Rivista Anarchica Online


attenzione sociale


a cura di Felice Accame

 

Quelli
a cui piace
e quelli

a cui non piace

 

1. C’è una fase molto precoce, nell’educare i nuovi venuti – dico i nuovi venuti al mondo –, in cui al “mi piace” o “non mi pace” vien fatto seguire – come fosse un moto ineluttabilmente obbligatorio dello spirito collettivo – il fatidico “è bello” o “non è bello”. Dopo di che i giochi sono fatti – la pallina della roulette della vita – e non solo di quella “estetica” – è diventata insindacabile, determinata e deterministica, caposaldo e riproduttrice di certezze. Vero – e utilmente vero – sarebbe giusto il contrario. Il “mi piace” qualche ragione l’avrà – qualche ragione che al soggetto in questione sfugge, o da cui rifugge. Da qui l’analisi dovrebbe prendere le mosse, non concludersi. Se si rinuncia – se si lascia perdere, se ci si accontenta –, il passaggio alla dogmatica assegnazione del “bello” o del “non bello” a questo e a quello diventa automatico: il gusto di chi gode della maggior autorità si impone su chi questa autorità subisce, che, da attivo e partecipe come avrebbe potuto essere, si trasforma – e definitivamente, spesso – in passivo consumatore. Così è nei confronti di una narrazione, di una poesia, di un dipinto, di una composizione musicale. Chi si ferma al “mi piace”, insomma, e chi, poi, passa facilmente al “bello”, assevera molto di più di quanto creda – e soprattutto assevera molto di più di quanto creda attinente all’opera d’arte.

2. Apparentemente, con Quelli cui non piace (Meltemi, Roma 2009), Francesco Muzzioli sembra circoscrivere la propria argomentazione alle ragioni della crisi della critica letteraria, ma, non dovendosi portare sul gobbo né un proprio potere specifico né il potere che contraddistingue l’esercizio della critica in genere, in realtà esorbita – liberamente affonda il bisturi nella sostanza malata del letterario e delle sue dinamiche pubbliche, liberamente riconduce questo letterario al politico che – nella stolida inconsapevolezza dei più e nella torva complicità dei meno – l’ha generato.

3. Riassumo pro domo mea. La quantità di romanzi che si scrivono e che, di riffe o di raffe, vengono pubblicati è sospetta. Anche la quantità dei romanzi che si leggono è, in fin dei conti, altrettanto sospetta. È sospetta la fiction, è sospetto il docu-fiction – la moltitudine di finzioni, ogni ibrido di storia e romanzo, di cronaca e analisi sociologica. È sospetto il modo con cui le persone si trasfigurano in personaggi, o viceversa. È sospetto il modo di parlarne – come quando qualcuno, a fronte di un film, o di un romanzo, non trova di meglio – non sa trovare di meglio /verrebbe anche voglia di dire: “non sa più trovare di meglio”) – che raccontarcene la trama. Dimenticando, come dice Muzzioli, l’intero “procedimento” tramite il quale a questo presunto “contenuto” si è giunti.
È sospetto tutto l’ambaradam letterario. Ma sospetto di che?

4. Di non aver ben chiaro e di non pensarci nemmeno di averlo ben chiaro quel “carattere di feticcio della merce” né, tantomeno – figuriamoci – il “suo arcano” – parafrasando un titolo del Capitale di Marx (Libro primo, sezione prima, capitolo primo, paragrafo 4) – trattandosi qui, sia inteso, di merce “culturale” o, circoscrivendo ulteriormente, di merce “estetica”, quella, per l’appunto, sottoposta alla gogna sociale del “mi piace/non mi piace” pena la sua dissoluzione nella memoria valorizzata.
Non la si prenda alla leggera: dar del feticcio all’estetico implica assunzione di responsabilità politica di non poco conto. La trasformazione in feticcio significa l’assegnazione di un “alone quasi-magico” o “religioso” alla merce artistica e l’assegnazione successiva a questo – che è già un bel pasticcio – di un “arcano” – ovvero di uno stato di occultaggine, di segreto, di misterioso e di protettivo (dal greco “arkèo”, proteggere, come l’Arca di Noè doveva proteggere dal Diluvio – non fa che peggiorare le cose. Per il critico e per chi, del critico, fa le spese.

5. Non solo. Sospetto anche che, fermo restando che la committenza esplicita di un prodotto estetico – la Chiesa, il mercante d’arte o la casa editrice, la Fiat: tre esempi storici di committenti espliciti – già di per sé svergogna l’opera d’arte e il suo artefice riducendoli all’osso della rispettiva natura consumistica –, nessuna volontà – e nessuna capacità, a questo punto – possa neppure esserci per svelare, di quel procedimento, la committenza implicita, ovvero tutto quel quadro ideologico che presiede – governandone – alla formazione di un’idea, alla scelta del linguaggio per esprimerla ed alle modalità della sua confezione per il suo trionfale ingresso nel mercato.

6. Muzzioli è pienamente consapevole della fatica che implica l’approccio al testo – come è pienamente consapevole – amaramente consapevole – di ritrovarsi, oggi, quasi orfano della critica di un tempo – quella che, pur con la dotazione minima di un apparato pre, strutturalistico o post, non privo di difetti, perlomeno, analizzava, si dava da fare, cercava di spremere il testo affinché ne sortisse il più possibile del recondito. Diciamo che la riflessione del linguaggio – il primo passo per affrontare un testo – ha segnato una battuta d’arresto: che la strada, forse, non era quella giusta; che il peso della filosofia gravava ancora eccessivamente; che la necessità di un modello dell’attività mentale alla base della produzione dei segni – un’idea di come mettere assieme i linguaggi e il pensiero che essi designano – è stata sentita ma non ha trovato soluzioni convincenti. Ma diciamo anche che quella protezione mistica dell’oggetto dell’analisi lo ha reso immune da qualsiasi analisi. Lo spaccio di ineffabilità – del bello, del bene, del linguaggio stesso – andrebbe perseguito per legge.

7. Kant affermava che “del gusto non si può disputare, ma sul gusto si può contendere”, ma Muzzioli non ci casca e, essendo ben conscio di quanto non si possa “contendere senza disputare”, ridefinisce il problema – che ritiene “comune a tutti i conflitti “democratici” – come quello di “trovare la base su cui discutere”. Come dargli torto? Il minimo di onestà intellettuale, infatti, esige che ci si dia da fare – accettandone il rischio – a formulare criteri in virtù dei quali entrare nel merito del “mi piace” e del “non mi piace”, evitando di assumere atteggiamenti normativi nei riguardi di cosa deve – universalmente, ahinoi, perfino “universalmente”: a tanto giungono le pretese dei dogmatici culturali (perlopiù razzisti fascisti) – essere considerato come “bello” o “non bello”.

Felice Accame