Rivista Anarchica Online


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Afferrare e registrare

Lo stile, come ricorda Marcel Proust, non è mai un abbellimento, come credono certe persone, non è neppure una questione tecnica, è – come il colore per i pittori, una qualità della visione, la rivelazione dell’universo particolare che ognuno di noi vede, e che non vedono gli altri. Il piacere di farci conoscere un universo in più, un tono, un colore, una forma. Parlare di forma oggi sembra quasi banale vedendo quali sono i contenuti che ci affliggono non solo in tv ma anche al cinema. La forma diventa essenziale e per comprendere la forma dobbiamo riflettere sui confini, sui modi, sulla ricerca.
Il cinema (almeno un certo cinema) non avrà mai fine. Soprattutto quello che sposta i confini dell’immaginario cinematografico sempre più in avanti, sfuggendo a qualsiasi definizione che lo chiuda in limiti e ambiti definiti. È per questo che è così importante e così odiato. Ma a parte il boicottaggio subito dai media di massa, ciò che gli può capitare, volendo essere pessimisti, è di fermarsi, di immobilizzarsi, di cristallizzarsi su forme codificate, dimenticando la sua vera natura, che non è quella di solo mostrare la realtà ma anche quella di interpretarla e saperla svelare nelle sue infinite forme.
Il cinema, nella sua forma più alta ha ormai dimostrato ampiamente la sua maturità, la sua capacità espressiva, la sua necessità. Si è discusso sulle forme, sulle intenzioni, sulle distanze, oggi tentiamo qualche elaborazione, qualche riflessione sui suoi confini, cioè su quel territorio di frontiera dove avvengono spesso le cose più interessanti e dove si sperimentano nuove forme e dove si può immaginare un futuro diverso.
Stare al confine, (di qualunque confine si tratti ) presuppone scomodità e necessità. Il cineasta consapevole sa che filmare dove non ci sono più certezze o sicurezze presuppone (oltre a un nuovo assetto produttivo) un ‘immagine in movimento, emozione creata da una libera creazione, dove è concesso perdersi negli estremi. (In Italia esiste questo cinema, anche se fa fatica ad essere visto. Due esempi su tutti: “Un’ora sola ti vorrei” di Alina Marazzi – “La bocca del lupo” di Pietro Marcello – tutti e due reperibili nella collana documentari della Feltrinelli). Cinema per tutti, comprensibile a tutti ma non accessibile a tutti. Bisogna andarselo a cercare, nessuno te lo propone, nessuno te lo presenta.
Cercare nei luoghi sconosciuti. Questa “condizione” cinematografica è necessaria per dare ad alcuni cineasti fuori linea la possibilità di vedere nel deserto delle metropoli, o negli spazi sterminati del deserto non solo la decadenza dell’uomo ma anche la sua sottile bellezza fino allora non scoperta né raccontata. Questa strada conduce a un notevole distacco dalla banalità del reale, fino a una zona del mistero, che la macchina da presa ha il compito (e io aggiungerei la vocazione) di afferrare e registrare. È esattamente a questo punto che vengono messe in gioco le qualità dell’autore, la sua disciplina intellettuale, la chiarezza della sua coscienza artistica. Unire insomma talento e intelligenza critica. È proprio quando si mettono in discussione i confini, le forme scontate, i facili modi che ci si trova a confrontarsi con la vera messa in scena, con l’elaborazione della forma. Le scelte tecniche non sono mai occasionali. Sono il risultato di percorsi, sguardi, convinzioni, anche d’infiniti dubbi. La ricerca di una definizione esaustiva di come affrontare e superare le barriere della forma artistica pre-costituita non è argomento facile da affrontare. Concepisco il lavoro del cineasta come elaborazione creativa del processo evolutivo della nostra epoca. Questo concetto lo hanno prima teorizzato, poi messo in pratica i grandi cineasti del secolo scorso. Lo riconoscono – anche se faticano a perseguirlo – i tanti cineasti dell’oggi. Ma non basta per superare i confini e trovarsi altrove, oltre. Saper superare il proprio modo di fare cinema non è cosa facile. Prevede coraggio, consapevolezza e credo anche una grande dose di follia.

Bruno Bigoni