Rivista Anarchica Online


controllo sociale

La società disciplinare
di Salvo Vaccaro

Mimesis ripropone, dopo oltre tre decenni, la (nuova) traduzione italiana di un libro ormai “classico” di Michel Foucault.
Ne pubblichiamo qui l’introduzione del curatore.

 

Ripubblichiamo, a distanza di oltre trent’anni, e in una traduzione rivisitata e comparata con gli originali nel frattempo determinati da Daniel Defert e François Ewald nei volumi dei Dits et écrits, buona parte delle interviste e dei brevi scritti di occasione di Michel Foucault che furono raccolte e edite col titolo Dalle torture alle celle per i tipi di Lerici in Cosenza, libricino ormai introvabile. Nel tempo, alcuni di quei testi sono stati ripresi e ritradotti
nel corpus dell’Archivio Foucault dell’editore Feltrinelli o in altre raccolte più recenti. È questa la ragione per cui non compaiono nelle pagine che seguono. In compenso, abbiamo proceduto ad una integrazione con altri brevi scritti che, per coerenza tematica e temporale, ci sono sembrati in linea con il fil rouge che li legava e li lega tuttora.
Si tratta di testi la cui stesura risale agli anni Settanta del secolo scorso e che vedono, come perno intorno a cui ruotare, Sorvegliare e punire del 1975. L’oggetto è pertanto la prigione, mentre la trama concettuale sottesa è il dispositivo disciplinare che contrassegna, secondo Foucault, una precisa
epoca storica della vita europea ma che rimbalza tanto nel presente, in un particolare tempo-soglia di quel presente, quanto in uno stile di dominio nel mondo occidentale che si alimenta di specifici e puntuali rapporti di potere, analizzati da Foucault stesso in quella straordinaria ricerca. Va altresì detto che i testi ricompresi in questa collezione divengono più compiutamente leggibili attraverso la documentazione di un impegno, militante e intellettuale insieme, che ha contraddistinto l’esistenza di Foucault in quel decennio. Chi scrive ne ha dato ulteriore testimonianza in altre due occasioni editoriali, la prima presentando al lettore italiano buona parte dei materiali che il GIP – il Gruppo di informazione sulle prigioni animato da Foucault unitamente ad altri militanti e intellettuali francesi – produsse nel biennio della propria vita associativa e la cui eco sopravvive nei testi qui di seguito raccolti; la seconda offrendo uno spaccato dell’engagement del filosofo francese sui temi della giustizia e del diritto in circostanze drammatiche per il conflitto sociale o
per il destino dell’Europa e del pianeta, in quegli anni (col senno di poi) conclusivi della guerra fredda.
La distanza di anni dalla stesura degli scritti e delle interviste foucaultiane consente diverse prospettive di lettura, ora legate al nesso, sempre fallace, tra pensiero e vita; ora legate al rapporto intricato e talvolta disgiuntivo tra libri, ricerche, corsi universitari ed esperienze che tutto il resto alimenta; ora legate al diagramma analitico funzionale ad una specifica interpretazione del presente; ora legate all’oggetto stesso delle analisi su cui si focalizzava, a quell’epoca, l’interesse intellettuale e passionale di Foucault.

Analisi e denuncia del potere

Naturalmente, non è possibile rintracciare una sovrapposizione pedissequa tra vita e pensiero, ma se c’è un autore che è riuscito a smentire in maniera poderosa la bipartizione cartesiana tra mente e corpo, questo è Foucault. Esito delle operazioni del pensare e moti del corpo, non solo attraverso le sue articolazioni fisiche, ma anche con gli stati cangianti di intensità che, a loro volta, reincarnano desideri e istanze emotive nella flessione del corpo e del cervello come luogo del pensiero, precipitano infatti in prese di posizione corporee e intellettuali all’unisono. Ne sono testimonianza i numerosi atti attraverso i quali Foucault ricongiungeva analisi e denuncia del potere, giusto per citare un campo di accesa conflittualità scelto secondo i contesti in cui di volta in volta si muoveva, senza rinunciare a “nominare” il potere (l’allora Ministro della giustizia René Pleven, ad esempio, o il dittatore Franco in Spagna), fuor di ogni astrazione paralizzante, ma fuor altrettanto di ogni trappola di sua legittimazione, stando così attento a non confondere il sistema anonimo che lo perpetua con chi pro tempore lo esercita in suo nome.
È ormai assodato come, a proposito di Foucault, non sia possibile rinvenire una sovrapposizione né tematica né temporale tra i corsi al Collège de France e i suoi libri. Ovviamente non c’è nemmeno una estraneazione assoluta, però è evidente come i corsi acquistino una specifica autonomia di ricerca, nella tipica fluidità di una erranza in un territorio da conoscere muovendo da alcune ipotesi di movimento affatto lineare, che sovente solo in parte confluisce nella strutturazione più solida di un volume. Quest’ultimo, poi, perviene alla fine a condensare in genere un lungo percorso nella cui trama diviene leggibile il portato dell’esperienza, non meramente narrata bensì filtrata dalle categorie genealogiche attivate in funzione di uno scatto innovativo nell’ambito di un sapere che spieghi altresì non solamente i deficit di astrazione teorica o storica rintracciabili nell’archivio già depositato, ma anche le impasses politiche che si sono succedute e su cui si arrovella un pensiero interrogante tanto i processi analitici, quanto le pratiche di incidenza e di trasformazione.
Altrettanto di facile lettura, sia pure non dell’ordine della semplice simmetria, è il nesso tra esperienza politica sul campo e ricerca enunciata nei corsi, nel quale viene a esaltarsi, per così dire, quel principio di orientamento dell’uso strategico del pensare che Foucault rilancia continuamente tra i due ambiti, rendendosi attore mercuriale sia dell’effetto politico di una esperienza militante, mediata senza piatta cecità dalla ricerca teorica, sia del taglio analitico di una particolare teoria fatta rimbalzare sul piano ostico della decifrazione di un fatto sociale reale (che sia la follia, la prigione, la sessualità). Così, per restare nei limiti dell’arco di tempo degli scritti qui ricompresi, non occorre un grande sforzo filologico per registrare una eco di consonanza tra l’impegno sul fronte delle carceri, che dalla fondazione del GIP nel 1970 si prolunga sin oltre la stampa di Sorvegliare e punire, con il contenuto della linea di ricerca originale che istituzionalmente Foucault doveva riportare nelle dodici lezioni per anno di “Storia dei sistemi di pensiero”, come si denominava la sua cattedra al Collège de France, concernente per l’appunto le teorie e le istituzioni penali (1971-72), la società punitiva (1972-73) e il potere psichiatrico (1973-74), sino a sfociare infine nel testo organico del 1975.
Indubbiamente, non tutte le esperienze di pratica discorsiva si traducono pedissequamente in una discorsività pratica, e viceversa; pur essendo due volti della stessa medaglia, muta la regionalità del loro baricentro. Tanto la pratica esperienziale, quanto la ricerca teorica tessono una trama che si rafforza a vicenda, anche per quanto riguarda quegli aspetti che non trovano risposta né nell’una, né nell’altra, depositandosi in un serbatoio di memoria, magari ripreso successivamente al momento della stesura del libro che non riassume ma rielabora, risistema e riorganizza, con scarto talvolta eccezionale, i materiali man mano accumulatisi e stratificatisi secondo una pregnanza di senso ora mantenuta, ora abbandonata, ora corretta, ora rilanciata su altri piani, verso altre linee di scavo.

Michel Foucault

Tecnologia politica del corpo

Proprio l’intersezione tra vita del pensiero, enunciata nei corsi e nei libri, ed esperienza di vita, manifestata soprattutto sulla strada e nelle piazze, delinea i contorni di una griglia analitica quale la disciplina. Più che un paradigma, un diagramma concettuale e discorsivo insieme, capace di rendere visibili i nessi sottesi che reggono la configurazione sociale di un dato periodo storico, la loro linea genealogica ed evolutiva nelle discontinuità salienti, ma capace altresì di rendersi duttilmente utilizzabile per evocare una presa di parola, di posizione, nell’oggi del tempo della lettura o dell’ascolto. L’impronta disciplinare caratterizza una particolare società al di là delle istituzioni che la sostengono e la rilanciano, ciascuna delle quali ha una storia ed una funzione propria non assimilabile all’altra; tuttavia, esse inverano la disciplina quale tratto costitutivo in quanto rispondente con successo ad una serie eterogenea di istanze di dominio il cui principio identitario è una sola e unica morfologia del sistema di potere, come sottolinea lo stesso Foucault, che in diverse sfere del vivere associato cerca di ricomporre un ordine andato in disfacimento. La fabbrica, la prigione, la scuola, l’esercito, l’ospizio manicomiale, rappresentano apparati istituzionali diversi, sorti nell’alleanza micidiale della ragione di stato e del capitalismo industriale, delle strategie e delle tattiche di governo razionale della società, o governamentalità nella crasi foucaultiana, in competizione convergente al fine di assicurarsi una egemonia nella piramide delle gerarchie di potere, ovvero una salienza privilegiata tra gli snodi di un tessuto sociale da preservare nella sua unità. Per contro, tali apparati restituiscono e conformano al contempo dei saperi differenti, ciascuno dei quali dovrà faticare a rendersi autonomo determinando linee sicure di confine, omogeneizzando le categorie costitutive al proprio interno ed espellendo altre forme del sapere non coerenti, con l’intento di marcare ciò che in modo altrettanto significativo viene definito con “disciplina”.
Il modulo disciplinare coniuga inoltre la progressiva emergenza dell’individuo come soggetto portante della modernità, sul quale si precipitano le preoccupazioni legate, da una parte, al destino della sua anima, ormai orfana della struttura trascendentale della coscienza ma non del tutto emancipatasi dallo stato di minorità sotto cui riassoggettarsi una volta restaurato l’ordine disciplinare della soggettività unitaria; dall’altra, alla potenzialità del corpo liberato dall’asservimento schiavistico, al quale si offre una dimensione proprietaria che dissimula abilmente l’appropriazione come gesto di violenza inenarrabile quale atto fondativo della società borghese: dietro al catalogo dei diritti di proprietà che attivamente costituiscono l’individuo quale soggetto della storia, si cela una tecnologia politica del corpo, come dice Foucault, cioè l’impianto della sua cattura nella trama vischiosa dei ruoli e delle funzioni sociali, mediate o meno, che lo assoggettano alle nuove istituzioni nelle quali la libertà è fagocitata nella interiorizzazione delle pulsioni di dominio.
La disciplina diviene pertanto il nome topico di un movimento strategico proteso a rappresentare un soggetto docile, riducibile e riconducibile all’ordine, soprattutto addomesticabile sino a insinuare l’auto-appropriazione della mossa di cattura nell’ordine dominante: il suo nome è abitudine, proprio nel senso humeano del termine. L’interiorizzazione spirituale della disciplina è il presupposto logico di transizione a quelle che oggi vengono definite società di controllo, con soluzione di continuità nei confronti degli apparati e dei discorsi, ma nella saturazione ideale degli spazi ordinati entro i quali guidare le società sotto il modello pastorale. Indubbiamente, cambia la scala, cambia soprattutto lo sguardo della cura, che passa dall’individuo nella sua singolarità, all’insieme del gregge addomesticabile; ma tale sfumatura percettiva non può farci smarrire la marcatura del singolo all’interno della massa, tanto più efficace quanto essa è auto-assegnata dopo lunghi tempi di apprendimento e di esercizio disciplinare, rafforzato dalle strutture di socializzazione.
Il diagramma disciplinare, però, non si limita a trovare nel topos carcerario uno dei punti cardinali di applicazione nell’era moderna. La sua plasticità serve a Foucault non solo da bussola per orientare la propria attività militante, ma anche da criterio analitico per cogliere le torsioni che storicamente sono leggibili sia sul piano del topos carcerario stesso, sia sul piano della società degli anni ’70 del secolo scorso. Foucault matura la nozione di disciplina nei due corsi sulla società punitiva e sul potere psichiatrico, per poi trovare una sistematizzazione nel libro della genealogia storica della prigione. Ma a ben leggere le interviste e gli scritti occasionali di quella prima metà di decennio, così come i materiali prodotti collettivamente dal GIP, molta attenzione ed enfasi viene data ad una prassi allora emergente: quella della società della sorveglianza e del controllo.
Senza una netta cesura dall’istanza disciplinare, Foucault si dimostra pronto a cogliere le novità emergenti, post-sessantottine, tramite le quali le opulenti società borghesi reagiscono alla rivoluzione mondiale dell’ethos che convenzionalmente denominiamo il 1968. Intrecciando prigione corporea dell’anima e adattamento spirituale del corpo, il carcere diviene la soglia di interscambiabilità e interpenetrazione tra controllo della società di massa e cattura singolare del soggetto assoggettante/assoggettato; la sorveglianza carceraria si dilata all’intero corpo della società, senza dubbio attraverso altri canali di estensione e di pervasività, introducendo una diversa tecnologia politica che, da lì a qualche anno, si sarebbe anche avvalsa di vere e proprie tecnologie innovative, quali ad esempio la biometria, la biogenomica, i controlli satellitari a distanza, i circuiti di telecamere dispiegate sul territorio, l’identificabilità degli spostamenti di masse corporee grazie agli infrarossi rilevanti spettri di calore, le tracce residue lasciate dalle onde elettromagnetiche dei nostri cellulari, e via continuando.

Linguaggio di denuncia

Dall’individuo al gruppo, e ritorno, le strategie di sorveglianza modificano tanto le istituzioni, quanto i saperi corrispondenti, smantellando vecchie strutture gerarchiche a favore di reticolati vischiosi e partecipativi ai quali legare le geometrie variabili degli spazi di libertà, sempre più sganciata dalla pars destruens della sottrazione emancipante, cioè della liberazione. È il passaggio intravisto dalla legge alla norma, dalla sorveglianza al controllo, dalla mera repressione alla cura assistenziale, dalla politica alla governance amministrativa. La prigione non si esime da tale riconfigurazione, ed oggi è possibile misurare la distanza ormai quasi quarantennale dai tempi in cui viveva Foucault ai tempi odierni.
Ad un primo approccio, balzano alla vista gli innumerevoli rinvii ad un linguaggio di denuncia che, pur sforzandosi di non appiattirsi sull’ideologia quale vettore linguistico privilegiato dell’epoca, rivela assonanze e contiguità con formule sociologiche, quali il proletariato, la plebe, che persino in tempo reale accesero discussioni a non finire. Tuttavia, al di là dell’effetto di superficie nella lettura, Foucault ci conduce verso le trasformazioni visibili e meno visibili non solo della prigione, rispetto a quella delineata nella ricostruzione genealogica del libro ad essa dedicato, ma anche della società che al suo interno la prevede, la incita e la usa in condizioni ben diverse da quelle dei secoli precedenti. Si tratta della mediazione concettuale che il metodo genealogico applica ad una mera visione del presente. Già tra le righe di Foucault stesso, il lettore delle pagine che seguono potrà intravedere la società post-panottica o sinottica che forse contraddistingue meglio questo tempo presente, distante decenni dagli anni ’70 del secolo scorso. Non è solo lo spettro della visione a mutare, ma l’autoinibizione volontaria che il potere dispiega in via seducente e non collidente per legittimare il controllo e gestire l’insicurezza costitutiva della individuazione di un nemico interno da controllare e reprimere. L’iceberg carcerario si rivela quindi come fase terminale di una istituzione di controllo oggi protesa a confinare in una pubblica (ma opaca) discarica diversi segmenti di umanità pericolosa non tanto da un punto di vista semplicemente penale o criminale, ma perché portatrice di pratiche e discorsi non conformi all’ordine costituito, per quanto incancrenito e nauseabondo per la sua fase declinante.
La società liquida di cui ci parla Bauman ha molto a che vedere con la società disciplinare di cui ci parlava Foucault, nonostante le evidenti differenze: il passaggio dalla nozione di individuo pericoloso a segmento di fascia di popolazione a rischio segna una discontinuità di gradiente ma non di qualità, sebbene sia innescata e inneschi effetti politici e sociali specifici. Lo sterminio per abbrutimento, per eccesso di moralismo, per espulsione sociale (la regola statunitense del terzo reato e poi si butta la chiave, a dispetto di ogni istanza di rieducazione, riabilitazione e recupero per giunta costituzionalizzata), la pretesa di neutralizzare non il crimine ma il criminale, la galera come deposito di contenimento al di qua e al di là della legge da applicare in ciascun caso concreto, segnano delle tappe involutive, se si vuole ragionare in termini di filosofia della storia, molto vicine alle idee, allo sguardo e persino alla lettera («pattumiera», ad esempio) che Foucault enunciava nelle interviste, il cui statuto all’interno della sua opera non va sminuito o sottovalutato.
Se pure cambiano le tecnologie politiche e tecniche a presidio dell’esistenza, della proliferazione e della riproduzione della prigione e del suo indubbio successo, ad onta di tutte le critiche morali, politiche e culturali, è anche vero che la difesa delle disuguaglianze sociali trova in essa un baluardo tuttora vivo, anzi diffuso ed esteso per l’intero corpo della società attraverso alcuni congegni elettronici che ottengono il medesimo risultato di controllo a distanza (braccialetti, schedatura genetica), economizzando i lati più oscuri e più sporchi che insudiciano con l’apparato la bontà della funzione. Segregare e internare convergono con le tattiche di discriminazione lungo numerose filiere di separazione e distinzione, anche grazie all’uso di gerarchie e verticalità morali che già Nietzsche stigmatizzava a fine Ottocento.
L’approccio di Foucault è radicale, letteralmente: valutando il riformismo alla stregua di un effetto di un rapporto di forze, quindi come prodotto secondario di una tattica, l’orizzonte culturale entro il quale porre la prospettiva carceraria si può definire prettamente in senso denegante, ossia farla finita con la prigione, così come allora montava un processo di critica sociale che avrebbe condotto a farla finita con il manicomio. Senza dubbio, questo approccio radicale bene si integrava in una aura post-sessantottina ancora densa di potenza radicale e di visione utopica. Il fatto che, a distanza di trenta e più anni, al di qua di una fatua nostalgia, il problema di farla finita con la prigione resti intatto nella sua drammaticità esistenziale e nella sua pericolosità umana, testimonia come sia necessario recuperare, rielaborare e rilanciare quell’engagement e quella radicalità prospettica di cui Foucault fu un portatore formidabile.

Salvo Vaccaro

Michel Foucault (1926-1984) ha insegnato Storia dei sistemi di pensiero al Collège de France di Parigi, i cui Corsi sono in costante via di pubblicazione. Tra i più celebri filosofi del Novecento, ricordiamo i suoi libri più noti e dibattuti: Storia della follia, Le parole e le cose, Sorvegliare e punire, Storia della sessualità (in tre volumi). L’intera produzione è racchiusa nei Dits et écrits, edita nel 1994 da Gallimard, parzialmente tradotta negli Archivi Foucault in tre volumi presso Feltrinelli.

Salvo Vaccaro insegna Filosofia politica all’Università di Palermo. Studioso di teoria critica e del pensiero francese contemporaneo, ha scritto Biopolitica e disciplina. Michel Foucault e l’esperienza del GIP (Mimesis, Milano 2005), insieme a Michele Cometa ha pubblicato Lo sguardo di Foucault (Meltemi, Roma, 2007) e ha curato di recente una raccolta di testi inediti di Foucault dal titolo La strategia dell’accerchiamento (:duepunti edizioni, Palermo 2009).