Rivista Anarchica Online


 

Vicenza 1/
“Disertate, disertate!”

Il 16 gennaio 2007 Prodi dichiarò ufficialmente l’assenso alla costruzione della Base USA al Dal Molin. Subito dopo questa notizia circa 8 mila persone a Vicenza scesero in piazza e poi andarono ad occupare della Stazione. “Consapevoli che qualsiasi base militare è strumento di guerra,che le vittime della guerra sono sopratutto civili e bambini,che la guerra opprime e distrugge i popoli, si ritiene necessario costituire un comitato...”.
Dalla notizia della volontà di costruire la nuova base di guerra nel 2007 si è passati ad una raccolta di firme e subito un centinaio di persone hanno aderito con entusiasmo a questa idea di rimuovere dalla testa dei vicentini che la Caserma Ederle era lì dormiente, sorniona e tranquilla. La questione Dal Molin ha aiutato molto a risvegliare nelle coscienze dei cittadini vicentini anche una idea di contrapposizione alla guerra, non esiste cioè solo il problema territoriale della costruzione di una nuova base militare ma si è intuito che queste basi altro non sono che uno strumento di guerra.
Il Comitato ha quindi indetto alcune assemblee sulla Conversione delle Basi Militari ad usi civili avvalendosi di esperti autorevoli quali Andrea Licata e Luca Mercalli. Per rendere efficace l’intervento del Comitato nel territorio è nata l’iniziativa “Invitiamo i Soldati Usa a Tornare a Casa”. Ogni mattina per 2 settimane dalle 6,30 alle 7,30 del mattino un gruppo di manifestanti attendevano con striscioni e cartelli il ritorno dei soldati dal giro cittadino e li esortavano a lasciare l’esercito.
Sugli effetti di questa iniziativa si è saputo in seguito che alcuni soldati hanno lasciato l’esercito ma non ne conosciamo il numero che ufficialmente rimane sempre top secret. I volantini, le scritte e gli appelli sono sempre stati rigorosamente bilingue per essere compresi e ascoltati.
In luglio con Philip Rushton autore di Riportiamoli a Casa riusciamo ad invitare in Italia Chris Capps (attuale responsabile di Iraq Veterans Against the War per l’Europa). Chris è uno dei disertori che con il megafono invitano i soldati a disertare mettendosi davanti alle caserme e quindi gli organizziamo un tour nelle basi italiane e americane presenti in Italia. Si fa strada quindi l’idea che i migliori risultati contro queste guerre sia di agire tra i soldati invitandoli a dire no alla guerra. Ci facciamo raccontare la sua esperienza di come cioè sia riuscito ad uscire dall’esercito e da lui riceviamo la notizia che le nostre iniziative ma anche la grande manifestazione di febbraio ha prodotto nei soldati vari punti di domanda sulla loro attuale posizione e ha aiutato alcuni di loro a scegliere la diserzione e obiezione alla guerra. Tra questi James Circello che mette a disposizione diversi lettere di invito alla diserzione che vengono volantinate e portate in posti frequentati dai soldati americani.
Il Comitato, povero di risorse ma non di idee decide di lanciare una grande manifestazione internazionale che riceve centinaia di adesioni ma che da altri viene poi depotenziata facendola dopo il voto della finanziaria del “governo amico”, e di far sua la costituzione di un centro di ascolto per i disertori. L’occasione ci viene data dal conoscere ed avere a Vicenza, proprio durante questa grande manifestazione Internazionale contro la guerra di dicembre 2007, quando davanti alla Ederle assieme a Chris Capps si presenta anche Russell Hoitt (disertore della Ederle “vittima” dei nostri pressanti appelli). Anche per lui organizziamo assemblee nelle scuole e nei luoghi di lavoro, davanti alle caserme a Vicenza e in Italia. Interviene anche a vari convegni raccontando la sua esperienza di soldato e di uomo e del perché della propria scelta di disertare.
A questo punto è tutto pronto con Russell pianifichiamo l’idea di costituire questa linea telefonica informativa per i soldati che vogliono lasciare l’esercito. Il comitato per scelta pone la propria sede davanti all’ingresso principale della Ederle e si riunisce ogni mercoledì sera proponendo video filmati e volantinando agli automobilisti e ai militari che rientrano dalla libera uscita il no alla guerra.
Lanciamo nel febbraio 2008 SIRNOSIR HELPLINE. Un telefono cellulare con segreteria rimane a disposizione per quanti vogliano informazioni su come uscire dall’esercito senza dover subire la reclusione in carceri militari. La linea non rimane aperta ma chi chiama deve lasciare un recapito per venire contattato in seguito.
Questa iniziativa è supportata dalla rete di servizi per i diritti dei soldati presenti in Germania e negli Stati Uniti che, attraverso un servizio analogo di helpline fornisce assistenza ai militari disertori /obiettori. Poi si susseguono innumerevoli altre manifestazioni di disturbo: il 4 luglio 2008 davanti all’entrata della caserma Ederle per la festa americana con il rapper Steven Summers e una installazione contro la guerra: un centinaio di croci nel campo da calcio prossimo all’entrata. Sit-in di protesta e d’informazione davanti all’entrata del Villaggio Americano il 31 ottobre 2008 quando, tradizionalmente, la Caserma Ederle apre le porte del villaggio americano anche alle famiglie e bambini vicentini per la festa di Halloween. A fianco dei militanti del Comitato c’erano i due ospiti , i disertori Chriss Capps e David Cortelyou, giunti dalla Germania a sostenere il Centro di Vicenza “ Sir! No Sir!”.
Nel febbraio 2009 Russel Hoitt a Vicenza e Trento e in giugno 2009 Chris Capps alla Ederle e alla Pluto, e così via rimanendo fermi gli appuntamenti di protesta durante i grandi momenti significativi per gli Usa quale il 4 luglio e 31 ottobre, momenti in cui gli americani aprono le porte della caserma di guerra.

Comitato Vicenza Est

(grazie per la collaborazione a Claudio Venza)

 

Vicenza 2 / Intervista al
Comitato di Vicenza Est

La “città del Palladio” potrà fregiarsi di una nuova base che si aggiunge a quelle già presenti: la Ederle, la Gendarmeria Europea, il COESPU, il sito Pluto a Longare, quello della Fontega e una miriade di altre strutture paramilitari. Ma c’è sempre il premio di consolazione.
Il sindaco di Vicenza annunciava che, dopo il viale della Pace (situato di fronte alla base militare USA Ederle) e il villaggio della Pace (area residenziale dei militari USA), Vicenza avrebbe avuto anche un Parco della Pace, vicino al Dal Molin.
Quelli del Comitato di Vicenza Est hanno reagito con indignazione: “Governo e sindaco –hanno dichiarato- vogliono il Parco per coprire oggi e domani le attività delle basi militari”. La nuova grande base militare in costruzione “ fa spavento solo a vederla da lontano e non c’è nulla da festeggiare di fronte all’invasione di soldati che si prospetta”. Per poi concludere: “Non vi fate ingannare: le guerre e le occupazioni continuano”.
Per saperne di più siamo andati a intervistarli.
G.S.

Potreste riassumere la storia del vostro comitato, sorto nella zona di Vicenza dove è insediata la caserma Ederle, e quanto avete fatto contro la nuova base? E anche contro le basi preesistenti nel vicentino (Ederle, Fontega, Pluto...).

Il Comitato di Vicenza Est si oppone dalla sua nascita (dicembre2006 / gennaio 2007) a tutte le strutture militari presenti in città e ha solidarizzato con altri gruppi sorti altrove, come in Friuli. Abbiamo cercato di allargare la lotta contro la militarizzazione in atto (la nascita della Ederle due), non di restringerla, come purtroppo è stato fatto da politici e burocrati. Abbiamo sempre parlato di guerra e di diserzione e siamo sempre stati molto critici con Governo e Comune. Abbiamo portato un messaggio di opposizione alle basi militari in tutta Italia ed all’estero (USA, Giappone, Germania, Slovenia, Croazia …). Un’attività quotidiana molto intensa durata mesi.
In particolare abbiamo appoggiato i disertori il più possibile, organizzando vari eventi pubblici e diffondendo messaggi in più lingue. Su questo tema abbiamo avuto contrasti con alcuni del Presidio, ma nonostante il boicottaggio abbiamo ottenuto discreti risultati. Da sottolineare che la zona est di Vicenza, e il quartiere di san Pio X in particolare, vivono da anni una situazione abnorme a causa della presenza della Ederle. Certe volte, alla mattina presto, sembra di essere nella Belfast degli anni ottanta, con centinaia di marines che corrono o marciano in tenuta da combattimento. Recentemente sono entrati di notte nel parco di Villa Guiccioli (museo della Resistenza e del Risorgimento) per esercitarsi. Non sono passati molti anni da quando enormi elicotteri chinook sorvolavano il quartiere a bassa quota mettendo a repentaglio la vita degli abitanti. Per questo molte nostre iniziative, comprese quelle con i disertori, si sono svolte davanti alla Ederle. Per questo abbiamo sempre cercato di far partire le manifestazioni dalla Ederle e non da qualche “zona neutra” come la stazione.

Quali sono stati i temi di differenziazione tra voi e gli altri settori del movimento, “Presidio” in primis?

Ci sono grosse differenze. Il Presidio, a nostro avviso, ha smesso di lottare e non é un luogo libero. Questo per noi ormai questo è chiaro.
All’inizio si poteva ancora parlare, ma poi, avendo i Disobbedienti preso il controllo, sono arrivate le decisioni autoritarie e i giochi politici. La loro tattica fallimentare è consistita nel chiedere aiuto ad alcuni parlamentari, poi ai tribunali, poi affidandosi al sindaco. Il Presidio è in mano ai Disobbedienti che ora sono presenti anche in Comune. Il Comune vuole tranquillità, vuole la riconciliazione, ha costruito la statua di Gandhi e regala ai cittadini un contentino, il “Parco della Pace”.
Il Presidio si è mosso sempre all’interno del Centro Sinistra (compresi gli appelli ad Obama), con calcolo politico e doppiogiochismo. Il Comitato di Vicenza Est è pluralista, ci sono all’interno anarchici, trotskisti, pacifisti … Ci sono differenze, ma ci siamo sempre aiutati e rispettati mentre con il presidio abbiamo avuto grossi problemi. Per due volte hanno provato a non farci parlare in occasioni pubbliche importanti. Collaborano con le istituzioni, non sono movimento. Anche gli altri gruppi si sono mossi secondo la via istituzionale, perdente ...

Come giudicate la situazione attuale della lotta?

Attualmente la lotta non c’è praticamente più, purtroppo è ridotta al minimo. I pompieri ce l’hanno messa tutta per mettere la protesta a tacere e per mal instradarla (retorica sulla democrazia, referendum, rimedi istituzionali).
La lotta era partita bene, ma è stata volutamente relegata in un binario morto nel 2007, per non disturbare il Governo Prodi. Dopo la grande manifestazione del 17 febbraio 2007 tutti i gruppi legati al Centro Sinistra si sono ritirati in una dimensione comunale, ma la decisione in quei mesi spettava al Governo che ha avallato il progetto.
Non possiamo non vedere che c’è stata una trattativa e che c’è chi ci ha speculato. Non sarebbe casuale se qualcuno ottenesse dal Comune un centro “sociale”, un’area concerti …
Al momento come Comitato Vicenza Est ci troviamo tutti contro: Governo, amministrazioni locali, mentre tutti i gruppi sono fermi. Il sindaco promette un parco della pace, il presidio fa concerti … difficile a dirsi... Bisognerebbe ripartire da un grande evento contro la guerra e dalle assemblee libere.

Le “missioni di pace” sono una forma, neanche tanto mascherata, di imperialismo. Il vostro giudizio su Iraq, Afghanistan, Somalia...In futuro forse anche il Delta del Niger...

Siamo contrari a tutte queste operazioni militari e vediamo chiaramente un legame tra le basi militari sul nostro territorio e le occupazioni dei paesi elencati. Le basi di Vicenza serviranno per fare la guerra ai paesi dell’Africa e del Medio Oriente. Lo sanno tutti, ma nessuno ne parla più.
Noi non vogliamo abituarci alla guerra. Non lo accetteremo mai. La Ederle serve a questo, a questo servirà il Dal Molin. E non dimentichiamo che le basi servono anche a controllare il nostro territorio e ostacolano un futuro diverso.

Gianni Sartori

Vicenza 3 / Le nutrie,
La base USA e l’alluvione

Con una tecnica del “capro espiatorio” da manuale, sindaci e assessori leghisti (sostenuti dalle associazioni dei cacciatori) hanno elaborato una versione moderna del “gatto nero” medioevale (o di altre povere bestie criminalizzate e sterminate nel corso dei secoli: lupi, salamandre, rapaci notturni...). Stavolta tocca alla pacifica e vegetariana nutria, cugina del castoro, accusata di aver provocato il crollo degli argini del Timonchio e del Bacchiglione con le sue tane.
Altri presunti colpevoli, i tassi (praticamente scomparsi nelle campagne, sopravvivono solo sui Colli Euganei e Berici!) e le volpi. Per il momento nessuno ha ancora tirato in ballo le tane del martin pescatore. Un migliaio di cacciatori vicentini (a cui finora venivano date solo munizioni) verranno riforniti di “buoni-benzina” (stanziati 13mila euro dalla Provincia) per poter agire serenamente contro i poveri roditori.
Se “la domesticazione degli animali ha posto le basi del pensiero gerarchico e fornito un modello e l’ispirazione per lo schiavismo” (Un’eterna Treblinka. Il massacro degli animali e l’Olocausto, Charles Patterson, Editori Riuniti – 2003), questo atteggiamento spietatamente “specista” evoca i metodi delle pulizie etniche.
Quella delle nutrie è una balla. Gli argini si trovano a parecchi metri dalle rive e le poche nutrie rimaste in circolazione (quelle sfuggite alla campagna di sterminio iniziata da più di un anno) preferiscono avere una tana sulle sponde, con facile e immediato accesso all’acqua. Il Coordinamento protezionista vicentino ha condotto una propria indagine nelle zone colpite dall’alluvione verificando come “l’acqua abbia rotto esclusivamente in zone dove di recente erano stati effettuati interventi”. Per esempio il Timonchio (un torrente a fondo sassoso dove non si segnalano nutrie) “ha trascinato a valle imponenti lavori di consolidamento e imbrigliamento realizzati a Molina di Malo da pochi mesi”. Questo per quanto riguarda Caldogno e Cresole. In altre zone l’acqua ha semplicemente esondato, superando le barriere a muro esistenti (a Vicenza e Debba...).
Una delle cause principali della devastante alluvione è stata la totale cementificazione di una provincia dove il terreno non è più in grado di assorbire. Ormai si costruirebbero zone artigianali e villette a schiera anche nel greto dei torrenti. In pochi anni il colore del territorio vicentino è passato decisamente dal verde dei campi al grigio dei capannoni. Chi in questi anni ha espresso allarme per il rischio inondazioni è stato, nella migliore delle ipotesi, tacciato di essere una “Cassandra” (dimenticando che, purtroppo per i Troiani, Cassandra aveva visto giusto). La situazione rischia di diventare ulteriormente drammatica nel Basso Vicentino, un’area a sud di Vicenza appena sopra il livello del mare, ricca d’acqua e destinata a diventare, grazie alla nuova autostrada in costruzione, un’immensa teoria di capannoni e depositi (nuove zone industriali tra Longare e Noventa, l’impianto della Despar che coprirà un’area corrispondente a duecento campi, il nuovo poligono di tiro ad Albettone, oltre ad una infinità di caselli, raccordi, strade di collegamento, rotatorie, distributori...). Lo spettacolo lacustre di Montegalda, Montegaldella e Cervarese dovrebbe aver mostrato cosa ci riserva il futuro se si continua a cementificare.

Per Vicenza e Caldogno (il paese più devastato a nord della città), dove l’acqua ha toccato livelli forse mai raggiunti, appare evidente che un elemento decisivo è rappresentato dalla nuova base americana Dal Molin, in costruzione. Per chi non conosce la zona, va ricordato che alcuni fiumi a carattere torrentizio scendono dalle alte montagne (Carega, Sengio Alto, Pasubio, Novegno, Pria Forà. Summano...) al confine tra la provincia di Vicenza e quella di Trento raccogliendo acque copiose provenienti dalle piogge e dalle nevi. Tra questi il Leogra, l’Orolo, il Timonchio e l’Astico che poi confluisce nel Tesina. Le acque scorrono anche in profondità, attraverso i depositi di ghiaia, tornando in superficie nelle risorgive come il Bacchiglioncello che rinasce a Novoledo. Diventa poi Bacchiglione prima di entrare a Vicenza dove riceve l’Astichello e, dopo Porta Monte, il Retrone e la roggia Riello. Dopo pochi chilometri, a San Piero Intrigogna, incontra il Tesina dove è appena confluita la roggia Caveggiara. Insomma. un ambiente dove l’acqua non manca, anche per la presenza di una falda acquifera tra le più grandi d’Europa. Forse non è stato un caso che gli Usa abbiano tanto insistito (come confermano documenti divulgati da Wiki Leaks) per appropriarsi del Dal Molin che “poggia” (galleggia?) sulla falda stessa.
I lavori al Dal Molin (attorno a cui scorre il Bacchiglione alimentando, insieme alle piogge, la falda) hanno comportato, oltre alla cementificazione di una vasta area, uno spostamento del fiume, l’ampliamento dell’argine sul lato della base e l’inserimento nel suolo di un enorme quantità di pali in cemento (vere e proprie palafitte, stile Venezia) che, molto probabilmente, hanno funzionato come una “diga” sotterranea costringendo l’acqua a fuoriuscire. Con i risultati che sappiamo.
In origine i pali (mezzo metro di diametro) dovevano essere solo ottocento, ma alla fine ne sono stati utilizzati circa tremila, piantati fino a 18 metri di profondità. Sembra che inizialmente i pali non reggessero proprio per la presenza della falda acquifera. Sarebbe interessante scoprire in che modo siano riusciti poi a piantarli. Quanto cemento avranno usato?
Un’altra considerazione sulla nuova autostrada a sud di Vicenza (A31, Valdastico Sud), costruita in quattro e quattrotto, dopo anni di polemiche e contenziosi, nonostante i vincoli paesaggistici. Osservando una carta topografica salta agli occhi come sia destinata a diventare un ottimo raccordo tra le varie basi statunitensi. Se la Ederle era già prossima al casello di Vicenza Est, la nuova base Dal Molin è comodissima alla Valdastico Nord. Restava defilata solo la base Pluto, a Longare, ma qui ora sorgerà un casello. Un altro casello verrà costruito ad Albettone, dove è previsto un poligono di tiro che utilizzeranno soprattutto i militari.
Altra ipotesi. Si sa che l’autostrada finisce in provincia di Rovigo, praticamente nel nulla. Però in quel “nulla” c’è una vecchia base militare abbandonata. Scommettiamo che non resterà tale per molto? Tra cementificazione, militarizzazione, sterminio di animali... tutto si tiene. Parafrasando quanto viene attribuito a Seattle “quando avrete ammazzato l’ultima nutria, sradicato l’ultima siesa (siepe, in veneto), ricoperto di cemento l’ultimo prato, vi accorgerete di non poter mangiare il denaro e affogherete (profetico! ndr) nei vostri rifiuti”.

Gianni Sartori

La tigre / Una scomparsa
Annunciata

Confrontando una carta tematica sulla densità della popolazione in Indonesia (Le Monde diplomatique, novembre 2010) e una carta dell’Asia sulla diffusione della tigre (Ouest France, 28 novembre 2010), salta agli occhi un particolare inquietante. Delle tre sottospecie estinte, due vivevano in Indonesia.
La tigre di Giava è scomparsa da 30-40 anni, mentre quella di Bali, la più piccola delle tigri, circa 70 anni fa. Le due aree dell’Indonesia più abitate sono appunto le isole di Giava (su cui vive due terzi della popolazione del paese) e di Bali con oltre 500 abitanti per Kmq. Dove la densità è minore, come a Sumatra (da 30 a 100 per Kmq) e nel Borneo (diviso tra Indonesia e Malesia, meno di 30 per Kmq) qualche tigre riesce ancora a sopravvivere. A Sumatra ne rimangono in libertà circa 400 esemplari, mentre le tigri della Malesia (in realtà del Borneo) superstiti sarebbero tra 200 e 400. Altrove le cose non vanno meglio per il maestoso felino. Per esempio, nella regione del Grande Mekong gli esemplari di Panthera tigris sono circa 350. Dieci anni fa erano quattro volte di più.
Si calcola che agli inizi del 1900 vivessero in libertà più di 100mila esemplari. Oggi, dopo un secolo, arrivano a malapena a 3200. Un convegno internazionale ha riunito a San Pietroburgo, dal 21 al 24 novembre 2010, tredici nazioni che ancora ne ospitano: Russia, Thailandia, Vietnam, Bangladesh, Bhutan, Birmania, Cambogia, India, Cina, Laos, Indonesia, Nepal e Malesia. Qualche altro esemplare potrebbe sopravvivere nella fascia smilitarizzata tra le due Coree. La speranza del Global Tiger Recovery Program è di raddoppiare il numero delle tigri entro il 2022. Due le priorità: proteggere l’ambiente (ormai ridotto al 7% di quello originario ed estremamente frammentato) e combattere il bracconaggio. L’associazione Wildlife Conservation Society ha individuato 42 siti dove ancora l’animale si riproduce. La maggior parte in India, Sumatra e nell’Est della Russia. Una delle sei sottospecie, la tigre siberiana, negli anni sessanta era ridotta a 80-100 esemplari. Dopo il 1989 la situazione rischiava di precipitare. Alcune agenzie turistiche organizzavano battute di caccia dagli elicotteri per miliardari e ricchi mafiosi. Attualmente, grazie ad una severa politica protezionistica, le tigri siberiane in libertà sarebbero quasi 500. Chiamata anche “tigre dell’Amur” (dal nome del fiume presso cui vive), è il più grande felino esistente. Il maschio misura più di tre metri di lunghezza e pesa 300 kg. In Cina la tigre non sarebbe più stata avvistata da esperti e studiosi da almeno 30 anni. Si calcola che ne restino in circolazione meno di una cinquantina. Con ogni probabilità sarà la prossima a sparire.
Brutti pronostici anche per le tigri dell’India, vittime del 54% degli atti di bracconaggio per rifornire i consumatori cinesi della medicina tradizionale. Sviluppo industriale, costruzione di dighe e apertura di miniere hanno prodotto effetti devastanti. Le 40mila tigri ancora presenti nel 1947, si erano ridotte a 3700 nel 2002. Oggi in tutta l’India non sarebbero più di 1500.
La tigre del Caspio è la terza sottospecie già estinta. Dal pelame chiaro (come la siberiana, ma più piccola), la più occidentale delle tigri è scomparsa verso il 1970. Per sempre.

Gianni Sartori

Rivoluzione /
Un convegno a Milano

Il dibattito sul concetto di rivoluzione è antico quanto il movimento anarchico. Ciò nonostante, sembra non aver perso d’attualità e tuttora se ne parla: le compagne e dei compagni del Centro Studi Libertari-Archivio Giuseppe Pinelli (centrostudi@centro­studi­libertari.it) Tel: +39 02 2846923) e il collettivo Asperimenti (http://asperimenti.no­blogs.org, asperimenti@para­noici.org) di Milano hanno, infatti, organizzato un convegno dal titolo eloquente, “Rivoluzione?”. L’Anarchico, blog nato di recente e dedicato all’anarchismo (http://anarchico.no­blogs.org), riporta in modo non sequenziale e necessariamente personale l’andamento della giornata che ha visto la partecipazione attiva di molte compagne e compagni anarchici da tutta la penisola (1). Gli atti verranno pubblicati di recente per cui tenete d’occhio i siti degli organizzatori.
La trattazione del tema si è basata sulla classica contrapposizione (già presente nel pensiero malatestiano (2) tra il concetto di rivoluzione come processo evolutivo che muta radicalmente ma gradualmente i rapporti sociali, inserendo ed allargando gli elementi libertari all’interno di un contesto gerarchico, fino al punto in cui si producano cambiamenti irreversibili in senso anarchico e il punto di vista che sostiene, invece, la necessità di un evento rivoluzionario (insurrezionale) di massa al fine di poter porre le pre-condizioni per un mutamento sociale durevole. Queste due posizioni sono state rappresentate rispettivamente dagli interventi di Tomas Ibañez, compagno spagnolo autore dell’articolo “Addio alla rivoluzione” e dal compagno argentino Eduardo Colombo, autore dell’articolo “L’orizzonte dell’insurrezione”. I due invitati hanno riproposto un dibattito, in parte già affrontato alla metà degli anni ’80 del secolo scorso, in un contesto ricco di giovani interessati ad approfondire la questione.
Ibañez afferma che “il concetto di rivoluzione è antitetico o incompatibile con il pensiero anarchico, per il fatto stesso che è portatore d'una serie di conseguenze o effetti che sono necessariamente liberticidi”. Chiarisce però l’importanza del “«desiderio di rivoluzione» che costituisce un elemento fondamentale della sensibilità social-emancipatrice e del pensiero utopico o d'ogni esigenza etica” (3). Nella società contemporanea, l’immaginario rivoluzionario va ancorato al presente in una sorta di «rivoluzione continua» e dal punto di vista dell’azione ci si deve concentrare su frammenti di libertà da strappare alla società del dominio, poiché “l'attività pratica dei libertari può, eventualmente, scatenare o provocare una rivoluzione, ma mai come risultato di un effetto ricercato, mai come esito d'un progetto razionale e coerente” (4). Si tratta di una concezione nella quale i focolai di resistenza al dominio, che lottano per espandersi e generalizzarsi nella società, ricostituiscono il significato del concetto di rivoluzione in un contesto post-moderno, in quanto consentono di sperimentare pratiche di liberazione e di autogestione.
Ibañez ritiene che essere anarchici e rivoluzionari oggi significa rifiutare di essere totalizzanti e abbandonare definitivamente l’idea di un’insurrezione di massa, cercando invece di rivoluzionare la società qui ed ora, attraverso pratiche libertarie che riescano a rompere la logica del dominio nelle relazioni sociali e ad aprire «spazi stranieri» rispetto ai valori dominanti. Si rende conto della critica di chi ritiene che l’atomizzazione delle lotte e la mancanza di una prospettiva rivoluzionaria di carattere globale costituisca una difficoltà nell’affermazione dell’anarchia, ma sostiene che questo salto di prospettiva sia assolutamente necessario al fine di affrontare le sfide della contemporaneità, anche perché non c’è alcuna ragione per credere che l’anarchia sia desiderabile per tutti gli esseri umani.
La posizione di Eduardo Colombo invece riparte dalla concezione malatestiana di rivoluzione come progetto di cambiamento radicale dell’esistente dipendente dalla volontà umana. L’agente rivoluzionario è soggetto collettivo che si costituisce attraverso l’azione rivolta al cambiamento sociale. La sua relazione inquadra la rivoluzione nel processo storico a partire dai secoli XVI e XVII e descrive il «deperimento» della progettualità rivoluzionaria degli ultimi 50 anni, dopo che l’esperienza totalitaria bolscevica, fascista, nazista, franchista e stalinista hanno letteralmente massacrato l’esperienza pratica della rivoluzione in tutti i paesi che l’hanno sperimentata nel corso del ‘900. Eduardo rileva anche che il pensiero liberale dominante ha utilizzato i concetti introdotti dai pensatori della cosiddetta French Theory (o post-strutturalismo) per eliminare la giustizia sociale dall’orizzonte della storia mantenendo l’enfasi sulla libertà individuale.
In questo contesto di neoliberalismo dominante, Colombo ritiene che l’immaginario libertario e ugualitario anarchico può realizzarsi soltanto attraverso un rovesciamento dell’immaginario dominante in un contesto insurrezionale. Tutto ciò che viene proposto e conquistato attraverso rivolte o riforme parziali non fa altro che rinforzare il sistema esistente. Chiaramente, viene sottolineato che la rivoluzione è, comunque, un processo di lungo corso volto a realizzare un cambiamento radicale del sistema di relazioni sociali dominanti e, quindi, le lotte parziali sono assolutamente fondamentali al fine di mettere in discussione e far vacillare il sistema. Ma alla fine Colombo ritiene che soltanto un’insurrezione generalizzata potrà permettere una ricostruzione della società su basi autenticamente libertarie.
L’intervento di Toni Senta, giovane storico appartenente alla redazione di Umanità Nova, ricorda che la teoria abbracciata dal sistema di dominio postula la «fine della storia» con il raggiungimento della democrazia rappresentativa di tipo occidentale, cercando di chiudere di fatto tutte le porte alle utopie (e in larga parte ci riesce). In realtà, la ribellione cova sotto la cenere in gran parte del mondo occidentale e non solo. Da questo punto di vista, Toni parla di “rivoluzione come possibilità reale” e mette l’accento sulla necessità di contrastare a tutti i livelli il sistema di dominio del quale lo Stato non è che il simbolo.
Il tentativo di superare l’interrogativo nel titolo del seminario e la contraddizione tra Ibañez e Colombo avviene con gli interventi di due giovani compagni del collettivo Asperimenti. Per Andrea Breda l’anarchia rappresenta l’unico metodo possibile per condurre una lotta collettiva per la libertà. Nella società si parla di dominio quando il potere è concentrato in alcuni soggetti in grado di definire i rapporti sociali: quando le relazioni di dominio si istituzionalizzano e naturalizzano si arriva alla servitù volontaria. D’altra parte, la libertà si definisce in modo relativo quando i soggetti siano in condizione di esercitare il loro potere di definizione dei rapporti sociali. Non esiste quindi la possibilità di definire la libertà in modo assoluto poiché tale definizione sarebbe intrinsecamente autoritaria. In questo contesto, la tensione fra istituzionalizzazione della società da un lato e il desiderio di poter continuamente rinegoziare i termini del contratto sociale può risolversi in senso rivoluzionario attraverso la creazione di spazi di confronto ed autogestione.
L’intervento di Andrea Staid costruisce sulle premesse del Breda una possibile definizione dell’azione rivoluzionaria. Il cambiamento del paradigma dominante in una data società procede infatti per rotture che superano lo stato precedente per raggiungerne uno diverso. I rapporti di dominio sono infatti ovunque nella società e lo Stato diviene, come già intuito da Gustav Landauer nel 1910 (5), un sistema di relazioni. Conseguentemente, la rivoluzione come «presa del palazzo» non avrebbe senso. Staid suggerisce di togliere la rivoluzione dalla «dimensione evento » alla «dimensione processo». Questa lotta continua per la libertà costituisce quindi l’azione rivoluzionaria possibile e libertaria, nel nostro contesto contemporaneo. Le pratiche rivoluzionarie di liberazione sono molte e diverse e ne vengono citate alcune a titolo esemplificativo ma non esaustivo: lo squatting, il critical gardening e la pratica degli orti collettivi, la critical mass ciclistica e le autoproduzioni (DIY).
Andrea Staid fornisce alla fine del molto partecipato dibattito una chiave di lettura dell’intera giornata e dello spirito di molti dei partecipanti quando afferma che oggi, a suo avviso, il militante anarchico non può aspettare passivamente un’insurrezione di massa che non ha alcun mezzo di provocare e, quindi, si deve concentrare sulle pratiche di liberazione e di autogestione utili per introdurre nella società elementi libertari che possano radicarsi e diffondersi. Certamente, se le condizioni di un’insurrezione dovessero presentarsi, gli anarchici non rimarrebbero senz’altro a guardare, anche perché dovrebbero cercare in tutti modi di assicurarsi che gli effetti non ricalchino gli schemi autoritari che hanno prevalso in passato.

(dal blog L’Anarchico)

Note

  1. Ci limitiamo qui a sintetizzare gli interventi dei relatori trascurando, anche per motivi di spazio, gli interessanti interventi del dibattito molto partecipato e plurale.
  2. Vedi http://anarchico.no­blogs.org/post/ 2010/10/28/rivoluzione-oggi-o-anche-no.
  3. Tomas Ibañez “Addio alla rivoluzione” su http://asperimenti.noblogs.org/files/2010/10/Ibanez.doc.
  4. Ibidem.
  5. Lo Stato non è qualcosa che si possa distruggere con una rivoluzione, ma è una condizione, un certo rapporto tra esseri umani, una modalità del comportamento umano: lo distruggiamo stabilendo nuove relazioni, comportandoci in modo diverso.


Piazza Fontana
In 9 cd

Noi credevamo e crediamo che si possa ancora arrivare alla verità sulla strage di Piazza Fontana e la notizia che ci giunge, da Catanzaro, ci riempie di fiducia. Gli atti del processo per la strage alla Banca dell’Agricoltura (12 dicembre 1969) contenenti le deposizioni, le istruttorie, gli interrogatori e centinaia di foto conservati nella sezione C dell’Archivio del Tribunale di Catanzaro, sono stati sottratti alle muffe e alla polvere dei faldoni abbandonati all’umidità per oltre quarant’anni e raccolti e digitalizzati in 9 cd.
Ci son voluti tre anni per catalogare milioni di pagine divise in quattro archivi, in centinaia di faldoni in cui i documenti erano stati inseriti senza alcun ordine. Il salvataggio degli atti, a rischio di deterioramento , è dovuto alla sensibilità di Maria Itri, una studentessa padovana che nel 2004, alle prese con la sua tesi di laurea, scoprì lo stato di disordine e di degrado in cui versavano gli atti processuali. La segnalazione della studentessa venne raccolta da “il Quotidiano della Calabria” e dall’associazione “Altra Catanzaro” che chiamarono alla mobilitazione intellettuali, giornalisti e storici in gran parte calabresi. Salvando le carte del processo si è salvato quello che gli studiosi definiscono il “vincolo archivistico”, ossia quel legame che rende il singolo documento parte di un mosaico, inserito in una rete di relazioni necessarie e significative per capire la realtà e le finalità per il quale è stato prodotto. Finalmente un risultato positivo ottenuto scandagliando i sotterranei del Tribunale di Catanzaro vero e proprio “luogo della memoria”, in cui il processo venne trasferito, nel 1972, per motivi di ordine pubblico.
In questi quarant’anni che ci separano dalla strage, sono state molteplici le iniziative e le richieste di aprire gli archivi e di sottrarre all’oblio la documentazione. Il Corriere della Sera, anni fa, aveva dichiarato la disponibilità a promuovere una sottoscrizione e l’associazione familiari delle vittime di Piazza Fontana si era impegnata ad acquistare i macchinari utili per informatizzare i documenti riguardanti tutte le altre stragi che hanno insanguinato l’Italia.
L’archivio digitale è stato presentato venerdì 26 novembre a Catanzaro in occasione del convegno “Da Piazza Fontana a oggi: i documenti, le trame, i processi”, organizzato dall’associazione forense “Diritto di difesa” e dal circolo culturale “Augusto Placanica”. All’iniziativa ha partecipato, tra gli altri, il giudice Guido Salvini, magistrato milanese che alla fine degli anni ottanta riaprì le indagini sulla strage. La restituzione alla collettività della memoria, “delle nostre radici” come le ha definite Fabio Cuzzola, consentirà le opportune verifiche su nuovi elementi forse in grado di riaprire il caso in questo Paese, dove archiviare è diventato sinonimo di insabbiare, di dimenticare.

Angelo Pagliaro

Arezzo
La scalinata Berneri

“Folla alla cerimonia in onore dell’anarchico”: così titolava l’indomani la stampa locale. Un centinaio circa di persone hanno partecipato, sabato 27 novembre, alla inaugurazione della Scalinata, luogo suggestivo posto fra le Poste Centrali e lo storico Teatro Petrarca (a un centinaio di metri dalla casa in cui abitò e nacque la figlia Maria Luisa). La scelta di Arezzo, dove il nostro ha vissuto per molti anni, quale sede prima di un’importante ed originale riflessione a più voci sulla dimensione europea del suo pensiero (il convegno studi tenutosi nel 70° del suo assassinio), poi quale luogo della memoria berneriana, non è stata casuale. Nella sua breve vita, la Toscana (con Arezzo, Firenze, Cortona) rappresenta la tappa fondamentale del suo percorso di formazione culturale e politica, alla vigilia dell’esilio.
Un lungo “passaggio” dunque fra la Reggio socialista e l’Europa dei perseguitati antifascisti, incubazione del tragico epilogo del maggio 1937, nella Catalogna anarchica. L’iniziativa, completamente autogestita, organizzata dal Comitato per la memoria di C. Berneri – Arezzo, si è svolta in due tempi. Fra i numerosi messaggi di felicitazioni giunti da ogni angolo del mondo, tutti molto graditi, citiamo volentieri quelli di “Tierra y Libertad” e di “Germinal. Revista de estudios libertarios” dalla Spagna.
Alle 16 presentazione – nell’aula magna del Liceo Classico Petrarca (scuola che fu frequentata dall’anarchico lodigiano) – del volume “Un libertario in Europa. Camillo Berneri: fra totalitarismi e democrazia. Atti del convegno di studi storici, Arezzo, 5 maggio 2007” a cura di Giampietro Berti e Giorgio Sacchetti, edizioni Archivio famiglia Berneri/Aurelio Chessa. Il volume segna un fondamentale punto di arrivo nello sviluppo, ormai quarantennale, della storiografia (italiana e non solo) su Berneri. Molti gli interventi e davvero appassionato il dibattito che è stato introdotto dalle relazioni di Giorgio Sacchetti e Enrico Acciai.
Intorno alle 18 tutti alla Scalinata. Qui Maria Alberici (nipote di Camillo) ha scoperto il drappo rosso-nero che era stato precedentemente apposto sulla targa, mentre gli astanti intonavano con voci portentose “Figli dell’officina”. A seguire un brindisi speciale con un’etichetta predisposta per l’occasione (v. box) e rinfresco; musica e canti popolari con la chitarra di Donato Landini e una speciale declamazione
del poeta Filippo Nibbi.
Hanno contribuito / partecipato alla realizzazione dell’evento: Archivio Famiglia Berneri/Aurellio Chessa, Reggio Emilia; “A – rivista anarchica”; “Umanità Nova”; “Corriere di Arezzo”; Radio Wave Arezzo; Trattoria del Leone alla Scalinata Berneri, Arezzo;
enoteca “Le Carovaniere”, via Cavour 84, Arezzo; studenti, insegnanti e dirigente scolastico del Liceo Petrarca di Arezzo.

(si ringraziano Fiamma Chessa e Giorgio Sacchetti per la collaborazione)

Arezzo, 27 novembre 2010, presentazione del volume
Un libertario in Europa. Camillo Berneri: fra totalitarismi e
democrazia. Atti del convegno di studi storici,
Arezzo 5 maggio 2007
, a cura di Gianpietro Berti e Giorgio
Sacchetti (al centro nella foto), edizioni Archivio
Famiglia Berneri-Aurelio Chessa

Caso Mastrogiovanni
Tra camici e pigiami

Sono veramente pochi i giornali (nessuna trasmissione televisiva) che seguono il processo che si sta celebrando presso il Tribunale di Vallo della Lucania (SA), che vede imputati per falso ideologico, sequestro di persona e morte come conseguenza di un altro delitto del maestro libertario , 18 tra medici e paramedici del reparto psichiatrico dell’Ospedale “San Luca” di Vallo della Lucania. Sono passati esattamente sedici mesi dal quel drammatico 4 agosto 2009 quando, Franco Mastrogiovanni, muore in totale abbandono e in modo disumano per edema polmonare da contenzione, dopo aver trascorso più di 80 ore, legato mani e piedi ad un letto senza ricevere adeguata nutrizione, senza assistenza e controlli sanitari, soggetto a una “sconcertante sequela di abusi”. In questo anno si sono svolte, in varie città d’Italia, mobilitazioni, incontri, sit-in nel corso dei quali è stato proiettato il drammatico video dell’orrore girato dal sistema interno di sorveglianza del reparto lager di psichiatria dell’Ospedale “San Luca” di Vallo della Lucania. Un video “incorruttibile” che inchioda, senza possibilità di depistaggi, smentite, divagazioni, il personale medico e paramedico, in servizio
in quei quattro drammatici giorni, alle loro tragiche responsabilità.

Il processo entra nel vivo
La dott.ssa Elisabetta Garzo, Presidente del Tribunale di Vallo (già Presidente della terza sezione della Corte d’ Assise di Santa Maria Capua Vetere), che ha avocato a sé il processo, durante la seduta del 6 dicembre ha respinto le numerose eccezioni avanzate dai legali degli imputati. Nell’udienza di martedì 14 dicembre la corte ha valutato le richiesta di costituzione delle parti civili ammettendo: Telefono Viola, Unasam, Il Comitato di Iniziativa Antipsichiatrica, Avvocati Senza Frontiere, Asl di Salerno (ma quest’ultima non dovrebbe esercitare le funzioni di controllo?). I rappresentanti del Telefono Viola, felici per la decisione del tribunale di Vallo, in una dichiarazione a caldo, hanno espresso il loro rammarico per l’esclusione di alcuni familiari del maestro anarchico, come il cognato Vincenzo Serra, promotore del Comitato Verità e Giustizia per Franco…e mai più! e di conseguenza della Dott.ssa Agnesina Pozzi consulente medico che per prima ha redatto una minuziosa controrelazione apprezzata in tutta Italia ma hanno ribadito, al contempo, che “andremo avanti nel massimo spirito di collaborazione già dimostrato con le altre associazioni”.
La prossima udienza è stata fissata per giorno 21 dicembre.

Un intero sistema da processare
Oltre al processo per la morte di Franco si aprono, al di fuori delle aule giudiziarie, altri 3 processi, diciamo così, cultural-politici: due che vedono come imputati il TSO e il ricorso alle contenzioni e un terzo, un vero e proprio maxi-processo che mette sotto accusa l’intero sistema sanitario e i poteri che lo alimentano. Sul TSO e le contenzioni abbiamo già scritto sui precedenti numeri di “A” e ora, invece, vogliamo porre alcune domande alle quali ci farebbe piacere ricevere alcune risposte. Chi ha consentito, per decenni, la sopravvivenza di un servizio di psichiatria privo delle attrezzature necessarie, definito dai magistrati un luogo disumano? Il personale medico è stato opportunamente formato e informato? Si possono, alla luce dei fatti, storicizzati da una telecamera di videosorveglianza interna, ritenere gli operatori adeguatamente qualificati? Vedere e ricercare le responsabilità degli operatori che in quei quattro giorni erano in servizio è ciò che farà la magistratura ma tutti noi sappiamo che, le grosse responsabilità, stanno in alto, in quel sistema che “seleziona” il personale dirigente, in quegli irresponsabili politici che premiano i direttori per i risparmi conseguiti sulla spesa sanitaria distruggendo la medicina e i servizi territoriali, decurtando il personale, non aggiornandolo a dovere gli operatori, chiudendo o accorpando i reparti.

L’urlo raccolto di Francesco Mastrogiovanni
Francesco Mastrogiovanni dopo essere stato sequestrato a seguito di un TSO illegale emanato dal sindaco di Pollica Angelo Vassallo (assassinato dalle mafie pochi mesi fa), prima di essere ricoverato si rivolge all’amica che gestisce il villaggio turistico affermando: “se mi portano a Vallo non ne esco vivo!” e poi nell’ambulanza urla agli infermieri di essere anarchico per farsi sentire e lo fa verosimilmente per due motivi:

  • il primo è che teme la struttura ospedaliera e il SISTEMA che in esso vige e non certo il singolo paramedico o medico di turno che neanche conosce;
  • il secondo (il dichiararsi anarchico in situazioni di una certa gravità) è un atteggiamento che gli studiosi dell’anarchismo, e non solo, sanno essere frequente tra i malcapitati perchè si è consapevoli che il messaggio lanciato è allo stesso tempo un voler dire: guardate che qualcuno si chiederà perché mi avete ucciso, maltrattato, vessato e che quel qualcuno (circolo, movimento, associazione, gruppo, singola individualità) scandaglierà le cause non credendo alle versioni ufficiali e cercando la verità dovesse impiegarci anche un secolo. Le urla di Franco Mastrogiovanni sono state raccolte non solo dal “suo” movimento libertario ma da tante persone che si sono strette intorno alla famiglia e al Comitato perché convinte che dentro ogni camice bianco c’è un uomo, così come dentro un pigiama. Il processo va avanti, nel silenzio totale delle istituzioni campane, della grande stampa, della chiesa, delle associazioni per la vita. Ma noi la verità la conosciamo già, vorremmo poter credere che si possa affermare, col processo, anche un po’ di giustizia.

Angelo Pagliaro

Ricordando Paolo Friz
Il gigante buono dell’anarchia
(e delle tartarughe)

Paolo Friz

Da anni conservavamo in tasca il suo numero di telefono, ma non eravamo mai andati a trovarlo. Erano gli inizi degli anni Ottanta, e per quelle strane distanze, mentali più che fisiche, a noi ventenni con tante patenti ma senza neanche una macchina Brindisi – dove viveva – sembrava una città lontana, come Bari o come Napoli, nonostante fosse a meno di cento chilometri di distanza dai nostri paesi e nonostante magari andassimo con il treno su e giù per l’Italia – per lavoro, per l’università o per “la politica”. Ma nel Salento, agli inizi degli anni Ottanta, ci volevano le giornate, con il treno, per arrivare da qualsiasi parte.
I compagni di Milano ci avevano raccontato di questo trentino trapiantato nella Puglia – c’è anche gente (poca) che emigra al contrario, dal nord verso il sud –, di questo famoso giocatore di pallacanestro, giovane promessa negli anni ’70, che aveva giocato per l’Olimpia, per la Billy e la Cinzano Milano ( Dan Peterson era stato il suo allenatore); più volte ci avevano detto di questo compagno alto più di due metri che finanziava A-Rivista, Umanità Nova e tutta la stampa anarchica.
Poi una sera ce lo siamo ritrovato di fronte, ai bordi del campo di calcio di un paesino della provincia di Lecce, a un concerto dei Litfiba, una serata contro il nucleare, che vendeva la stampa anarchica insieme alla sua compagna di allora.
Non potevi non riconoscerlo, Paolo Friz (quanta gente conoscete che è alta più di due metri e diffonde la stampa anarchica?). Ricordo bene l’immediata simpatia che provammo per lui: nessuno allora, di quelli che conoscevamo, era più simpatico di Paolo. Era uno scherzo continuo, una continua presa per il culo.
Paolo è stato uno dei fondatori della Comune, ma non è mai riuscito a realizzare il suo sogno di venirci a vivere. È stato anche uno dei fondatori del Coordinamento Anarchico del Salento, forse l’unica realtà libertaria organizzata degli ultimi trent’anni in questa terra di confine; ed è stato collaboratore, sostenitore e redattore di Senzapatria, quando la rivista la facevamo qui a Lecce, prima di imbarcarci nell’avventura di Urupia.
Poi, una decina di anni fa, una forma di Parkinson giovanile ha cominciato a complicargli la vita. A Bologna si era fatto installare nel cervello un dispensatore elettronico di dopamina (o qualcosa del genere) senza il quale non riusciva quasi più nemmeno a camminare: ve lo immaginate una bestia d’uomo, un gigante alto più di due metri che ha imbucato canestri per metà della sua vita e non riesce nemmeno a scansare una pietra, e si inchioda davanti allo scalino del bagno?
Insieme abbiamo collezionato centinaia di fumetti; Ken Parker era il nostro preferito. Paolo amava gli Indiani d’America: amava i popoli oppressi, gli sfruttati, le persone – anzi, gli esseri – più deboli. Quindi amava gli animali; come veterinario per anni è stato per noi un punto di riferimento, per un cucciolo abbandonato, un uccello impallinato, un volpacchiotto ferito, o per aiutarci con una iniezione a far morire dolcemente i nostri amici a quattro zampe quando la vita diventava per loro solo dolore e sofferenza.
Ogni tanto arrivava a Urupia con un gheppio, una quaglia, una civetta, un cervone o una testuggine, e li liberava nella macchia o nel giardino. Nel giardino di Urupia per anni ha aiutato a nascere e a crescere centinaia di tartarughe terrestri: gli incendi, i diserbanti, le lavorazioni del terreno ne hanno fatto ormai una specie in via di estinzione. A Urupia, di adulti ce n’erano più di una trentina, tra maschi e femmine. Le avete mai viste quando fanno all’amore? Uno spettacolo! In Cina sono il simbolo della passione amorosa. In primavera le potevi sentire inseguirsi in mezzo all’erba, tra morsi, mugolii e testate sulla corazza: durante l’accoppiamento fanno un casino che non ti puoi immaginare.
Ogni volta che qualcuno portava una tartaruga malata nel suo studio, Paolo la curava, poi la portava a Urupia. Durante l’estate nascevano altre venti, trenta piccole tartarughe; e, una volta all’anno, Paolo le liberava, nel grande bosco di una masseria vicino Ostuni. Era un rito, una festa, alla quale accorrevano tantissime persone con i loro bambini. Il giorno prescelto era il 2 giugno, la Festa della Liberazione: la liberazione delle tartarughe.
Ma la sua vita era diventata già molto difficile: quel cazzo di apparecchio che teneva nella testa gli faceva venire ogni tanto dei colpi di sonno. Le fiancate della sua auto erano segnate dalle continue strisciate contro i paracarri. E noi a insistere: “Paolo, fermati! Non guidare più”.
Ma chi lo fermava, a Paolo? Era una fucina, un vulcano, un’esplosione instancabile di piani, di progetti, di sogni, di visioni, di idee. E non lo ha fermato neppure lo schianto, sotto un furgone parcheggiato al lato della strada, a metà agosto di un anno e mezzo fa.
Più di mezz’ora a tirarlo fuori dalle lamiere, e più di un anno e mezzo immobile in un letto, intubato, incapace di muovere una mano o di dirti si o no con le labbra o con gli occhi. E per un anno e mezzo abbiamo pregato che si fermasse, che si lasciasse andare, che si regalasse un po’ di pace, un po’ di serenità.
Abbiamo pregato. Non un normale dio, che nessuno di noi ci ha mai neanche un poco creduto; forse l’Amore, o la Pietà, o la Giustizia, o l’Anarchia.
E alla fine qualcuno o qualcosa ha ascoltato le nostre preghiere: Paolo è libero, dal 19 dicembre. E se adesso sta da qualche parte, se gli hanno dato la possibilità di scegliere dove inseguire i suoi piani assurdi, i suoi progetti sballati, siamo sicuri che avrà scelto le praterie di Manitou, insieme a Lungo Fucile e agli Indiani, non a cacciare i bisonti, ma a curarli.

Agostino Manni

Ci associamo alle belle parole di Ago e delle comunarde di Urupia nel ricordare un uomo e un compagno buono, appassionato, grande amico, e lettore critico, e diffusore, e in tanti modi sostenitore della nostra rivista. “A” ha fatto da spina dorsale alla nostra amicizia. Se, tagliato il traguardo dei 40 anni, la rivista ancora continua è anche grazie alla vita e al sostegno di persone come Paolo e alla loro calda umanità, che ci accompagna anche dopo la loro morte e continua a produrre effetti positivi.

Aurora e Paolo