Rivista Anarchica Online


rifiuto del lavoro/2

Lavoro? No grazie! Ovvero: la vita è altrove
di Alberto Tognola

Le Edizioni La Baronata di Lugano hanno pubblicato, con questo titolo, un bel libro. Ne pubblichiamo alcuni stralci.

 

Dall’introduzione

Fare niente è la cosa più difficile al mondo
Oscar Wilde

Ma perché si dovrebbe fare niente? Perché facciamo troppo!

Oggi, al mondo non c’è carenza di cose. Anzi, esiste una tale abbondanza di beni materiali che rischia di affogarci e sarà con grande probabilità il motivo per cui gli storici del futuro battezzeranno il nostro tempo “l’epoca dei rifiuti”.
L’appello alla (ri)scoperta dell’ozio è quindi più che urgente.
L’ozio è una cura radicale contro numerosi mali tipici del mondo moderno: l’enorme spreco di risorse per produrre beni per lo più inutili; il consumismo sfrenato quale surrogato di felicità; l’alienazione e lo sfruttamento nel lavoro salariato; l’inquinamento dell’ambiente e della mente; l’assurdo attivismo quale fuga da se stessi che ci rende perennemente a corto di tempo…
L’ozio è un formidabile antidoto a tutto ciò: è ecologico, parsimonioso e appagante, libera tempo aprendo spazio alla convivialità e alla creatività.
Ovvia caratteristica dell’ozio è la sua opposizione al lavoro, all’attività fisica. Questo testo si soffermerà perciò a lungo sul tema del lavoro: sull’evoluzione del concetto nel corso dei tempi, sulla sua sostanza e sulle forme di opposizione allo stesso, come il rifiuto puro e semplice, fenomeno questo che ha assunto aspetti di massa negli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso. Ciò avverrà per mezzo di citazioni, slogan, disegni, poesie, ecc. Si tratta, in buona parte, di testi ironici, sarcastici, espressioni di rabbia, parodie, esagerazioni. Cose che, divertendo e/o provocando, aiuteranno forse meglio di una disquisizione troppo seriosa a rendersi conto di quanto sia assurdo e socialmente controproducente lo stile di vita che la maggior parte di noi conduce. Ma per chi fosse ancora del parere che “il lavoro nobilita”, non potrò fare a meno di riportare situazioni, fatti e descrizioni provanti che il lavoro immediatamente nocivo, imbecille e massacrante esisteva ancora negli ultimi decenni del XX secolo e continua ad esistere.
Oggi, in tempo di crisi del sistema di produzione di merci (in difficoltà a trovare nuovi sbocchi per l’enorme massa di merce prodotta con poca forza lavoro) – non certo crisi di ricchezza sociale globale (che è immensa… ma scremata da pochi) – il presente testo è più utile che mai: se, 40 anni fa, esso poteva “far piovere sul bagnato”, ora ciò che racconta e riporta alla mente evidenzia come la via d’uscita giusta e praticabile – perché i mezzi tecnici, le potenzialità intellettuali e la necessità sociale ed ecologica sono presenti come in nessun’altra epoca storica – sia: lavorare tutti, ma tutti molto meno, per soddisfare i bisogni fondamentali dell’intera umanità. Se la lettura di queste pagine riuscirà a motivare alcune lettrici a immettersi, per quanto possibile, sulla via dell’ozio, al piacere ricavato scrivendole si aggiungerà la soddisfazione di avere compiuto qualcosa di utile.

Alberto Tognola
Lavoro? No grazie!
Ovvero: la vita è altrove

pp. 304 Euro 16,50

Richieste a:
Edizioni La Baronata
Casella postale 328 – CH-6906 Lugano
baronata@anarca-bolo.ch

Dal testo

Lavoro o attività?

A questo punto occorre sgomberare il campo dalla grande confusione concettuale che avvolge oggigiorno il termine “lavoro”. Dovrebbe essere ovvio che lavoro non è sinonimo di fatica, anche se la implica. Una certa quantità di fatica è insita in qualsiasi attività – anche in quelle più immanenti al fatto stesso di esistere – questa è una legge fisica inaggirabile. Ma il punto non è questo. L’uomo ha sempre avuto un rapporto ambiguo con lo sforzo fisico. (...)
Da un lato è naturalmente portato a ridurre la difficoltà che deve affrontare nello svolgere una data attività, e ciò potrebbe essere una delle cause dell’origine e dello sviluppo della tecnica.
Uno dei primi principi fisici inconsapevolmente seguito per diminuire la fatica, sarà stato verosimilmente quello della leva, un fantastico ausilio tecnico funzionante al giorno d’oggi come millenni di anni fa. Da un altro lato, l’uomo non ha mai disdegnato la fatica, quando essa era immediatamente diretta a soddisfare un suo desiderio o a ottenere un vantaggio immediato per sé o per i suoi: raggiungere un frutto su di un ramo lontano, costruire un riparo dalla pioggia o una piroga per andare a pescare o solo per attraversare il fiume, fabbricarsi un arco per cacciare con maggiore efficacia (qui le due tendenze si sovrappongono), intagliare un ramo cavo per regalarsi un flauto, cucirsi un bel perizoma per proteggere i genitali, cercare erbe e terre con cui ornarsi il corpo ecc.

Alberto Tognola
in un disegno di Sceghi

Anche l’attività sessuale volta a procurarci l’orgasmo implica un gran dispendio d‘energia, eppure l’affrontiamo con gioia. L’uomo delle società tecnicamente avanzate, che ha sempre meno bisogno di compiere sforzo fisico per guadagnarsi da vivere, che aborrisce la fatica e snobba i mestieri che ne richiedono (accettando per contro lo sforzo intellettuale insito in molteplici attività lavorative moderne), ricerca la fatica volontariamente, quasi come un piacevole diversivo, un benefico compenso: scalando montagne, correndo in bicicletta, macinando in piscina vasca dopo vasca o, più prosaicamente, sudando come una fontana in palestra “per tenersi in forma”.

L’attività sentita come obbligo, dovere, imposizione, costrizione, necessità ineludibile, questa è lavoro. Tento di illustrare ciò con un esempio personale. Io faccio tante cose che mi tornano utili e facendole ne traggo soddisfazione: curo l’orto per procurarmi la mia verdura, poto alberi da frutto per mangiare mele e susine sane, taglio piante per ricavarne legna da ardere, riparo vecchi muri a secco perché non franino… Mai, però, farei queste cose per altre persone a pagamento, perché in quel momento tali attività muterebbero natura, svilirebbero in lavoro perdendo per me qualsiasi fascino.
Quando la vita segue il principio del gioco e del godimento, o l’innata pulsione creativa, l’attività che ne consegue è positiva, salutare sia per l’individuo che per la collettività.
Questa profonda spinta naturale (il gioco è una costante anche nell’apprendimento alla vita degli animali) si manifesta esemplarmente nei bambini, che possono passare ore, fino allo sfinimento, a spingere una slitta su per un pendio dal quale scendere poi urlando di gioia, a sguazzare nell’acqua sollecitando anche il più piccolo muscolo del corpo, a costruire e ricostruire con pazienza da Sisifo castelli di sabbia. E lo scaltro genitore ben riesce a sfruttare questo piacere per l’attività ludica per portare il figlio-bambino a compiere suo malgrado un lavoro, ché se chiesto con questo termine incorrerebbe nel rifiuto o nell’obbedire controvoglia.
Lavoro e libera attività si possono descrivere anche con altri concetti o immagini. Svolgere un’attività per procurarsi i soldi per comperare i mezzi con cui soddisfare bisogni per lo più indotti – la tipica modalità a cui s’è ridotta l’iniziativa individuale nella società capitalistica – questo è lavoro, per leggero e piacevole che possa sembrare; darsi da fare in prima persona per carpire alla natura il necessario per campare decentemente, questo non è lavoro, anche se implica fatica.
Oppure: raccogliere bacche, catturare un cervo, fabbricarsi delle ciabatte, produrre le proprie patate, dedicarsi alla pittura o al cucito non è lavoro; cogliere o produrre una cosa qualsiasi, vendere le proprie abilità manuali, la propria capacità intellettuale, la propria fantasia per procurarsi i soldi con cui acquistare frutta, carne, vestiti, verdura, libri, CD o quadri, questo è lavoro.

O ancora: vendersi per un salario è lavoro. Il fatto di essere costretti a lavorare non può produrre piacere o solo un suo infido surrogato, indipendentemente dalla “qualità” della mansione svolta.
Purtroppo, nell’attuale organizzazione sociale finalizzata alla produzione di merce, profitto e potere, le due distinte caratteristiche dell’intraprendenza umana si sono confuse o, più precisamente, l’attività lavorativa, eterodiretta, resa subdolamente necessaria al soddisfacimento di sempre nuovi falsi bisogni, ha fagocitato quella ludica, il termine “lavoro” è ormai sinonimo di “attività”.

E se il lavoro piace?

Non si può fare all’amore dalla mattina alla sera, per questo hanno inventato il lavoro

Il motto sotto il titolo allude alla funzione del lavoro quale surrogato della sessualità: libido repressa, carenza affettiva, difficoltà relazionali ecc. possono “efficacemente” essere compensate attraverso il lavoro e indirettamente attraverso i consumi che esso rende possibili. Sublimazione e compenso riescono a tal punto a snaturare il principio del piacere quale fondamentale fine della vita, da confonderlo con il lavoro, cioè con la maniera più sicura di passare a lato della vita.
Che il lavoro piaccia a molta gente è purtroppo vero. Da parecchi decenni la medicina ha coniato il termine “workaholic” per designare una vera e propria malattia psico-fisica, quasi una pandemia persistente, che affligge tanti individui d’ambo i sessi dipendenti dal lavoro come si può essere dipendenti dalla droga, dai medicinali, dal fumo o dall’alcol.
Una categoria particolarmente affetta da questo morbo è quella dei quadri superiori, manager, direttori, amministratori delegati di SA e multinazionali.
(...)
Fuori dalla letteratura, nella società reale esiste – oltre alle élite dirigenti, la cui malattia da lavoro può trovare una forte giustificazione materiale (ricchezza e potere) – una schiera più numerosa di persone d’ogni ceto affette da una sindrome ideologica altrettanto micidiale; alludo a chi vede nel lavoro l’unica via degna di essere praticata per garantirsi la sopravvivenza, assumendolo nel contempo quale mezzo per realizzare l’illusorio sogno di emulare le suddette élite.
A parziale discolpa di chi vede nel lavoro un valore positivo va considerato il triste fatto che, troppo spesso, il mondo del lavoro rappresenta per la singola persona l’unica maniera di socializzare: vedere altra gente, stringere amicizie, partecipare a eventi vari, conoscere altre realtà, superando così la ristretta sfera della vita familiare.
Non va comunque scordato che solo in casi rari si può veramente scegliere per impulso proprio una professione che piaccia o soddisfi. La libertà di scelta è sempre limitata dall’offerta altrui. I mestieri sono prestabiliti ed i giovani vengono per lo più influenzati da genitori, maestri e orientatori professionali in base alle necessità congiunturali dell’economia o dello Stato. Oltre che influenzata, la scelta è inoltre obbligata: la società attuale chiede ad ognuno/a di sottoporsi al lavoro salariato.

Liberarsi dal lavoro significa quindi anche liberarsi da quest’obbligo di scegliere tra finalità altrui, acquistando la possibilità di agire secondo le proprie pulsioni..


Dalla conclusione

Il turista e il pescatore

Concludo il mio testo con una parabola che riassume tante sfaccettature di un modo di vivere e di pensare positivo, responsabile e sostenibile: sottrazione alla logica del mercato e del consumismo, sintonia con i ritmi naturali, sobrietà, attività autonoma, padronanza dei mezzi di sostentamento e, non da ultimo, rifiuto del lavoro salariato.

A metà mattino, l’industriale tedesco in vacanza nell’isoletta greca trova l’amico pescatore seduto sulla veranda di casa che osserva il mare e le navi che vi passano lente e silenziose.
- Buon giorno Kiriakos. Non lavori oggi?
- Sì, ho già finito.
- Come, sono appena le nove e mezzo!
- Finito, ti ho detto. Oggi il mare è stato generoso. Ci ho messo poco a riempire la rete.
- Ma quanto pesce prendi?
- Quanto basta alla mia famiglia e per alcuni anziani che non escono più a mare.
- Dovresti pescarne di più.
- Per che farne?
- Per venderlo e guadagnare più soldi.
- E perché?
- Per comperare una barca più grossa, con la quale puoi pescare ancora di più.
- Ah. E perché?
- Così potresti recarti sul continente, vendere ai molti ristoranti e negozi della città. Fare più soldi e arredare la barca ancora meglio. Così guadagneresti ancora di più.
- Ah. E poi?
- Fra una decina d’anni potresti assumere alcuni marinai che lavorano al tuo posto.
- Ed io, che farei?
- Te ne staresti tranquillo in veranda ad ammirare il mare.
- Ah. Ma quello lo faccio già ora!

Alberto Tognola