista Anarchica Online



a cura di Marco Pandin

 

nestor maknoNestor Makhno

“Il silenzio non è solo assenza
di qualcosa
– un semplice intervallo
tra parole e rumori –,
ma è esso stesso qualcosa”

(Romano Guardini, citato da Andrea Fazioli in “La sparizione”).


Raccontarvi di questa musica è un lavoro difficile: non ho abbastanza occhi per prenderne le misure né abbastanza braccia per abbracciarla tutta. Ci sono dentro ingredienti come pianoforte, violoncello, ingegno e fortuna, ma non so esattamente in quale percentuale. Potrei cominciare contando un elenco di dettagli e di tracce, e dicendo innanzitutto che non è stata scritta da qualche parte. È musica con una sua consistenza, sembra di toccarla, risponde di vibrazioni alla punta delle dita. Riempie le orecchie e la testa ma ha un contorno difficile da tracciare, fatta com’è un po’ di sogno e un po’ di ragionamento, invenzione che ha preso forma, forma strana, certo una forma inaspettata che non si immaginava tale fino a poco prima, un giorno, qualche ora, un momento, anche mentre accadeva. Somiglia a una nuvola in cielo, a un cielo di nuvole. Somiglia a quell’infittirsi frettoloso di nuvole di temporale, e ha lo stesso grigio preoccupante del cielo quando si libera un fulmine. Quello stesso sapore metallico grigio che tenta di nascondere il sole e riesce ad innervosirci. Un fulmine.
Soffermiamoci proprio su quel preciso protrarsi di silenzio che precede il bagliore del lampo e lo segue fino al rombo del tuono, un istante che prende lunghezza e spessore, quando pare che anche gli uccelli si fermino in volo, sospesi. Ecco, di quel silenzio questa musica si nutre, in quel silenzio questa musica affonda radici e tentacoli e denti e unghie e lo strappa, lo lacera, ne sparge attorno la polvere e il riverbero. Attenti al silenzio che scompare. Attenti al volume. Attenti al suono improvviso che vi salta addosso, bestia nera senza faccia dietro l’angolo. Non credo che dietro a questa musica ci sia del rancore, dell’insoddisfazione, del risentimento a buon mercato. Non credo che ci sia della rabbia a muovere le mani addosso agli strumenti. A me questo suono che si dibatte d’inquietudine, questo rumore senza rassegnazione sembra una smisurata dichiarazione d’amore. Amore per quell’amore che si fa fatica a conquistare.
Di solito per provare a spiegare una cosa che non viene facile spiegare si fanno confronti con cose che già si conoscono, liste e paragoni, si stabiliscono distanze e prospettive, si ipotizzano relazioni e parentele fino a disegnare una zona meno indistinta, un posto in mezzo al deserto da qualche parte nella mappa. Un posto in cui ci si possa perdere un po’ meno, insomma, dove un pezzo dell’orizzonte sia familiare.
Abbandonandomi a questo gioco crudele e insensato, e senza intenzione alcuna d’offendere, potrei pensare le mani di Nicola Guazzaloca fatte di ben più delle normali dieci dita. Dita tagliate e ricucite insieme: mani miste di pollici indici e medi presi a Cecil Taylor e John Tilbury, e dita sparse di Veryan Weston e Gaetano Liguori. Dita che hanno strangolato jazz e musica classica e ne hanno trascritto i rantoli sul pentagramma. Dita di visionari, di gente che ha infranto regole e scavalcato convenzioni. Dita d’altri non perché Nicola, autodidatta, si accontenti dell’imitazione di grandi firme, tutt’altro. L’ho scritto solo perché all’ascolto le suggestioni si aggrovigliano e serviva una bussola d’emergenza. Perché i tuffi al cuore si susseguono e s’inseguono e si moltiplicano e s’accavallano e arrivano veloci alla costa come onde alte d’oceano, non come onde morbide di laguna: Nicola sa avvicinare terremoti e carezze nello stesso pezzo con la stessa naturalezza con cui stanno vicini i tasti bianchi e neri. Precipizi e sussurri nello stesso gesto, boschi nella neve e stelle marine nello stesso accordo, sotto le stesse dita.
L’altra metà di questa musica esce dal violoncello di Francesco Guerri, uno bravo che non fa il Tristan Honsinger né l’Erik Friedlander de’ noantri, e che non ha paura a mettersi in viaggio per altrove senza navigatore satellitare. Uno che sa abilmente tenersi alla larga dall’ombra lunga di Tom Cora, e che pure accende tante e tante piccole luci nella memoria. Uno che sa colorare il suo strumento di una voce che è testa mozzata di medusa e aurora boreale insieme, terribile e stupefacente, ti fa restare come pietra col cuore a mezz’aria e spalancare la bocca e gli occhi di meraviglia. Francesco ha formazione classica e una lista di esperienze e partecipazioni lunga chilometri e larga dalle orchestre sinfoniche alle serate con Carla Bozulich.
Nicola e Francesco conducono da tempo attività didattica presso la Scuola popolare di musica Ivan Illich di Bologna. Attivi nella scena avant-jazz e sperimentale locale, entrambi hanno collaborato con numerosi musicisti in Italia ed all’estero e già pubblicato diversi titoli che documentano incontri e scontri creativi, le loro musiche come mani che si stringono, come abbracci, come segreti condivisi. Insieme, si sono ispirati all’anarchico ucraino Nestor Makhno per aggredire il silenzio dando vita ad una serie di composizioni istantanee caratterizzate da climi d’agitazione e tinte piuttosto forti, oggetti sonori non rassegnati né consolatori che irridono tutte le indicazioni di volume educato e sconfinano felicemente in suoni liberi sui quali gravità e convenzioni di gusto e leggi armoniche non hanno effetto né rilievo alcuno. Non credo succeda a tutti di saper offrire, riuscendo a guardare fisso negli occhi, una rivoluzione gioiosa come questo progetto che è assieme terribilmente serio ed altrettanto terribilmente sorridente.
Le registrazioni sono state fatte durante una serie di concerti all’APositsia Art Forum di San Pietroburgo, ed a Mosca e Nižnij Novgorod nel corso del Long Arms Festival, e sono proposte senza aver subito manipolazioni né ritocchi. Il cd è offerto in cambio di una sottoscrizione libera.
Vi invito a un giro di approfondimento sul web per un’intervista a Nicola Guazzaloca ospitata su www.sands-zine.com, rivista online dedicata alle forme musicali meno e per nulla convenzionali.
Contatti: facile. Tenete acceso il pc, trovate sia Nicola che Francesco, da soli e insieme, su myspace e ovunque vi conduca un motore di ricerca dandogli in pasto i loro nomi e la vostra curiosità.

Controsole / Per un bacio mai dato

Altri due libri su Fabrizio De André? Certo, e chissà quanti e quali altri ne verranno. Questi, va detto subito, non aggiungono grandi cose a quanto già si è letto in giro, a quanto già si sa e già si è venuti a sapere, ma ben vengano tutti i contributi –a volte può essere preziosa anche una sola frase – per capire meglio, per avvicinare, approfondire.
Il centro di “Controsole” (ed. Arcana, 12,50 euro) è un’intervista fatta da una radio libera di Savona nell’agosto del 1984 in occasione di un concerto del tour di “Crêuza de mä” tenuto in zona. Un’intervista a Faber davvero molto poco formale, rimasta chiusa in un’audiocassetta e ritrovata “per caso” (è la versione ufficiale, ma a questa è bello credere) dopo venticinque anni di buio, che offre l’occasione di soffermarsi sulle radici fantastiche di quell’opera così importante e fortunata. In questo libro “Crêuza de mä” viene raccontato in maniera corale come un mosaico di intuizioni e tentativi, svelato con lentezza aggiungendo al disegno complessivo –tessera dopo tessera – tanti piccoli particolari, sfumature, impressioni, confidenze a voce bassa come rumore del mare. A quella di De André si aggiungono nel libro altre voci, quasi tutte di musicisti ma non necessariamente di protagonisti di quell’album, da Riccardo Tesi e Vincenzo Zitello (che suonarono in “Anime salve”) a Pepi Morgia e Danila Satragno (che di De André furono compagni di strada e concerto). C’è giustamente Mauro Pagani, c’è un Max Manfredi assai schivo, un Beppe Gambetta solare che fa cantare i cori in genovese ai monumenti del rock americano, un inspiegabile Patrizio Fariselli, e altri ancora.
L’altro è un libro piccolo di dimensioni ma grande grande grande di passione. Si propone come una raccolta di quei fili che tengono insieme le parole dentro le canzoni e tra canzone e canzone, quei fili che piace vedere colorati di rosso e che generalmente stanno dietro, in ombra, sottili fino a restare nascosti, visibili solo a pochi. Il titolo è “Per un bacio mai dato” (ed. Ancora, 8,50 euro), l’autore Paolo Ghezzi, lo stesso de “Il vangelo secondo De André” uscito qualche anno fa. Ghezzi si sofferma a raccogliere parole – le parole d’amore in particolare – come fossero fiori fragili di campo, con tutta la delicatezza di cui è capace. Un libro di pennellate brevi, di particolari, di aggiustamenti di luce e di sale. La scrittura è sottovoce, quasi tracciata in punta di matita: c’era bisogno secondo me di qualcuno che avesse il coraggio di parlare di De André senza megafoni né rivendicazioni, di qualcuno che sapesse prendere delle decisioni senza scrivere sentenze, senza dispensare assoluzioni ed ergastoli, senza scolpire iscrizioni inutili sul marmo. Ghezzi ha il pregio della semplicità ed una mira perfetta. Una lettura che arricchisce, e dalla quale si esce con addosso una forte sensazione di pace.

Marco Pandin
stella_nera@tin.it


“Duemila papaveri rossi”
2 cd con libretto

I due cd contengono 37 canzoni di Fabrizio de André
interpretate da musicisti e gruppi indipendenti.
Una iniziativa a sostegno di "A" delle Edizioni stella*nera.

Una copia 15 euro

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Paola Sabbatani e Roberto Bartoli
“Non posso riposare”
cd+dvd

Un cd e un dvd, dodici canzoni da ascoltare e un documentario realizzato da
Mario Bartoli e Giangiacomo De Stefano (Va.C.A. Vari Cervelli Associati).
Una co-produzione Editrice Bruno Alpini, Aparte e stella*nera.

Una copia cd+dvd 15 euro

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