Rivista Anarchica Online


attenzione sociale


a cura di Felice Accame

 

Ritorni,
fra illusioni e indulgenze

 

 

1. Dopo che, nel 2002, l’Italia ha abolito l’esilio dei membri di “Casa Savoia” e dopo che sono “tornati” non è che – come peraltro anche prima – i loro principali rappresentanti si siano distinti per la nobiltà della loro condotta e per la rettitudine delle loro intenzioni. Vittorio Emanuele, scaricato del fardello di “Principe dell’Impero” e rimasto “Principe di Napoli”, ha vivacchiato ai limiti della legge – come quando si dice di uno che qualche giorno di galera l’ha dovuto fare ma sempre pochi rispetto alle premesse – all’insegna di un vario trafficare: finanze altrui, armi, un’accusa di omicidio, l’iscrizione alla Loggia P2, corruzione, falso, sfruttamento della prostituzione. Poco di “mitico”, insomma. Il figlio, Emanuele Filiberto, consapevole del fatto che, se tutto è spettacolo lo può diventare anche la monarchia, si è dato da fare come ballerino, attore, intrattenitore e, tramite il Festival di Sanremo del 2010, anche come cantante, allorché, rivolgendosi all’”Italia, amore mio” intonava il “ricordo” di “quando ero bambino, viaggiavo con la fantasia, chiudevo gli occhi e immaginavo, di stringerla fra le mie braccia” – subito sorretto da Pupo che, rassicurante, cameratesco e assolutorio, prima che il tenore Luca Canonici ci desse dentro con la retorica più becera e trombona, gli rispondeva che “tu non potevi ritornare pur non avendo fatto niente, ma chi si può paragonare, a chi ha sofferto veramente”.

2. Siamo riusciti a fare tornare una quantità di “personaggi” davvero cospicua. Da una scorsa veloce ai repertori, annoto: il dottor X, l’uomo invisibile, Don Camillo, Don Riccardo, Jess il bandito, Montecristo, Raffles, Joe Dakota, gli Ewoks, i magnifici sette, i morti viventi, i tre moschettieri, il gladiatore più forte del mondo, la bambola assassina, la famiglia Adams, le streghe di Salem, l’incredibile Hulk, lo Jedi, Arsenio Lupin, Black Stallion, Brian, Butch Cassidy, Cagliostro, Casanova, Harry Collings, Jafar, Lassie, Marcellino, Martin Guerre, Mr. Hardy, Ringo e Zanna Bianca. Tutti costoro – immaginari o dotati di un minimo di storicità – sembrerebbero accomunati dal fatto che, prima, siano andati da qualche parte e che, poi, siano “tornati”. A ciascuno di costoro, infatti, è stato dedicato un film il cui titolo è costituito dal sintagma “il ritorno di” cui fa seguito il loro nome.

3. Ne Il ritorno del re – un titolo che è uguale a quello del terzo volume di quel Signore degli anelli che John Ronald Reuel Tolkien scrisse tra il 1937 e il 1949 –, Davide Bigalli individua e affronta con chiarezza di idee e con perizia filologica un tema che ha la straordinaria virtù di caratterizzare con un segno nitido ed inequivocabile vicende politiche e religiose. Destreggiandosi fra le vicissitudini del Graal, re Artù, l’Inghilterra di Elisabetta I Tudor e dei vari Enrichi, il Portogallo di Sebastiano, l’Etiopia di Hailé Selassié e la Giamaica di Bob Marley, Bigalli registra i meccanismi di sacralizzazione del potere analizzando le modalità narrative che sostengono il mito: capi carismatici, re, loro discendenti veri o presunti, impostori della più bell’acqua che risuscitano, si ripresentano, assumono sembianze più o meno note e comunque riverite, svolgono la loro funzione nell’ammaestrare popoli in messianica attesa di risarcimenti storici e, spesso – non appena che questa loro funzione venga svolta e ne cessi la produttività – vengono liquidati, perlopiù fisicamente e radicalmente, fin da cadaveri.
L’impostore, dice Bigalli scovando la natura psicologica e sociale del fenomeno, “non è che il punto emergente di una convergenza di forze rivolte contro lo sviluppo delle cose, una situazione nella quale la sua soggettività è subordinata” e, spesso, costui finisce con l’identificarsi progressivamente con il suo personaggio, “con un coinvolgimento emotivo che conduce l’interessato ad affrontare anche la prospettiva della morte ribadendo la propria acquistata identità”. In ballo, infatti, non c’è roba da poco: c’è la voglia di riscatto di un’intera popolazione, c’è una frustrazione accumulata in secoli di subalternità, c’è la speranza collettiva di tornare – tramite il “ritorno del re” perduto, nascosto, espiante, sopravvissuto nonostante ogni evidenza contraria – ad un’età dell’oro che, come un investimento sicuro degli antichi padri, prima o poi deve toccare in premio alla paziente fede dei figli.

4. Che il “ritorno”, più che la categorizzazione di un segmento di viaggio, sia una categorizzazione valorizzata – qualcosa che abbia più a che fare con un apparato simbolico che con la programmazione di un itinerario –, è testimoniato anche dal caso invero curioso de Il ritorno di Joe Dakota. Si tratta di un film diretto da Richard Bartlett nel 1957 e interpretato da Jock Mahoney e da Luana Patten. Il curioso – e il significativo – sta nel fatto che, in lingua originale non si intitolava affatto così, ma, più semplicemente, Joe Dakota. Il “ritorno” gli è stato appiccicato su dai distributori italiani per conferirgli un che di epicità – un’uscita dal dramma, l’accumulo di un’attesa collettiva e la sua catartica soddisfazione – che, nella sua modestia, si guardava bene dal pretendere.

5. Resta un problema che Bigalli pare non porsi o dare per scontato. In ragione del fatto che, presumibilmente, un racconto dovrebbe essere accolto o meno in rapporto al grado della sua coerenza – il racconto di ciascuno di noi come il racconto del re defunto che torna a guidare il suo popolo –, c’è da chiedersi – davvero – perché mai tutti questi racconti bislacchi e squinternati trovino credito, anche, a volte, più di quanto credito non trovino racconti tutti a-modino (si pensi agli appassionati “creazionisti” che si rifiutano di credere alla teoria dell’evoluzione), e riescano addirittura a smuovere intere collettività con tutto il poco di buono che da questi smuovimenti ne può conseguire. La tesi dell’impostore che s’impersona nell’oggetto della sua impostura – fino a credersi ciò che sa di non essere – può anche essere estesa alle collettività che dei suoi servigi hanno strenuo bisogno. C’è un momento in cui tutti o quasi tutti sanno che si tratta di balle, poi c’è un momento in cui a qualcuno conviene non ricordarsene e finisce con il non ricordarsene davvero e c’è un momento in cui tutti o quasi tutti non sanno più che si tratta di balle o, il che è lo stesso, non si chiedono più se di balle o meno si tratta. Ma – ci giurerei – c’è sempre comunque qualcuno che – che si tratta di balle – lo sa benissimo. Ma tace.

Felice Accame

Nota
Il ritorno del re di Davide Bigalli è pubblicato da Bevivino editore, Milano 2011. Il riferimento a Tolkien, ovviamente, non è casuale. In appendice, infatti, Bigalli “ospita” un breve saggio di Igor Comunale, intitolato Gli spazi del racconto: il re vittima e salvatore in J. R. R. Tolkien e Frank Herbert e dedicato alle attese messianiche nel racconto fantastico.