Rivista Anarchica Online


la nostra storia

La (mia) vita dalla a alla “A”

Intervista a Paolo Finzi

di Adriano Paolella

Nata poco più di un anno dopo la strage di piazza Fontana (sull’onda della mobilitazione che ne seguì), “A” ha attraversato quattro decenni di storia italiana cercando di capire quel che accadeva, di dar voce a chi si opponeva, di tenere vivi la riflessione e il dibattito.
Ne parliamo con l’unico componente del gruppo fondatore della rivista ad essere tuttora nella redazione.

 

La rivista “A” compie 40 anni.
Com’è nata l’idea di questa rivista?

La rivista festeggerà nel febbraio 2011 i suoi 40 anni, il primo numero uscì infatti nel febbraio 1971. Ha avuto una fase di gestazione di alcuni mesi, a poco più di un anno dal 12 dicembre 1969, ed è certamente figlia della strage di Piazza Fontana, dell’assassinio di Giuseppe Pinelli e della campagna di controinformazione all’indomani della strage.
Il gruppo iniziale della redazione era composto per la maggior parte da compagni/e del Circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa, il circolo di Pinelli. Io allora avevo 18 anni ed ero uno degli elementi più giovani del gruppo redazionale, per circa un anno fece parte della redazione anche un “romano”, Guido Montana, che in seguito uscì dalla redazione e dal movimento anarchico.

Prima del ‘69 e delle bombe del 12 dicembre non c’era l’idea di una rivista?
No. Infatti la rivista dal punto di vista finanziario nacque con una raccolta di fondi all’interno del gruppo promotore, l’intento era di coprire i costi dei primi tre numeri. L’orientamento era di fare comunque tre numeri mensili di “A” e poi si sarebbe valutato se continuare a secondo dell’accoglienza e delle reazione degli anarchici. Se il responso fosse stato positivo, si sarebbe andati avanti con i soldi delle vendite e di nuove sottoscrizioni. Il fondo utilizzato per la rivista “A” era costituito dai soldi raccolti da alcuni compagni del Circolo Ponte della Ghisolfa per un progetto d’acquisto di un cascinale disabitato in Toscana, nel paesino di Solata, per costituire una comune tipo città-campagna. Io non facevo parte del progetto della comune promosso dai compagni più vecchi, che avevano un età intorno ai 23-29 anni.
Con la strage di Piazza Fontana e la necessità di fare controinformazione i soldi raccolti vennero usati per creare la nuova rivista.

Il capitale iniziale era quindi abbastanza consistente?
Si erano raccolti più di un milione di lire di allora, che bastavano a pagare l’uscita di due o tre numeri della rivista. Oltre alla volontà dei compagni e alla situazione politica, la rivista guardava anche allo stato della stampa anarchica che allora era rappresentata da Umanità Nova. il settimanale che usciva regolarmente dal 1945, la cui redazione periodicamente cambiava di località. UN era pubblicato a Roma con una redazione un po’ vecchio stile rispetto alla sensibilità di allora, con alcuni vecchi compagni come Umberto Marzocchi e Mario Mantovani anche se nella redazione operativa di Roma in via dei Taurini vi erano Aldo Rossi e Anna Pietroni, della generazione di mezzo.
Siamo negli anni ’70: il ‘68 ha portato avanti anche una rivoluzione grafica ed estetica nelle pubblicazioni. La rivista nasce con un progetto grafico innovativo realizzato principalmente da Giovanni Pieraccini, un simpatizzante radicale e anarchico di Milano. La rivista si caratterizzò per l’uso attento ed esteso della grafica e delle foto, l’uso di immagini fu sicuramente innovativo rispetto ad UN, un giornale tutto piombo con i suoi pregi ed i suoi difetti. La rivista “A” nacque così con una grafica accattivante che colpì nel segno il movimento anarchico, tanto che dopo i primi tre numeri si decise di continuare le pubblicazioni sull’onda dell’entusiasmo riscontrato.

Lo spartiacque
Piazza Fontana (e Pinelli)

La distribuzione era buona?
Sì. Il primo nucleo di distributori si basò principalmente, oltre che su Milano, su quattro/cinque gruppi di militanti appartenenti ai GAF (Gruppi Anarchici Federati), una delle tre federazioni allora esistenti a livello nazionale insieme alla FAI (Federazione Anarchica Italiana) ed ai GIA (Gruppi d’Iniziativa Anarchica). Per esempio al gruppo di Torino si spedivano 500/600 copie da distribuire. E poi c’erano tanti gruppi e circoli anarchici, la maggior parte nel Centro-Nord, non pochi della FAI (penso tra gli altri al Germinal di Trieste, che ci diffonde ininterrottamente dal primo numero).
Tra il ‘68 e il ‘69 molte pubblicazioni politiche, artistiche e culturali prendono sviluppo. Attorno al 1971 nascono progetti editoriali come il Manifesto, Fronte Unito del movimento studentesco di Mario Capanna, Re Nudo che inizia con una campagna curiosa e dissacrante con scritte sui muri in varie città “Re Nudo?”, tutti si chiedevano chi fossero e fece seguito la nascita di questa rivista. I giornali come il Manifesto e Re Nudo, nonostante i loro cambiamenti, escono ancora oggi.
La distribuzione militante era un dato comune, ci si alzava a volte alle cinque di mattina, si andava anche davanti alle fabbriche per vendere i giornali. Anche se non si era operai, spesso nei primi numeri si scriveva della situazione sindacale e contrattuale e della condizione di vita dei lavoratori. Mi ricordo che una mattina davanti all’entrata dell’Università Statale di Milano, nonostante la presenza di numerosi giornali di taglio marxista e non, si riuscìrono a vendere più di seicento copie della rivista. Un grande successo che testimoniava l’esigenza di informazione, tenendo conto che ancora non esistevano internet e le radio private. C’era una sensibilità sociale in generale ed è in questo contesto che nasce la rivista, dove quasi tutte le cose fatte bene potevano avere successo essendoci anche una maggiore attenzione culturale.
Nei primi numeri della rivista convivevano in maniera tumultuosa l’esigenza di ricostruire la storia degli anarchici, i medaglioni sulle figure storiche del movimento, le letture di Bakunin, Malatesta … la ricostruzione organica con un lavoro redazionale coordinato che ripresentava numero dopo numero la Comune di Parigi, Kronstadt, le rivoluzioni russa e spagnola … insieme a tanta attualità, dalla lettera di una maestra elementare, alle questioni sindacali … ed alcune tematiche portanti tra cui la prima che caratterizza la rivista è la campagna Valpreda.
Milano con la strage di Piazza Fontana si affaccia in maniera preponderante sulla scena politica, sulla scena extraparlamentare dei movimenti di contestazione.
La strage di Piazza Fontana. dopo il 25 aprile 1945, è forse la data più significativa della storia italiana, lo spartiacque tra un prima e un dopo. Uno spartiacque riconosciuto da molti anche se è vero che a Roma ci furono delle bombe inesplose il 12 dicembre, ma è a Milano che c’è la strage, è a Milano che c’è la conferenza stampa degli anarchici del Ponte della Ghisolfa il 17 dicembre come prima risposta, è a Milano che vola dalla questura Pinelli, è a Milano che il 21 e 31 gennaio 1970 ci sono le prime due manifestazioni nazionali allargate a tutta la sinistra con decine di migliaia di partecipanti, è a Milano che iniziano i processi spostati poi a Roma, Catanzaro, Bari.
Io poi ho vissuto il 12 dicembre, sul piano personale, con grande intensità. Il mio fermo, concretizzatosi quella sera nel trasferimento in Questura su una macchina della polizia, il successivo interrogatorio durante la notte e la mini-detenzione nelle celle nel sotterraneo della Questura fino al tardo pomeriggio del 13 dicembre (sorte condivisa con molte decine di anarchici milanesi) costituì una specie di “battesimo di sangue”. E quando poi uccisero Pinelli e, tempo dopo, chiesi e ottenni l’ammissione nel gruppo “Bandiera Nera” dei GAF – idealmente al posto di Pinelli, visto che fui il primo nuovo militante del gruppo dopo la sua morte – la convinzione di confermare lo slogan “Quando un anarchico cade, un altro prende il suo posto” fu emozionante. Nel ricordarlo oggi sorrido, ma allora… avevo 18 anni.
E poi eravamo a Milano, la città operaia, l’autunno caldo. A Milano in particolare nasceva un grosso movimento di contestazione. E si fa sempre più significativa (anche se sempre fortemente minoritaria) la presenza degli anarchici, che dal ‘68 (tre anni prima della nascita di “A”) conoscevano una ripresa dell’anarchismo a livello internazionale L’anarchismo, nonostante fosse presente storicamente dall’800, dalla prima guerra mondiale al fascismo con le occupazioni delle fabbriche, i comizi di Malatesta che riempivano le piazze, il quotidiano Umanità Nova, veniva con la logica della guerra fredda schiacciato in un angolo (nonostante che le nostre sedi dopo il 45 fossero di nuovo frequentate).
Quindi la ripresa degli anarchici con il 68 è forte anche a Milano, ed essendo Milano sprovvista di un giornale anarchico, è notorio che quando si uniscono degli anarchici e si creano dei gruppi nascono non solo dei contrasti ma anche dei giornali, perché gli anarchici ritengono di avere sempre qualcosa da dire (la tendenza a scrivere è una delle caratteristiche degli anarchici, a volte al limite della grafomania). Era nella logica e nella tradizione che nascesse comunque a Milano questo giornale, infatti già negli anni 50-60 a Milano vi era il periodico il Libertario di Mario Mantovani che aveva una sua dignità e che svolse un ruolo significativo nel tenere aperti i rapporti tra movimento anarchico e mondo del lavoro. La ripresa dell’anarchismo nel 68, la ricomparsa delle bandiere rosso-nere nelle piazze e nelle università pone il problema dell’assenza di un giornale anarchico che pesava sul movimento.

Gli occhi all’indietro e in avanti

Con queste premesse i primi numeri hanno avuto successo … ma dopo il terzo numero che cosa è accaduto?
Le valutazioni furono sicuramente positive, “A” rispondeva ad un esigenza, anche se non le soddisfaceva completamente ma solo parzialmente, infatti i primi anni ‘70 sono un fiorire di altri giornali in tutta Italia. UN e la rivista “A”, da un punto di vista quantitativo, sono rimasti i giornali principali, UN di fatto più rivolta all’interno del movimento anarchico, la rivista “A” più rivolta all’esterno.
I giornali anarchici hanno avuto sempre una grossa funzione di organizzazione interna e così è stato anche per la rivista, per portare avanti e coordinare certe campagne. La rivista “A” supportata da un vasto movimento militante che garantiva un bacino d’utenza aveva la pretesa di rivolgersi e di parlare soprattutto ai non anarchici. Un giornale di anarchici ma non per soli anarchici, usando un’altra espressione noi dicevamo di non voler essere “né carne, né pesce”: “A” non voleva essere una rivista puramente culturale ma neanche prettamente militante, questo è importante perché ha caratterizzato tutta la vita della rivista e la sua evoluzione.
Io sono l’unico “sopravissuto” all’interno della redazione del gruppo editoriale originario. In questi anni c’è stato un buon turnover all’interno del collettivo redazionale. I promotori e i primi redattori e collaboratori del gruppo originario della rivista sono ancora oggi in pista, anche se qualcuno per vicende personali ha avuto altri percorsi trasferendosi in Canada e Australia o c’è chi purtroppo è deceduto. I compagni del nucleo principale rimangono ancora oggi tutti impegnati, io nella redazione della rivista, gli altri hanno dato vita ad altre iniziative culturali e militanti, ma soprattutto culturali come la rivista Libertaria, le edizioni Eleuthera, il Centro Studi Libertari “G.Pinelli”. Nel corso dei decenni le iniziative hanno avuto altri nomi come le riviste Volontà e Libertaria, il Comitato Spagna Libertaria, Crocenera Anarchica, le edizioni Antistato Eleuthera ed altre esperienze militanti. E con questi compagni, con queste iniziative i rapporti si sono mantenuti operativi e validi per decenni, a volte con alti e bassi sul piano personale (e mi pare normale). Ma abbiamo saputo e voluto evitare ciò che troppo spesso caratterizza i movimenti “piccoli” (e non solo quelli), in cui gelosie, insofferenze, anche legittime differenze di carattere o di impostazione portano prima o poi a fratture, se non a vere e proprie guerre intestine. E anche la storia degli anarchici non è esente da simili tristi accadimenti.
Noi no: il nucleo originario di “A” è ancora tutto compatto, ciascuno con i propri acciacchi è ancora impegnato a portare avanti il discorso e le attività… di allora.
La militanza anarchica nel corso di decenni è spesso discontinua, ma il gruppo della rivista è un pool di persone, che nonostante tutte le differenze si è mantenuto unito intorno ad un progetto, di cui la rivista è il primo progetto editoriale che a sua volta ha germinato, con l’uscita delle persone, altre iniziative di un progetto culturale condiviso. Gli stessi Amedeo Bertolo e Rossella Di Leo, elementi portanti della rivista nei suoi primi 4 anni, così come Luciano Lanza (che uscì dalla redazione più avanti, nel 1981) continuano la loro collaborazione. Era talmente “importante” l’uscita di Amedeo e Rossella a fine 1974, che per quelli che rimanevano diventava una scommessa poter continuare a farla … Ma dopo 36 anni “A” continua ad uscire.

Com’era la vita nella redazione della rivista a quei tempi, come si sviluppava?
Una curiosità è che la rivista, uscita sempre come mensile, in un numero dei primi anni ‘70 avesse un’avvertenza del tipo “Scusate, ma il mese scorso non siamo usciti perché avevamo troppo da fare”, ossia la redazione della rivista che s’incontrava la sera, era fatta di militanti che durante il giorno avevano chi il loro lavoro o chi studiava all’università. Eravamo persone che vivevano in maniera intensa la loro attività militante, oggi non succede quasi più, è calato il volontariato e il contesto è molto diverso. Allora si tornava dal corteo e si andava a correggere le bozze. Le riunioni erano molto animate e piene di fumo. Io non potrei più partecipare a quelle riunioni, non c’era una sensibilità antifumo. Finivamo quasi sempre con il litigare con i vicini di casa perché la redazione era (ed è tutt’ora) collocata in un piccolo appartamento di un piccolo condominio di un quartiere operaio, oggi popolato da moltissimi cinesi ed egiziani, alla periferia nord-est di Milano. Vicini di casa con cui oggi abbiamo ottimi rapporti non essendoci più quel clima militante con riunioni fino a tardi, piene d’urla … non c’è più quella micidiale macchinetta che imprimeva sulla carta delle buste gli indirizzi fatte su schede di zinco… tong tong … ad ogni colpo seguivano le bestemmie di quelli del piano di sopra, anche se noi mettevamo gli asciugamani sotto la “battitrice” di indirizzi per attutire il rumore.
La sede della rivista era anche una delle sedi anarchiche di Milano, capitava spesso di trovare un compagno straniero che dormiva davanti al portone con il sacco a pelo e non sempre emanava profumi piacevoli, naturalmente questo non entusiasmava i vicini di casa ma neanche i redattori.
La rivista ha avuto solo due sedi. La prima, quando è nata e solo per circa un anno, nel Circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa, nella sede storica di piazzale Lugano 31 vicino ad un ponte. Poi venimmo a sapere di un appartamento di proprietà del movimento anarchico, gestito da vecchi anarchici, non residenti a Milano, che era sfitto. Questo appartamento era appartenuto a una famiglia anarchica pugliese di nome Monterisi che agli inizi degli anni 60 lo donò a Giovanna Berneri la vedova di Camillo Berneri ucciso dagli stalinisti a Barcellona nel 37. Giovanna (che mori dopo qualche anno) curava anche la colonia Maria Luisa Berneri (dedicata ad una sua figlia morta giovane) che era una villetta a Marina di Massa dove durante l’estate i figli di tanti compagne e compagni andavano a trascorrere dei periodi di vacanza in questa struttura sostenuta generosamente da tanti compagni (tra cui molti compagni emigrati negli Stati Uniti … la generazione di Sacco e Vanzetti). Tra i giovani ospiti della Colonia c’erano spesso figli di famiglie anarchiche che altrimenti non si sarebbero potute permettere le vacanze al mare per i loro figli, così come figli di anarchici spagnoli (e di altre nazionalità) esuli. Un’esperienza bella, di segno comunitario e libertario.
Tornando all’appartamento dove c’è ancora oggi la redazione di “A”, c’era anche questo appartamento di proprietà, che però era tenuto sfitto e chiuso. Venendone noi a conoscenza, si chiese il comodato d’uso per poterlo gestire e dal ‘72 (un anno dopo la nascita della rivista, appunto) siamo entrati in questo locale di circa 45 metri quadri con cucinino, fu parzialmente riadattato per poter fare anche una camera oscura per sviluppare le fotografie. Da allora è la sede della rivista ed ora da vari anni è di proprietà della Cooperativa Editrice A. È quindi ufficialmente di proprietà di una struttura di movimento.
Dal 1986 sotto l’appartamento in un seminterrato hanno sede il Centro Studi Libertari e l’Archivio Pinelli, ed attualmente la casa editrice Eleuthera e la rivista Libertaria, un piccolo pool editoriale, la nostra Arcore dell’editoria libertaria a Milano.

Un po’ scavezzacollo e fuori riga, ma…

La rivista ha sempre avuto un’attenzione al passato ed alla storia del movimento. Com’erano i rapporti con i compagni anziani?
L’attenzione alla storia del movimento faceva parte di un progetto culturale. Nel 1973 uscì per le Edizioni Antistato (allora curate da un muratore cesenate, Pio Turroni, con il quale c’era un legame umano molto forte) un opuscolo firmato da cinque compagni, tra cui il sottoscritto, dal titolo “Un’analisi nuova per la strategia di sempre”. Un opuscolo che era la nostra fotografia dell’anarchismo possibile allora e che riassumeva la nostra concezione. Eravamo orgogliosamente anarchici, ma anche criticamente anarchici.
Da una parte c’era la fierezza di far parte di un movimento che era stato tenuto in un angolo per tanto tempo e che invece aveva una sua storia, una storia nobile, che nasceva dalla prima polemica tra Marx e Bakunin, un movimento che quasi non aveva storici o professori, anche in ragione delle sue origini in gran parte proletarie.
L’attenzione al passato era parte del nostro essere anarchici. Il passato era per noi fondamentale, ma non sufficiente. L’anarchismo deve sempre guardare avanti, non fermarsi al proprio passato. Negli anni ‘70 la presenza dei vecchi era numerosa, era la generazione del pre-fascismo che “gestiva” il movimento e lo rappresentava. Ai congressi della FAI ed alle riunioni c’erano tante vecchie barbe e persone anziane.
Con tutti i suoi pregi e difetti, è stata la generazione a cui ho fatto riferimento e avevano “due palle così”, persone che si erano impegnate personalmente contro il fascismo e non solo in maniera teorica. Infatti tanti di loro, a causa della loro coerenza, finirono in galera, al confino, in esilio in Francia, in Belgio, in Spagna e in Russia dove morirono anche come vittime dello stalinismo. I rapporti tra di loro erano molto intensi e significativi, tanto che ai congressi questa esperienza dura veniva a volte fuori e molti scoppiavano a piangere e si abbracciavano.
Nel 1965 nel movimento anarchico, quasi al completo organizzato nella FAI, avviene una dolorosa scissione di una minoranza che non si riconosce nelle nuove modalità organizzative e si crea una nuova federazione, comunque la repressione e gli avvenimenti del 69 ricompattano in parte questa divisione, riprendono gli incontri, i rapporti e i dialoghi in comune.
A Milano i vecchi compagni che si ritrovavano la domenica mattina al circolo erano scarsi e relativamente poco significativi, rispetto al ruolo giocato dai loro coetanei in tante località. La ripresa anarchica a Milano, dopo il boom dell’immediato secondo dopoguerra e il quasi deserto degli anni ’50, data dal 1962, grazie ad un gesto clamoroso (che non aveva niente a che vedere con il terrorismo) che vedeva come protagonista Amedeo Bertolo (ancor oggi presente sulla piazza) allora giovane anarchico, con il rapimento (fatto in maniera molto artigianale e poco organizzata) del vice-console spagnolo di Milano, un gesto nobile e significativo per evitare l’esecuzione della condanna a morte di un compagno anarchico in Catalogna. Il gesto ebbe un riscontro clamoroso sulla stampa e al processo, a Varese, Amedeo Bertolo si costituì e nonostante l’arresto di altri compagni il processo si trasformò in un processo contro il Franchismo. Gli imputati vennero condannati a pene lievissime (di questi tempi sarebbero martoriati dalle leggi antiterrorismo) ed assolti. Fu una specie di piccolo trionfo. Grazie a questo episodio ed al giornale Materialismo e Libertà, si andarono ad aggregare un gruppo di giovani anarchici e libertari. Poi il 68 …
Nel 1971, a livello nazionale, i vecchi compagni accolsero favorevolmente la neonata “A”, furono pochissimi coloro che furono diffidenti davanti all’eccessiva modernità della cosa. ….
I compagni a Milano con Amedeo, conosciuto con i fatti del 62, avevano una grossa credibilità presso i vecchi compagni, credibilità costruita anche dalla presenza militante di Giuseppe Pinelli che insieme a Cesare Vurchio (collaboratore ancora della rivista e del Centro Studi Libertari) oggi 78 anni, allora 40enni … erano i due “vecchi” militanti del giovane movimento anarchico milanese. Appartenevano ad una fascia d’età quasi assente tra gli anarchici perché erano nati e cresciuti sotto il regime fascista. Pinelli aveva contribuito alla crescita della stima dei vecchi compagni nei confronti dei Milanesi, ed essendo ferroviere (e molto estroverso) era considerato il “ministro degli esteri” degli anarchici milanesi, viaggiava gratis con la famiglia (moglie e due figlie), conosceva Alfonso Failla, Pio Turroni, Umberto Marzocchi e tutti gli esponenti più in vista del movimento anarchico italiano.
I vecchi apprezzarono la nascita della nuova rivista e lo vedemmo anche dal fatto che quando chiedemmo l’appartamento per piazzarvi la redazione ce ne concessero subito l’uso. Una credibilità e apprezzamento dovuti anche al peso che davamo nella rivista alla nostra sacra storia, ricostruita pagina per pagina, numero dopo numero. Veniva così a cadere quella diffidenza verso quella parte della nostra generazione, si capiva che non eravamo un’altra ondata di giovani anarchici poco seri che si presentavano ai bordi del movimento facendo casino e criticando (a volte anche giustamente) ma che poi sparivano.
C’era, sempre da parte dei vecchi compagni, una certa diffidenza nei confronti del ‘68, dovuta anche alle polemiche al congresso di Carrara del ‘68 con Daniel Cohn-Bendit. Era la testimonianza di una oggettiva difficoltà del movimento anarchico specifico di rapportarsi con l’emergere di queste grosse tendenze libertarie.
Noi del gruppo di “A” ci si poneva non dico a metà strada, ma si cercava di radicarsi con il vecchio movimento e di non buttare via tutto … la vasca dell’acqua sporca con il bambino dentro, ma di salvare il buono delle nuove tendenze libertarie, sicuramente confusionarie, come il marxismo libertario che si poneva sia a livello teorico che pratico, sotto forma di stretta collaborazione tra gli anarchici e Lotta Continua, Potere Operaio e il Movimento Studentesco …
Non c’era, a mio avviso, una linea giusta e perfetta ma certamente da parte dei vecchi c’era una (perlopiù comprensibile, almeno da parte mia) diffidenza, a volte eccessiva, verso i giovani, però è vero anche che Cohn-Bendit al Congresso di Carrara e tanti altri proponevano sull’onda dell’esperienza delle barricate di Parigi lo scioglimento del movimento anarchico. E i vecchi che, avevano fatto, per esempio, le barricate nel quartiere San Paolo a Roma nel ‘22, qualche decennio prima, non si facevano impressionare dalle asprezze della lotta.
C’è poi un aspetto che mi riguarda personalmente. Io scrivevo da tempo sui due giornali anarchici “principali”, dal luglio ’69 su Umanità Nova e dal dicembre ’69 su L’Internazionale. E anche dopo la nascita di “A” continuai a collaborare, irregolarmente ma per lungo tempo, con quelle testate. Quando nell’aprile 1971 incontrai Marzocchi e Failla a casa di quest’ultimo, a Carrara, in occasione del IX congresso della FAI (e “A” era appena nata da due mesi), ricordo il “perbacco” di Marzocchi che mi disse “ma allora sei tu il Finzi che scrive su Umanità Nova”. Lui aveva ricevuto e pubblicato vari miei articoli (e che orgoglio, dentro di me, quando per la prima volta ne vidi uno pubblicato come “editoriale”, l’articolo più importante, di spalla sinistra!) ma non si ricordava di me (io sì, avevo visto sia lui sia Failla ad un convegno dei GAF a Milano, l’anno prima, al quale i due avevano partecipato come esponenti della Commisione di Corrispondenza della FAI).
Quello che voglio evidenziare è che il fatto che io da oltre un anno e mezzo collaborassi con il giornale della FAI (e, sull’altro versante, con quello dei GIA) e fossi al contempo un redattore di “A” li predisponeva bene nei confronti della rivista, non solo del sottoscritto.

Assolutamente non solo per anarchici

La rivista si caratterizza quindi per la sua apertura all’esterno senza avere paura di confrontarsi con gli altri, cercando gli stimoli per una riflessione libertaria ed è ciò che l’ha caratterizzata per questi 40anni.
Sì, è andato accentuandosi nel tempo anche in base alla nostra esperienza. Se uno va a vedere i collaboratori e le cose che ci sono nel primo decennio, che sono la parte migliore della rivista … lo stato nascente adolescenziale .. sono molto legato a quel periodo … trovo una rivista molto anarchica. La A della rivista che è la stessa di adesso … una rivista molto variegata ed aperta principalmente all’interno dell’anarchismo … vivace a livello internazionale fummo tra i primi a tradurre Noam Chomsky, le sue riflessioni sui nuovi mandarini, sulla rivoluzione spagnola ma anche sul dibattito Marx Bakunin, ci aprimmo moltissimo. Il movimento anarchico passava molto e noi cercavamo tanti spunti all’interno dell’anarchismo, eravamo ribollenti … partimmo nel 71 con un casino di cose da dire e da raccontare …
Con il senno del poi, vedo i primi anni della rivista come un progressivo distendersi di tutto quello che avevamo da dire … e un po’ alla volta cominciavamo a dirle … parliamo di Gori, di Galleani, di autogestione … è un processo che è andato avanti nel tempo parallelamente ai cambiamenti delle situazioni, per capire bisognerebbe vedere le posizioni sulla lotta armata e su tante altre questioni ... la rivista ha accentuato le sue caratteristiche … infatti oggi scrivono più facilmente che allora persone che non sono anarchiche.

Il rapporto tra la rivista e l’epoca in cui veniva pubblicata era di grande differenza rispetto ai linguaggi praticati da altri movimenti presenti allora; leggere una pagina della rivista del ‘72 e leggere un volantino di altre organizzazioni, si notano un linguaggio differente, sempre meno demagogico, sempre meno chiuso, meno autoreferenziato, più sereno, è questo che caratterizza anche negli anni 70 della rivista … la sua apertura.
Sin dall’inizio ci siamo posti il problema di farci leggere dagli altri, anche dai non-anarchici, rifiutavamo le esagerazioni come quelle di Lotta Continua per esempio sulle partecipazioni ai cortei … 200 per la questura … 5.000 per Lotta Continua … se si divide per cinque forse ci si avvicina alla realtà.
Un altro merito della redazione dovuto alla ricchezza del movimento anarchico non solo italiano ma anche quello anglosassone è fatto di libri di personaggi già allora molto conosciuti come George Woodcook, Colin Ward, Alex Comfort … l’anarchismo è ricchissimo e multitematico e rispetto ad alcuni settori anarchici o movimenti della sinistra, sulla rivista non si riscontra il mito dell’operaio, l’operaiolatria come la chiamava Camillo Berneri... Si trova un po di tutto e una grande attenzione al presente, dall’esperienza di una maestra, alle fabbriche d’armi, alle relazioni sindacali… Per esempio, mandammo un nostro redattore a seguire l’autogestione in Francia in una fabbrica di Besançon, la Lip .. si discuteva dei voli spaziali se avevano senso o no … si trovano tematiche su argomenti che sarebbero stati considerati secondari da altri movimenti anche anarchici. Questo è un grande elemento di apertura.
Io sono ancora oggi convinto che se un lettore trova nella rivista due o tre articoli che lo interessino, già l’obiettivo è stato raggiunto.
Nella complessità militante e culturale di allora, la rivista è sempre stata multitematica, anche nei primi anni in cui l’asse portante era la campagna per Valpreda, copertine con “Valpreda libero subito”, ci si è sempre occupati di tante cose. Il che testimonia un interesse verso l’esterno, il nostro target è chi ci legge ossia chiunque abbia voglia di relazionarsi con noi, non abbiamo mai privilegiato un soggetto sociale, per esempio il proletariato …
Uscivamo con nove numeri all’anno perché comunque legati al mondo studentesco ed alle scuole, ma non per questo era una rivista giovanilistica anche se allora l’età media della redazione era sui 25 anni.
Noi non abbiamo mai voluto “dare la linea”, perché come anarchici siamo contrari ad una concezione avanguardista. Questo non ci ha impedito di prendere posizioni redazionali nette, come nel caso della violenza e della lotta armata e su altri temi. La rivista aveva una posizione precisa, ma in generale la rivista con le sue radici nell’anarchismo era concepita come un’agorà, come uno spazio a disposizione di chi aveva qualcosa da dire con una sensibilità libertaria.
L’anarchismo per noi, oggi, è un riferimento emotivo, un riferimento culturale oltre che un riferimento politico, rappresentiamo è vero una parte del movimento anarchico ma siamo soprattutto una palestra di opinioni. Gli articoli tendenzialmente sono firmati e la responsabilità è di chi li scrive e in un contesto dove la lotta politica militante e il ruolo dell’anarchismo organizzato non sono quotidianamente vivaci, noi siamo convinti di rappresentare, e non ci vergogniamo della parola, un punto di riferimento culturale, nel senso medio del termine … né carne né pesce .. non una rivista di grandi approfondimenti ma neanche intenta a dire o far dire banalità, una rivista che rifiuta lo scontato.
Oggi, in un epoca in cui si legge meno, il lavoro redazionale è quello di offrire un giornale che si affianchi ad altri, il lettore della rivista non legge solo “A”, legge anche altri giornali p.e. il Manifesto, Il Diario, L’internazionale, ascolta le radio, consulta i siti ed i blog di internet, vogliamo essere un riferimento non solo per il militante ma anche per tante altre realtà presenti … nel commercio equo e solidale … nel cattolicesimo di base anche nei valdesi ma sempre come singole persone non organizzate… nei marxisti in crisi … tutte persone che possono avvicinarsi ad “A” senza necessariamente trovare la giusta linea, la nuova verità. Non assicuriamo di mandare Berlusconi a casa … che facciamo l’autogestione e mettiamo tutto a posto… ma in realtà in un oggettiva crisi di valori e non solo del sogno rivoluzionario…
Oggi di fronte al dilagare della disoccupazione c’è un dato statistico inequivocabile, cioè che i giovani per la prima volta dopo decenni pensano che il loro futuro sarà peggiore, non solo dal punto di vista economico, di quello dei loro genitori. Questo vuol dire (confermato da paludati sociologi) che sta morendo la speranza.
L’anarchismo ha delle idee stranissime, che sembrano campate per aria: prevede un mondo completamente diverso, che non ci crede nessuno che possa essere visto dalla nostra generazione ma nemmeno da un buon numero di quelle successive. In questa fase le idee anarchiche esprimono una funzione di pensiero non allineato senza rinchiudersi nell’intellettualismo … “A” si rivolge dunque a persone (anarchiche e non) con idee originali che possono esprimersi … condividendo nelle linee generali il progetto generale dell’anarchismo.

Il ruolo di Bookchin e dell’ecologia sociale

La rivista ha mantenuto una sua identità forte infatti si definisce “A” rivista anarchica, anche se si considera un laboratorio. Il nome è la sua autodichiarazione e il laboratorio e il confronto avvengono all’interno di questa identità dichiarata di rivista anarchica. È così?
Sì, il nostro progetto è di fare una rivista anarchica, ma che sia atipica … io ho contrastato le tendenze e le proposte anche interne di chiudere e di fare soprattutto negli anni 80 una specie di Espresso libertario, ossia di fare un salto in avanti sul piano redazionale, distributivo, editoriale, fare una rivista più grossa, con la pubblicità .. più aperta agli altri… una rivista libertaria (in spagnolo è sinonimo di anarchico, in Italia a volte è un sinonimo altre volte è più riduttivo, libertario è un quasi anarchico …).
Uno dei tratti più significativi è che A raccoglie la collaborazione di molte persone che anarchiche non sono e questo non è affatto casuale. Vuol dire due cose. La prima che A raccoglie le simpatie diffuse anche all’esterno del movimento e questo già di per sé non è poco. La seconda, altrettanto importante, è che il pensiero libertario (che viene espresso spesso molto bene da questi collaboratori) non è monopolio degli anarchici (fortunatamente) ma ha una valenza molto più ampia.
Io ho sempre difeso il ruolo di “A” con convinzione. Ma dentro di me non nego che in certi momenti in cui gli anarchici venivano sottoposti a “maltrattamento” mediatico (a volte non senza responsabilità proprie), mi veniva da dire “Viva l’anarchia… abbasso gli anarchici”, ossia c’era la non condivisione e accoglimento dell’immagine che si lascia passare del movimento anarchico e la stessa apertura della rivista, mi hanno fatto sentire, in certi momenti e che riconosco come un peccato, la volontà di sganciarsi dalla “A” cerchiata, dal marchio ideologico … ma ha prevalso sempre l’ancoraggio all’anarchismo dovuto al legame inevitabile e inestricabile con i vecchi anarchici che ho conosciuto … nel senso che potrei diventare qualsiasi altra cosa ma la gratitudine verso quella generazione di anarchici, per come era e per come l’ho vissuta, resta un dato centrale della mia vita.
Un esempio di quei momenti negativi può essere il luglio 2001, Genova, le prime pagine con i Black Blok con le banche e le auto bruciate, che mettevano in secondo piano tutto il lavoro e la presenza specifica degli anarchici in quel movimento, ….
Da quarant’anni oltre che con la rivista io sto con una compagna – Aurora – figlia di Alfonso Failla, qualcuno disse che mi ero andato a “prendere” una donna dell’aristocrazia nera dell’anarchismo, entrando in casa Failla. Entrai così in contatto con gran parte della generazione dei confinanti di Ventotene (es. a casa Failla conobbi Arturo Messinese, che spaccò la sedia in testa al direttore del confino – Tremiti, mi pare – che voleva fargli fare il saluto fascista) oltre a tanti compagni stranieri … ho approfondito e conosciuto maggiormente quel mondo che ha creato questo mio legame personale.
È chiaro che il marchio “A” allontana tutta una serie di persone … il tuo articolo, caro Adriano, era bello e poteva andare anche sul Corriere della Sera, molti articoli in effetti possono essere pubblicati su altri giornali. Se invece di “A” il nome era “B” sicuramente qualcuno in più ci avrebbe letto .. penso ad esperienze come la pedagogia libertaria e le scuole di Ferrer in Spagna o al giornale antimilitarista SenzaPatria che non si sono caratterizzate con l’etichetta anarchica … ma il nostro compito è un altro, ognuno deve essere fedele a se stesso pur mantenendo uno spirito critico.
Noi di “A” siamo nati anarchici e il ruolo che possiamo svolgere, anche se limitato, sarà duplice, un giornale degli anarchici per gli anarchici, ma che anche altri trovino le nostre proposte su un giornale anarchico perché lo stesso articolo di “A” pubblicato sul Corriere anche se letto da più persone non ha la stessa valenza. Uno dei compiti redazionali di una rivista come la nostra è di creare un effetto domino, … la copertina dell’ultima rivista ha un dossier su Pietro Gori, c’è una riflessione di Bifo (uno che viene da un percorso esterno al movimento anarchico) e poi la protesta per lo sgombero di un centro sociale. Sicuramente questo dossier goriano non sposterà il mondo, ma siamo convinti nel nostro piccolo della famosa goccia che ognuno mette nell’oceano.
Malatesta diceva che la situazione sociale è il risultato di un tiro alla fune dove ognuno tira dalla propria parte. È chiaro che da una parte i berlusconidi tirano con la fune d’acciaio e noi tiriamo un filo con l’ago. C’è ancora una scritta su di un muro vicino a casa mia che dice che basta una piccola vibrazione per far saltare l’intero sistema … insomma un lavoro fatto con intelligenza può portare a dei risultati nettamente superiori allo sforzo che ci viene messo dentro.

Ci sono delle tematiche all’interno delle rivista che ritornano ed hanno cucito una continuità su cui ci si è espressi più volte, oltre ad esempio naturalmente del tema della strage di piazza Fontana.
In Italia siamo quelli che hanno scoperto Murray Bookchin e l’ecologia sociale … che ha portato Bookchin dal trotzkysmo agli anarchici, e non è prettamente una roba per anarchici, non è un’anarchia più appetibile, è un filone ecologista che ha fatto nascere anche la tua collaborazione con la rivista, è un attenzione ai modi in cui si vive, al rapporto con la natura, con l’urbanistica, è un tema iniziato con la traduzione di Bookchin nei primi numeri della rivista e che ha dato vita anche a numerose iniziative pubbliche, portando anche Bookchin in Italia e la rivista ne è stata un acceleratore.
Un altro tema ricorrente negli anni 70 è stato il femminismo attraverso l’interpretazione della scuola americana dell’anarca-femminismo, non è un tentativo di rivendere sempre lo stesso prodotto.
L’anarchismo pur contenendo tutto nelle sue idee teoriche, è importante nel suo divenire storico, è la sua evoluzione temporale che è tutta da costruire, Per esempio la rivista ha sempre avuto una sensibilità per il fenomeno punk, i giovani, ecc. Abbiamo fatto un dossier sul veganismo … abbiamo ricevuto una telefonata di una vecchia compagna di 85 anni che ci fa i complimenti per la rivista ma ci dice che con tutti i problemi che ci sono al mondo, chi se ne frega se uno mangia o non mangia l’uovo, che era troppo dedicarci 23 pagine, che c’erano problemi più importanti come la disoccupazione. Naturalmente non sono d’accordo con lei, ritengo infatti come in una copertina disegnata alla metà degli anni 80 dove si vedono un anarchico stilizzato, un militante, con un punk che si interrogavano e non si capivano … quella copertina segnalava un dossier sul Virus, uno dei “covi” europei dei punk, dove noi della redazione ci eravamo incontrati con i punk anarchici, molto simpatici umanamente ma con grosse differenze (anche se alcuni erano più vicini a noi… c’erano anche rappresentanti della curva sud del Milan). La loro musica per me era assordante più delle trombette sudafricane di oggi ai mondiali di calcio. Abbiamo tentato di capire quel movimento tanto che negli anni 80 cominciò a collaborare con la rivista Marco Pandin che faceva parte di quel mondo e che da 25 anni è una delle nostre antenne nel mondo della musica.
La critica della vecchia compagna la respingiamo, io sono convinto che la rivista debba occuparsi anche di queste tematiche e lo debba fare anche sistematicamente. Al contempo uno dei vegani, che non conoscevo se non per e-mail e che aveva collaborato al dossier, lui non anarchico, ci ha chiesto una rubrica fissa sulla rivista visto anche l’interesse del mondo vegano anche di anarchici. Noi gli abbiamo risposto di no, perché siamo aperti a tutte le tematiche ma non riteniamo che il veganismo faccia parte dell’anarchismo in quanto tale .. ma è una delle scelte possibili. Diversamente dall’antimilitarismo, tanto che per questo tema possiamo anche pensare ad una rubrica fissa di opposizione alle guerre, per altri temi (come il veganismo) pur mantenendo un’attenzione, non vogliamo stabilire un rapporto privilegiato. Abbiamo sostenuto (e ci faceva piacere) le campagne del WWF, di Emergency, della Legambiente sempre naturalmente sulle iniziative di base, ma non siamo il loro bollettino.

La questione (gigantesca) dell’uso della violenza

La tematica della violenza è un tema su cui “A” ha avuto una particolare attenzione, ha visto la nascita di un dibattito anche con posizioni diverse, su cui la rivista ha preso una posizione molto precisa.
Esatto. La rivista sin dalla sua nascita si è trovata di fronte a due aspetti della questione violenza, una questione interna al movimento (che fa parte della nostra storia). Gaetano Bresci è spesso l’unico anarchico riportato sui testi scolastici, è l’anarchico venuto dall’America che ammazza il re all’inizio del Novecento, e questo ha un senso e un significato nella disinformazione sull’anarchismo. Ancora oggi l’anarchico è associato alle bombe anche dopo piazza Fontana. In realtà gli anarchici che usarono le bombe e il pugnale a fine ‘800 erano pochi ed in buona compagnia di repubblicani ed altri, però solo agli anarchici è rimasta questa etichetta di bombaroli, anche per alcune carenze all’interno dell’anarchismo.
La rivista è sempre stata critica, pur non avendo mai espresso una posizione nonviolenta. Ha pubblicato articoli nonviolenti ma si è riconosciuta in una posizione malatestiana. Anche se personalmente, invecchiando, divento sempre più vicino alle ragioni della nonviolenza. La posizione espressa dalla rivista sosteneva che la violenza è un elemento negativo ed autoritario da usare solo quando è necessario – siamo stati sempre contrari alla violenza usata come strumento portante di una strategia. Di fronte alle BR siamo stati sempre convinti che la violenza faccia poco bene ai movimenti sociali in generale e probabilmente molti danni all’anarchismo, confermando dall’interno un’immagine consolidata dall’esterno, e che spesso faccia male a chi la fa.
Quindi sulla questione della violenza c’è stata una precisa posizione redazionale. La visione dell’anarchico vendicatore, del colpo su colpo, non è mai stata condivisa, anzi l’abbiamo combattuta, perché la “strategia” del portare gli anarchici ad un legame con la violenza è completamente perdente. Siamo convinti che l’anarchismo possa esprimere le sue potenzialità positive tendenzialmente alla luce del sole, che non vuol dire che chi è stato costretto alla clandestinità “sbagli”. Un conto è una scelta forzata in particolari situazioni storiche. Ma la concezione bakuniniana (di un certo Bakunin) della cospirazione e della (di fatto) avanguardia rivoluzionaria che lavora nell’ombra l’abbiamo sempre rifiutata.
Il movimento negli anni 70 era caratterizzato anche dalle provocazioni di persone anche con disagio psichico … c’erano anche menti malate … e la cosa non era né leggera né senza conseguenze. Su questo noi di “A” siamo sempre stati fermi: un imbecille, anche se anarchico, se va in carcere resta un imbecille. Con noi il “ricatto” della repressione non ha mai funzionato granché.
La tendenza di usare la repressione che inevitabilmente segue e a volte precede certi “fatti” dalle nostre parti si arenava. Perché la repressione è un dato sistemico, non sempre arriva per alcune stupidate fatte… ossia usare la cattiveria della Polizia come strumento o alibi per trascinare l’anarchismo sul terreno della violenza non ci ha mai convinto.
Noi già nel 73 polemizzammo con un parte dei gruppi anarchici toscani di allora per quel tipo di campagna contro il fascismo e per l’antifascismo militante.
Noi sostenemmo la campagna per la liberazione di Marini, un anarchico di Salerno che a seguito di provocazioni fasciste accoltellò uno di loro, Falvella, durante uno scontro. Falvella morì e Marini iniziò un’odissea in carcere, fatto anche di letto di contenzione dal quale uscì distrutto sul piano psicologico. Noi non eravamo per la nonviolenza, ma ci rifiutammo di ritenere che uno dei compiti portanti degli anarchici fosse quello di impedire i comizi dei fascisti.
Personalmente tendo ad essere per quanto possibile tollerante infatti durante la contestazione del 68/69 al Liceo classico Carducci, a Milano, essendo uno degli elementi di punta del movimento di contestazione, rivendicai pubblicamente il diritto anche dei fascisti di parlare in assemblea, che non aveva niente a che vedere con il calo del mio antifascismo. Da libertario ero e resto convinto che la libertà da rivendicare sia anche quella. Ritenevo poi che i fascisti fossero innanzitutto degli ignoranti e che farli parlare fosse una manovra antifascista.
Ci possono essere opinioni diverse e anche storicamente gli anarchici di Carrara si misero alla testa della popolazione per impedire al fucilatore Almirante di tenere un comizio… in certi casi può avere un suo significato preciso. Ma andare a contestare tutti i comizi del MSI voleva dire andare allo scontro con la polizia, non abbiamo mai avuto il gusto da palestra dell’attività politica, non abbiamo mai apprezzato o stimolato lo scontro fisico di piazza, non abbiamo mai apprezzato quelli che durante un corteo pacifico escono con azioni violente e poi rientrano.
Siamo stati duri nel 2001, e in assoluta minoranza nel movimento anarchico, nei confronti dei Black Bloc. La rivista anche durante lo scontro sociale ha cercato di non perdere mai il lume della ragione e dell’autocritica. Il fatto che ci sia una repressione non giustifica l’appiattimento anche contingente sulla posizione del compagno. Se un anarchico fa un azione che noi riteniamo sbagliata e poi viene picchiato … gli mandiamo le arance in carcere ma ci dissociamo da lui e anche se può apparire per alcuni militanti un atteggiamento da cagasotto per non pagare la repressione. Noi riteniamo che la libertà di giudizio sia fondamentale, non possiamo pensare che l’appartenenza ad una famiglia come quella anarchica comporti di sottoscrivere necessariamente quel che fa il cugino scemo.
È chiaro che per questo motivo la rivista è stata al centro di polemiche soprattutto con la componente organizzata del movimento nel 75/76 che faceva capo all’uscita della rivista Anarchismo, una rivista anarchica che assume posizioni molto dure di dissenso nei nostri confronti e sul rapporto con le BR e la lotta armata. Non sono state scelte sempre facili per la rivista … In quegli anni pubblicammo anche un documento di Azione Rivoluzionaria, una componente sicuramente di ispirazione libertaria nel mondo dei gruppi della lotta armata, ci furono compagni anarchici conosciuti arrestati per i fatti di Azione Rivoluzionaria, e in alcuni casi prendemmo una posizione di difesa come nel caso della tennista livornese Monica Giorgi che aveva preso una posizione esplicitamente innocentista rispetto alle accuse mossele per il rapimento del figlio di un petroliere.
Noi ci siamo sempre rifiutati di impegnare la rivista in campagne di solidarietà nei confronti dei compagni, anche se anarchici al 100%, che non prendessero prima una netta presa di distanza dalle loro scelte, quando queste scelte erano per noi (sottolineo, per noi) inaccettabili o comunque non condivise.

Maschi e femmine

In questi 40 anni ci sono stati momenti in cui la rivista è andata meglio ed altri che non è andata molto bene. Quali sono i periodi più faticosi per la sua gestione della rivista, non solo economicamente ma soprattutto nei rapporti con l’esterno e nel dibattito interno al movimento? Quali sono stati i periodi in cui hai sentito maggiormente la fatica della gestione?
Partiamo dal dato della distribuzione della rivista. “A” nasce con vendite intorno alle 7000/8000 copie. La rivista ha un periodo crescente e il numero che ha tirato più copie (13.000, ma le ultime due pagine sul caso Marini furono stampate in oltre 50,000 copie a se stanti) è quello dell’aprile del 73, nel trentennale del 43 ossia l’inizio della Resistenza, in cui abbiamo fatto un numero monografico “Gli anarchici contro il Fascismo” che fu la prima pubblicazione che parlava della presenza degli anarchici nell’antifascismo. Nonostante ci fosse una generazione di anarchici impegnati nella Resistenza non era mai stato fatto niente, anche perché erano compagni più abituati a fare che a scrivere da intellettuali.
Poi la tiratura iniziò a calare lentamente e progressivamente. Per consolarci possiamo dire che gran parte delle pubblicazioni nate in quel periodo sono scomparse. Momenti difficili e d’incertezza furono proprio il periodo della lotta armata e della violenza che condizionarono non solo la società italiana, ma anche la nostra rivista.
Una cosa interessante è la struttura redazionale della rivista perché è su questo fronte che abbiamo avuto difficoltà. Come già detto la rivista è nata da un collettivo, rimase con un collettivo di milanesi caratterizzata da una forte rete di collaboratori esterni. Infatti ci sono articoli del torinese (in realtà un milanese emigrato) Roberto Ambrosoli, del veneto Nico Berti, dei milanesi come il sottoscritto, Amedeo Bertolo, Rossella Di Leo, Luciano Lanza e tanti altri. Nel collettivo di “A” sono passate decine di persone, una caratteristica della nostra redazione negli anni 70 era, esclusivamente come il gruppo Germinal di Trieste della FAI, di essere l’unico collettivo ad avere una parità ed a volte una maggioranza di presenza femminile.
Le foto del nostro movimento prima del fascismo erano quasi esclusivamente di maschi, le donne quando ci sono … sono delle nobili eccezioni. Non era un fatto teorico, probabilmente era legato ad un fatto pratico. Ai maschi, anche all’interno della nostra redazione, spettava più il compito di scrivere, mentre l’amministrazione era appannaggio delle donne anche se la pulizia dei locali era condivisa. Chi stava in redazione ci rimaneva in genere per almeno due o tre anni. Questa esperienza dei collettivi redazionali è andata avanti fino all’89 poi un ciclo si è chiuso, niente a che vedere con la caduta del muro di Berlino e del Comunismo. ma in realtà è dovuta anche alla nascita del mio primo figlio. La rivista, infatti, come tante altre iniziative è fatta chiaramente da persone: quel collettivo redazionale di sei persone iniziava a mostrare la corda. Fausta era sempre più impegnata nella libreria Utopia in cui lavorava e svolgeva attività culturale … e gli altri con problemi più o meno personali fecero della redazione un guscio vuoto.
Attualmente io e Aurora, siamo noi due (cioè una coppia) la redazione attuale della rivista, la nascita del primo figlio in età avanzata, a 37 anni, comportò una modifica delle abitudini di vita ad esempio l’indisponibilità ad uscire di sera, accompagnate dal fatto che le riunioni erano quasi prettamente formali perché gli altri redattori non leggevano neanche gli articoli … ha portato di fatto, da allora, ad una gestione più informale della rivista, quindi si appoggiava quasi esclusivamente su me ed Aurora. Attualmente la riunione di redazione non esiste più e grazie anche alle nuove tecnologie internet, si sono stabiliti dei rapporti stretti con una serie di compagni (tra cui ci sei anche tu, caro il mio Adriano.). Vorrei citare almeno il nome di Massimo Ortalli, un compagno (farmacista) di Imola nonché anima dell’archivio storico della FAI, che pur ufficialmente non fa parte della redazione … ma a cui vengono sottoposti tutti gli articoli di A … assume quindi un ruolo fondamentale nel lavoro redazionale.
Personalmente pur apprezzando sempre di più un lavoro in solitaria ritengo che una rivista debba comunque reggersi su un lavoro collettivo. Pur non essendoci riunioni redazionali, grazie ad internet intervengono 4/5 persone in maniera poderosa da anni con la loro professionalità. Il periodo di passaggio a questa nuova gestione fu quindi di spaesamento e di difficoltà, in questi quarant’anni ho dovuto adeguarmi ai tempi della rivista, un lavoro condizionato dalla continuità più di una casa editrice che pubblica libri. Non si può infatti saltare un numero anche quando prevarrebbero i problemi personali. Si è cercato di tenerne conto e di affrontarli, ma mai estremizzati.
La rivista è stata un’eccezionale esperienza di vita … hai rapporti con tantissima gente creativa … ma tutta gente che vuole un mondo migliore … con tante idee strane. Adesso ci siamo molto aperti all’esterno, soprattutto da quando dall’inizio del primo decennio del secolo ci siamo trasformati (anche) in una casa di produzione musicale, legata ai CD di De André, questo ci ha permesso di allargare i nostri rapporti a tantissima gente.
Mi sono reso conto in tutti questi anni che chi gestisce una redazione come la nostra rivista deve essere prima di tutto un buon psicologo più che un grande giornalista. La percezione che abbiamo del mondo e delle persone negli ultimi anni è quella un mondo in grande sofferenza, dove la solitudine ha un ruolo devastante, esiste un grande bisogno di appartenenza e d’identità oltre che di comunicazione.

Da 28 a 180 pagine

C’è un rapporto molto stretto tra il prodotto e le persone che lo fanno, un legame individuale; come tante altre iniziative del movimento che ha bisogno dell’artigiano, nasce un problema di continuità o meglio di successione, è il problema di passare il testimone, come pensi di affrontarlo?
Sì, è vero, ma c’è un problema ancora prima di quello dell’eredità …
Questa (pur relativa) personalizzazione delle iniziative ed in particolare di “A” contiene dei rischi molto grossi, pensiamo per esempio ad un incidente stradale con la morte dell’unico componente interno della redazione. Partiamo da un esempio diverso come quello di Umanità Nova, il settimanale della FAI, ha una redazione che passa di mano di congresso in congresso. Spesso ha consumato l’energia del gruppo che se ne fa carico, come nel caso del gruppo Machno di Palermo negli anni 70 ma anche di altri. UN, che è certamente un prodotto artigiano, non corre questo rischio: ha girato una decina di gruppi ed oggi addirittura esiste una redazione telematica a cui si collegano persone anche di altre città per le riunioni, ha quindi sempre cambiato redazioni e questo assicura che se scompare un polo per qualsiasi motivo viene sostituito da un altro.
La rivista “A” storicamente non ha avuto questa storia. Non siamo un organo di un’organizzazione, siamo sempre stati indipendenti anche quando c’erano i GAF, di cui “A” non è mai stato l’organo né ufficiale né ufficioso, anche se i redattori nella loro totalità ne facevano parte. È sempre stata un’iniziativa autonoma.
Le vicende della vita hanno fatto si che l’ingresso in redazione di giovani fosse, da un certo punto in poi, di fatto difficile. Infatti pur avvicinandosi persone molto valide, alla fine pur collaborando, non avevano tempo per la redazione, perché impegnate intensamente chi nello studio chi nel lavoro.
Io ho potuto dedicarmi completamente alla rivista in questi ultimi anni grazie ad una favorevole situazione di lavoro (come giornalista free-lance ho potuto gestirmi bene il mio tempo) e finanziaria. La rivista degli inizi, quando poi si è trasformata nel 74 in formato A4 (tabloid) era di 28 pagine con una redazione di 8 persone. Oggi in due riusciamo a far uscire una rivista con 180 pagine, cento normalmente, con relativi prodotti collaterali, ci sono più di 30 dossier.
Negli ultimi dieci anni l’attività di pubblicazione dei CD di De André ci ha permesso entrate per quasi un miliardo delle vecchie lire, 450mila euro, circa 60.000 oggetti venduti. Il lavoro di redazione è diventato molto impegnativo e si tirano più di 4.000 copie, grazie a Fabrizio è stata messa in piedi un’aziendina. Da otto anni abbiamo una persona in amministrazione, che non sono più le compagne dell’inizio, né gli studenti volontari che venivano a darci una mano per poco tempo e pochi soldi. Dalla crescita di lavoro con i prodotti legati a De André, nell’ultimo decennio abbiamo avuto un maggiore impegno amministrativo e abbiamo assunto, in regola una persona (e ne siamo fieri: troppo spesso il lavoro nero trionfa nelle strutture che a parole dicono di combatterlo!).
Una volta per le spedizioni venivano molte persone, oggi non trovi più nessuno disponibile a questo tipo di lavoro. O forse lo trovi, ma con fatica e senza regolarità. I collaboratori vivono ancora la dimensione volontaristica, i nostri collaboratori non sono pagati e non è una cosa così scontata.

L’identificazione personale non è un elemento negativo, ma è una caratteristica di una rivista che dopo quarant’anni ha ancora la sua continuità e che viene pubblicata senza pubblicità. Il Corriere della Sera ne ha 150, ma è un attività imprenditoriale, economica con forti interessi politici, è proprio il rapporto personale con il prodotto che rende la rivista “A” unica. Dietro non c’è una rivista in sé, ma una persona con tutti i suoi rapporti interpersonali: è come un canestro che si riempie di contenuti.
Io sono pienamente d’accordo con te, infatti subii come un’imposizione e contrastai sin dall’inizio quella visione dei miei compagni co-fondatori (come si dice oggi) che avevano una concezione “anonimistica” della rivista, ritenevano che non si dovesse personalizzare. Così inventarono la sigla F. Bizzoni per l’amministrazione e GP. Vittore (il riferimento era al carcere) per la firma redazionale. Quando si scriveva … ci si divideva la posta e chi rispondeva usava la medesima firma. La cosa fu superata in breve tempo ed io ancor’oggi invito sempre a firmare tutto con nome e cognome. Non sopporto l’anonimato o il celarsi, a meno che ce ne siano ragioni gravi (che non sussistono quasi mai).
Le mie relazioni sono la rete della rivista, una rete fatta di amicizia e umanità. È, questa mia, una visione comunitaria della rivista e la personalizzazione è quasi obbligatoria, fa parte della storia del movimento anarchico.
Il mio punto ideale di riferimento è stata la rivista il Risveglio che quasi nessuno conosce ma che uscì in Svizzera per quasi 50 anni di seguito, fatta da Luigi Bertoni, un anarchico milanese che abitava in Svizzera, un giornale bilingue e a volte anche trilingue: italiano, francese e tedesco. Pier Carlo Masini dedicò una conferenza bellissima a Luigi Bertoni, pubblicata su Volontà nel 72, di cui io imparai a memoria vari brani. Con il calore e la proprietà di linguaggio che gli erano proprii (e che hanno fatto di me un suo grande ammiratore, aldilà di differenze politiche anche significative) il toscanissimo Masini parlava di questo tipografo che a Ginevra componeva e stampava il giornale e che con una carriola andava fino alle poste centrali per spedirlo. Era un punto di riferimento in Svizzera importantissimo per tanti antifascisti conosciuto, anche da Sandro Pertini. Faceva tutto lui, altro che Paolo Finzi.
Anche l’Adunata dei Refrattari per 50 anni negli Stati Uniti è stato legata alla figura di Raffaele Schiavina.
La rivista con i suoi 40 anni inizia ad essere qualcosa, Umanità Nova ne ha festeggiati 90, interrotti dal periodo fascista: uscì prima come quotidiano e poi dopo il ‘45 come settimanale, non ha mai smesso di essere pubblicato. E ricordo con una punta di orgoglio, ma soprattutto con la soddisfazione di aver dato un segno di fratellanza in quegli anni un po’ troppo settari, quando a Mariella e Massimo – allora della redazione di UN appunto affidata , nel ’76, alla FAI milanese – consegnai il primo testo sulla nascita nel 1920 del quotidiano Umanità Nova. Ero di “A”, dei GAF, vivevo in un altro “settore” del movimento, ma collaboravo con la FAI e il suo giornale. Allora non era scontato. Almeno non per tutti.
Lo stesso Malatesta fondò e diresse vari giornali ma aveva alle spalle, come amministratore e braccio destro, un anarchico di Ancona, Cesare Agostinelli, che si occupava di tutto.
Il problema dell’“eredità” è legato alla possibilità di integrazione con altre persone più giovani all’interno di questa iniziativa. Rimane per ora un incognita. Infatti molte iniziative anarchiche sono morte o rimaste interrotte con la morte o la malattia della persona che le faceva.
Un esempio ne è l’Internazionale, a cui ho avuto il piacere di collaborare. Espressione dei Gruppi d’Iniziativa Anarchica (GIA), nati nel 65 in seguito a una scissione nel movimento anarchico, l’Internazionale rappresentava una mentalità ed un età “vecchia”, c’era Luciano Farinelli, anarchico di Ancona, che ha portato avanti questo giornale: alla sua morte, dopo 15 anni di pubblicazione, chiuse. Quel giornale era espressione di un certo tipo di movimento, di cui Farinelli era il rappresentante. Tirava 1500 copie, in grande maggioranza distribuite gratis, ma aveva un suo senso in quel contesto.
Il fatto di non avere “eredi” non è così negativo, l’anarchismo ha tante risorse, è come quelle strane fontane fatti di improvvisi getti d’acqua, dove esce l’acqua in piazza, prima è qui poi è lì. Sono sicuro che anche dispiacendomi per un’eventuale chiusura della rivista ci sia sempre qualcuno che, con iniziative analoghe o diverse, possa portare comunque avanti il discorso, ovvero la fiaccola, come si diceva nel vecchio movimento anarchico. Potrà sembrare a molti retorica, ma questa fiaccola sintetizza il senso del mio impegno.
Non sono mai stato un drago in educazione fisica e le Olimpiadi non sono mai state nel mio orizzonte. Anzi, se è per quello, nemmeno le gare scolastiche. Ma pensare di esser stato finora un tedoforo mi gratifica e penso rispecchi la (mia) realtà.

Parliamo ora dei dossier e di tutto quello che è fuori dalla rivista, tutti quei prodotti che escono oltre alle pagine di “A”.
Mio caro Adriano, tu sei qui in pieno conflitto di interessi, altro che Silvio! Perché il qui presente Paolella e la sua compagna Carloni sono gli autori di una decina di dossier realizzati per la rivista, gli unici concepiti come un delitto seriale, concepiti in maniera sistematica e fatti dalle stesse persone con tematiche di grosso interesse non esclusivamente anarchico. Ci sono dossier che attingono alla nostra tradizione dell’anarchismo tipo quelli di Kropotkin, Proudhon, Bakunin e Malatesta fatti con i primi numeri della rivista, altri di storia come quello sull’antifascismo anarchico e quello su Emilio Canzi, un partigiano anarchico piacentino di particolare rilevanza per la Resistenza.
La rivista si è posta anche come strumento ad uso politico, ogni dossier ha un costo preciso e un numero di pagine predefinite oltre che lavoro in più, è quindi un omaggio che la rivista fa alla propaganda anarchica ma non solo. Come “Leggere l’anarchismo”, una guida alla lettura realizzata da Massimo Ortalli, tanto più pregevole perché non conosce precedenti nella pur lunga storia degli anarchici. Dà la possibilità di sapere cosa si può leggere di anarchico, un elenco ragionato e aggiornato di tutte le cose anarchiche e non che escono sull’anarchismo e dintorni, sulla psichiatria libertaria, sull’ecologia ecc. È uno strumento tematico per i simpatizzanti di quello che puoi trovare ed ordinare in libreria.
Abbiamo fatto un dossier su Serantini e anche per esigente locali, come nel caso del Germinal di Trieste con un dossier sulla loro storia, quando dopo quasi 40 anni dovettero lasciare la loro ormai storica sede di via Mazzini 11, in pieno centro. Recentemente Francesca Palazzi Arduini ha realizzato un dossier sui meeting anticlericali, di storia ed attualità, che ricostruisce l’esperienza laica ed anticlericale degli anni 80/90. Ormai ne facciamo 3 o 4 l’anno di questi dossier, sono uno strumento che ci piace e va bene.

Il nostro Fabrizio De André

Un discorso a parte merita Fabrizio De André.
Certo. La morte di Fabrizio ci ha molto segnato. Già nel 74 avevamo un rapporto con lui. L’uomo Fabrizio, naturalmente, aveva le sue caratteristiche e le sue grandezze, ma sono convinto che le sue canzoni rappresenino un grande momento di pensiero libertario. Era una persona molto colta, leggeva un libro per notte dormendo di giorno, un rapporto molto coinvolgente (essendo io da sempre un suo fan), a volte intenso ed a volte non ci si vedeva per un paio d’anni, fece dei concerti per la stampa anarchica, donò dei soldi in particolare alla nostra rivista … tutto alla luce del sole nell’elenco dei nostri fondi neri.
Il 12 gennaio del 1999, il giorno dopo la sua morte, su tutti i giornali si parlò anche di De Andrè anarchico, sottovalutandone i contenuti ed io ho sentito quasi come un “dovere” difendere la sua componente anarchica, da lui dichiarata già negli anni 60. Anche se non si può racchiudere Fabrizio in un’unica definizione per la sua multiculturalità e vivacità artistica, lui stesso dichiarò di aver conosciuto gli anarchici da giovane e di non aver mai trovato di meglio che potesse esprimere il suo pensiero. Quando lo conobbi nel 74 per fargli un’intervista per la rivista (avevo un registratore che non accesi) era più timido di me e mi disse subito di essere anarchico. Non aveva certamente una visione militante e dichiarò di essere dalla parte delle puttane e dei suicidi, a noi che eravamo militanti e che allora ci occupavamo di altri temi sentir parlare di puttane, zingari e suicidi non ci sembravano certamente argomenti centrali … pur avendo simpatia per loro.
A distanza di tempo mi sono accorto (senza nessuna piaggeria) che Fabrizio ci aveva anticipato, era un uomo con grandi antenne. Il suo anarchismo non politico, non militante, non movimentista, era un anarchismo profondo ed intelligente. Il numero di marzo del 99 uscì con Fabrizio in copertina ed una serie di articoli (il numero andò esaurito), però creò una grossa polemica nel giro di “A”, perché alcuni stretti collaboratori non erano d’accordo a dedicargli la copertina. Culto della personalità, era la critica che aleggiava: e poi per un personaggio che comunque apparteneva allo show-business. Litigammo animatamente. Io ero convinto che l’onda emotiva seguita alla sua morte aprisse nuovi e maggiori spazi per l’anarchismo. Difendendo l’identità libertaria di De André, ci era offerta un’opportunità di “cavalcare l’onda” di interesse su Fabrizio. Mi sono poi reso conto per le reazioni e l’interesse poi sui suoi Cd da noi prodotti, che Fabrizio aveva inciso nella pratica libertaria di tantissime persone non solo in campo musicale, ma anche nella loro vita personale (c’era gente che aveva rifiutato il militare). Su Fabrizio c’era un cordoglio libertario e in molti avevano pianto alla notizia della sua morte.
In seguito alla pubblicazione di quel primo dossier dentro “A”, nel marzo 1999, e poi la sua ristampa, i CD, i DVD, le decine e decine di conferenze e presentazioni da me fatte un po’ in tutt’Italia, ricevemmo centinaia, migliaia di e-mail, fax, telefonate, letterine scritte a mano, tutte di persone persone che avevano con lui un rapporto intensissimo, anche se non l’avevano mai incontrato di persona.
Una delle cose più belle che ho fatto nella mia vita, un’idea di cui vado fiero, forse dopo i miei figli, è stata l’ideazione, la creazione e la distribuzione di quel primo nostro CD “ed avevamo gli occhi troppo belli”, che è subito entrato a far parte della discografia “ufficiale” di Fabrizio, anche grazie a quel boot-leg inedito, autorizzato da Dori. Ciò mi ha permesso di considerarmi… un produttore di Fabrizio, una cazzata se vuoi, ma ognuno ha le sue. E poi la presentazione di quel CD alla stampa in un campo Rom...
Aiutati da una ragazza, purtroppo morta di cancro recentemente, Iride Baldo, dell’ufficio stampa di Fabrizio, era una di Radio Popolare con mille conoscenze, aveva lavorato per mesi (gratis, mi piace sottolinearlo) per convocare i giornalisti, ci siamo cosi trovati decine di giornalisti in un campo Rom alla periferia nord-est di Milano, con Dori Ghezzi, don Andrea Gallo, Mario Luzzatto Fegiz e con i senatori del giornalismo musicale … con i Rom intorno, a presentare questo CD, che aveva in copertina un bambino rom. Fu un successo strepitoso, il giorno dopo le Feltrinelli ci chiamarono per il CD, la cosa divenne complessa tanto che abbiamo dovuto “assumere” cinque persone in redazione pro tempore, di cui una era Michela che poi è rimasta “a libro”. Per mesi e mesi andammo tutti i giorni all’ufficio postale per le spedizioni.
I giornalisti ed il tam tam nei siti di De André ci fecero una pubblicità gratuita e con il giro di conferenze il CD è diventato il nostro leit motiv… e per due o tre anni le nostre entrate erano per tre quarti i ricavati dalla vendita di De André, il che ha poi anche sostenuto l’aumento delle pagine della rivista. Con questo prodotto abbiamo sfondato verso l’esterno tra migliaia dei suoi fan, che sono di tutti i tipi. Io sono convinto, riascoltando le sue canzoni, che Fabrizio sia stato anche un grande propagandista anarchico.
Quando stava realizzando l’LP le Nuvole lui mi telefonò dicendomi che stava facendo un LP anarchico, ho pensato ad una nuova “Addio Lugano bella” ma poi non c’è la parola anarchia e non c’entrava niente con noi anarchici, nel senso specifico del termine. Però se uno prende le sue canzoni si rende conto, come nel Testamento di Tito, che è il programma anarchico di Errico Malatesta, è la stessa roba messa alla De André, al 100% anarchico.
Fabrizio fa da anello di congiunzione tra l’anarchismo e un certo mondo, hanno imparato a rispettarci per come abbiamo fatto le cose, anche se c’è chi ci ha accusato di aver marciato sull’amico cantante, di aver fatto i soldi (e ne abbiamo fatti tanti!), tutti – fino all’ultimo centesimo – reinvestiti sempre dentro la rivista e in “prodotti” come l’ultimo DVD sullo sterminio nazista dei Rom. Anche questo ha avuto un successo eccezionale, più di 4.000 copie distribuite a un prezzo di 30 euro, nelle scuole, agli insegnanti, è un acquisto meditato, venduto uno per uno, dedicato a Fabrizio perché portava avanti queste tematiche che sono anche nostre.

Il lettore di “A”

Questa attività sui Rom è una grande acquisizione culturale, ha aperto un ambito di riflessione e di documentazione che era assolutamente marginale. In questo hai avuto una grandissima intuizione, il DVD “A forza di essere vento. Lo sterminio nazista degli Zingari” è uno strumento in più di riflessione.
Oltre a tutta la documentazione e all’interesse personale, si coglie tutta l’attualità della questione Rom, colta anche da Fabrizio con la canzone “Khorakhanè a forza di essere vento” dentro “Anime salve”, una canzone eccezionale dove dentro ogni verso c’è tutta la lettura di tanti libri. Lo so perché Fabrizio andava ad ordinarli alla libreria Utopia, una libreria anarchica di Milano, so cosa leggeva, conosco il lavoro che c’è dietro a quelle sue canzoni, un lavoro di profonda cultura, lo studio della storia, il contatto con i Rom, i suoi colloqui con il rom harvato Giorgio Bezzecchi, mio carissimo amico.

Chi sono i lettori della rivista, sono cambiati rispetto al passato, quali sono le caratteristiche attuali?
Non abbiamo mai fatto un’indagine statistica in questo senso, viaggiamo su dati che derivano dalle nostre antenne, dalla nostra percezione. Ci basiamo su chi ci contatta, ci scrive, ci dà un parere: il lettore di “A”, a mio avviso, è di tutto e di più, non colpisce un settore in particolare, potremmo dire che in prevalenza sono giovani ma non è una rivista vissuta come giovanilistica, anzi per molti di loro è un po’ paludata.
La rivista da anni è presente anche on-line, ieri abbiamo ricevuto la lettera della compagna che in Sardegna fa il lavoro di messa in rete, ci segnalava che il numero appena uscito è già disponibile on-line, quando molti non l’hanno ancora ricevuto a casa. Grazie al “contatore” conosciamo i contatti on-line e sono circa 6/7.000 contatti al mese, non sappiamo che cosa e per quanto tempo leggano. Noi riteniamo, tra lettori cartacei e lettori on-line, di avere circa 12.000 lettori al mese. Il lettore di “A” va dallo studente all’operaio, da un piccolo paese alla città, è un lettore sveglio ed impegnato fruitore dei media, usa la nostra rivista per documentarsi così come usa altre fonti. “A” non è vissuta come organo interno al movimento, cadute le ideologie ed il settarismo siamo letti da anarchici e libertari di tutte le tendenze, anche perché diamo spazio a molte tendenze, siamo vissuti in maniera molto aperta. La nostra rivista in genere è apprezzata anche all’estero.

Ci sono dei rapporti internazionali della rivista e quali sono?
Qui siamo carenti, anche se contatti ce ne sono. Le sinergie avvengono solo occasionalmente come recentemente per un dossier sul Messico e uno sul movimento anarchico russo. Un esempio: un centro culturale anarchico con sedi a Londra e a San Francisco ha tradotto in inglese di sua iniziativa il nostro dossier sul partigiano anarchico Emilio Canzi.
Ci sono essere temi d’attualità che potrebbero essere coordinati internazionalmente, invecepur essendo gli anarchici a carattere internazionale e presenti in decine di paesi, a livello di stampa non si è riusciti neppure con i dossier ad avere obiettivi d’interesse comune. In passato nel periodo “militante” degli anni 70 si creò una rete di giornali anarchici sud-europei che comprendeva IRL, una rivista fatta a Lione in Francia; dopo alcuni incontri transalpini, il risultato fu solo la possibilità della rivista di entrare in qualche biblioteca o libreria che aveva testi anche stranieri.
La nostra rivista, in italiano, potrebbe essere leggibile nei paesi di lingua spagnola, ma la distribuzione e la collaborazione rimane un nervo scoperto per la nostra rivista e per la comunicazione libertaria. Oggi internet sposta un po’ il problema, perché chiunque può andarsi a leggere la rivista anche dal Madagascar, e il nostro sito ha sempre un breve riassunto in inglese di ogni numero.

Ho visto un’intervista ad Ascanio Celestini fatta da Alessio Lega; in un momento in cui la cultura ha sicuramente dei grandi vincoli dal punto di vista economico e anche di una censura non dichiarata, appoggiare queste persone può essere significativo.
Sono pienamente d’accordo. Ascanio è stato intervistato da Alessio Lega, un cantautore con molte conoscenze. Ascanio è anche un grande amico di Cristina Valenti che segue principalmente il teatro sulla rivista, e anche di Massimo Ortalli. Ha prestato la sua voce alla trasmissione televisiva “Quando l’Anarchia verrà” proposta qualche mese fa dalla RAI con interviste a vari anarchici. Ascanio era stato filmato, però è una parte che poi è stata tolta nel montaggio.
Un altro personaggio famoso che ho conosciuto e che mi ha fatto una grande impressione è Giorgio Gaber, venne a trovarci in redazione, alla sua morte abbiamo dedicato un dossier dal titolo significativo “La sua generazione non ha perso”, Ne inviammo anche copia alla vedova Ombretta Colli (Forza Italia) ma non si è fatta viva. In questo caso non c’era da affermare un anarchismo di Gaber, che non c’era e non c’è mai stato sul piano dell’autodefinizione, però abbiamo sempre sostenuto che Gaber, con la sua opera dissacratoria, fosse, anche lui, un interprete libertario dei nostri tempi. Abbiamo però seguito non solo i Gaber e i De André, ma anche i gruppi che si trovano nelle cantine …

La possibilità della rivista in questo ambito è di porsi come sponda culturale …
Certo, pensa che l’operazione fatta da Marco Pandin e il merito è tutto suo, di aver fatto prima i “Mille papaveri rossi” in autoproduzione e poi da noi riproposto per le librerie, è stato molto apprezzato anche da Dori in quanto era un’operazione culturale con interpreti del popolo delle cantine anche di lingue diverse. Per esempio ci sono canzoni di Fabrizio interpretate in serbo, in romanì, in friulano, in sardo, in occitano, ecc. È stato un lavoro di interpretazione intelligente, che ha portato avanti le tematiche “dialettali” così intelligentemente care a De Andrè.
Certo ci sono tante cose importanti per la rivista che noi non facciamo per mancanza di tempo, di gente che si impegni a fondo a seguirle, ecc. potrei star qui ad elencartele, almeno una decina: c’è la scusa sempre valida che siamo pochi. Ma io sono convinto che la capacità di un redattore sia anche quella di stimolare l’energia altrui, in parte viene fatto ma non a sufficienza, riusciamo a sfruttare una potenzialità solo del 10% di quello che si potrebbe fare. In un assemblea recentemente a Palermo, con rappresentanti di Trapani e Catania. presenti 25 persone, ci è stato detto da uno in maniera provocatoria ma interessante che la rivista per come usa internet è da defunti, che bisognerebbe creare un blog, mettere notizie più attuali e confrontarci su quello: tutto ottimo ma o si trasferisce lui a Milano e ce lo viene a fare o lo fa dal suo paese dopo aver creato un rapporto di fiducia con noi. Le potenzialità legate ai nuovi media sono tantissime.

Questo è un buon segnale perché se ci sono dei riscontri dall’esterno vuol dire che la rivista è in sintonia se non addirittura anticipatrice.
Il merito della rivista è come ad esempio nel caso di Elena che ha scritto dei Pink che al contrario dei Black Bloc fanno proteste nonviolente, molto creative ed antistatali. È una ragazza che fa capo al Centro Sociale Torchiera di Milano con cui stiamo cercando di costruire una relazione con la rivista. È chiaro che il problema è quello delle antenne … io non arriverò mai ai Pink, non sapevo neanche che esistessero dal mio scranno redazionale … però questo è il lavoro redazionale, di innervarsi con le persone che presidiano i vari aspetti sociali. Altro esempio la Comune di Campanara nel Fiorentino che ci hanno scritto per ricostruire un collegamento con le realtà agricole, con il biologico … ci sono varie realtà in Toscana e altrove che da vent’anni portano avanti questi progetti. Già vent’anni fa abbiamo seguito queste esperienze con Fausta Bizzozzero e Massimo Panizza (allora entrambi redattori di “A”) che per circa una settimana girarono la Toscana a prendere contatti e fecero un bel resoconto su “A”.
Così si fa la rivista, non solo recependo delle cose ma anche facendo del giornalismo attivo. Un fenomeno recente interessante è la mobilitazione delle famiglie sui casi delle persone uccise dalla polizia in carcere o per strada, Cucchi, Aldovrandi, ed altri. Questo è interessante perché negli anni 70 le reazioni delle famiglie erano quasi sempre individuali, isolate, non coordinate. Mentre oggi s’è creata una sorta di solidarietà tra di loro, è un fenomeno che parte dal basso a cui la nostra rivista si deve interessare magari con un inviato. Come il caso di Francesco Mastrogiovanni che è uno di questi casi e di cui la rivista si sta occupando perché legato al nostro ambiente anarchico: anche in questo caso grazie ai rapporti fraterni che ci uniscono all’ottimo Angelo Pagliaro, che “copre” il caso con passione e capacità giornalistica (e non è comune trovarle congiunte). È evidente che in questi casi non è importante che la vittima sia anarchica o non lo sia, è il dramma (e spesso la tragedia) dell’individuo solo di fronte al potere. C’è gente che se ne occupa seriamente da anni, per esempio c’è l’associazione di Manconi che fa un buon lavoro, contattiamola … vediamo se possiamo pubblicare il loro materiale. Anche se troppo poco, spesso abbiamo contattato e abbiamo dato spazio a chi già opera, concretamente, nelle realtà difficili. Meno slogan, più pratica. E allora ecco sulle nostre pagine Emergency, Amnesty, Telefono Viola, ecc.

Sicuramente la situazione della rivista negli anni 70 è differente dagli anni 80 …
Certo, gli anni 80 sono notoriamente gli anni del riflusso, della Milano da bere, c’è Berlino con la simbologia del muro, la caduta del comunismo. Sostenemmo la sottoscrizione per finanziare i nuovi gruppi di compagni nell’ex-cortina di ferro … la rivista è sì sensibile ai cambiamenti dell’epoca … abbiamo però sempre un nostro ruolo che prescinde dai tempi …
Nico Berti ha spesso ripetuto un’affermazione molto valida “nella storia, ma contro la storia”, il nostro compito è di essere dentro i tempi ma non è condizionato dalla situazione storica.

Questo è interessante. Stai dicendo che la rivista ha un autonomia dalle condizioni esterne, che interagisce con le cose esterne ma ha un percorso proprio …
Sì, però come redattore vorrei dire che la rivista è innanzi tutto un discorso militante, ed è il modo con cui io ho contribuito a farla e la faccio, il nocciolo della questione è propria questa convinzione del militante, sono convinto che la rivista sia una fiaccola dell’anarchia, e questo è il motivo per cui nei momenti di difficoltà non mi ponessi neppure il problema di chiudere … ci ho messo l’anima, in questi 40 anni, perché quando mi sono avvicinato al movimento ho avuto l’impressione che mi abbiano dato tanto i vecchi di allora, non l’anarchia “astratta” ma gli anarchici, le persone in carne ed ossa, cuore e cervello, che ho incontrato e ai quali – in tanti casi – mi sono affezionato anche personalmente. È una lunga lista, che a chi non li ha conosciuti uno per uno dice poco o niente: Alfonso Failla, mio suocero, e poi Umberto Marzocchi, Umberto Tommasini, Maria Zazzi, Tommaso Serra, Vincenzo Toccafondo, Cesare Fuochi, Libero Fantazzini, Pio Turroni, Giuseppe Raffaelli di Montignoso, e poi gli “americani” (emigrati dall’Italia in Nord America, come Sacco e Vanzetti – per intenderci) Attilio Bortolotti, John Vattuone, Alex Saetta, Marco Giaconi, John the cook, Bastiano Magliocca, Max Sartin, Ettore Bonomini, ecc. ecc..
Non è l’idea che mi ha dato la “forza” o la prospettiva di realizzarla (ho sempre avuto un sano e profondo scetticismo sulla realizzabilità dell’utopia anarchica, e più invecchio meno ci “credo”), questo nuovo mondo che portiamo nei nostri cuori (secondo la poetica espressione di Buenaventura Durruti) mi è sempre parso una bellissima idea, bellissima e al contempo “strampalata”. Mi dispiace (forse) ma credo nelle cose concrete (devo aver preso questa attitudine da mio padre, il cui scetticismo trovava espressione nelle poesie amare e disincantate di Trilussa), credo che questa idea bellissima e/ma “strampalata” possa essere motore di tante energie positive, che il tendere verso questa idea sia di per se positivo, ma non è finalizzato alla sua realizzazione. Qualsiasi persona di buon senso a partire da Malatesta non credo avesse pensato di arrivare ad un mondo pacificato.
Da un punto di vista affettivo, occuparmi della rivista è stato un po’ il mio modo di ringraziare quei compagni.
Ricordo un giorno di aver buttato un giornale un po’ strappato nel cestino e di essere stato redarguito da un vecchio compagno, che mi faceva notare che avrei potuto lasciarlo sul metro per farlo leggere a qualcun altro. È nata anche da qui la concezione militante, da questi compagni spesso autodidatti che avevano un grande amore per la carta stampata. La militanza tradotta in lavoro diuturno, regolare, serio, nel lavoro che crea comunità, che crea relazioni, che crea solidarietà, la piccola goccia del mondo che sarà. E allora si diventa più credibili, usando un’espressione dell’odiato linguaggio militare si può affermare che l’anzianità fa grado.
Non sempre il durare e perdurare è di per se positivo. Non mi sono mai illuso di cambiare il mondo, quello che mi interessa è il come fai le cose … mi interessa non la pianta ma il seme … o meglio il seme che un po’ alla volta diventa pianta … quello che mi interessa è il mezzo e non il fine … tutto questo è legato alla convinzione che il fine sta nei mezzi … il mezzo che usi è il fine che tu vuoi realizzare, la rivista è quindi un piccolo esempio di anarchia … ho unito la mia professione di giornalista free-lance con l’anarchia e con la mia passione per la carta stampata … Con tante contraddizioni, certo. Ma anche con una soddisfazione di fondo.

Quello che consolida una rivista è la coerenza nel tempo, ed è una delle cose più difficili da realizzare in un mondo profondamente incoerente. 40 anni di coerenza come la non-pubblicità sulla rivista fa paura, richiama l’attenzione. La rivista rappresenta una rarità, la realizzazione di un’idea praticata, ha mantenuto una sua identità.
È vero che dall’esterno si coglie di più. La coerenza, se approfondita, è un discorso complesso perché se diventa rigidità, spocchia verso gli altri, se porta ad una eccessiva autoconsiderazione può essere pericolosa … la distinzione è tra orgoglioso di essere anarchico e spocchioso di essere anarchico … Orgoglioso vuol dire che noi sappiamo che, ripulito di varie cose (non poche, a volte), l’anarchismo è un filone significativo della storia e del pensiero e che può avere anche un ruolo positivo. Spocchioso è invece pensare che gli anarchici abbiano già la verità in tasca, cosa che non pochi sono serenamente convinti di avere. Sono convinto che l’anarchismo sia uno strumento fondamentale anche culturale per la trasformazione in senso libertario. L’anarchismo è irrinunciabile, fondamentale, ma non sufficiente, l’anarchismo è indispensabile ma insufficiente.
In altre parole, non si può fare a meno dell’anarchismo nel pensare ad una trasformazione sociale. ma non basta solo l’anarchismo.
Gli esempi storici della Spagna, Kronstadt, la Maknovcina, e quelli esistenti come la comunità di Urupia, il municipalismo libertario dei compagni di Spezzano Albanese (lo dico senza nessuna sottovalutazione perché sono convinto che siano esperienze concrete importanti) non bastano a prospettare un cambiamento del mondo. La nostra storia ed il nostro pensiero non sono sufficienti. Noi dobbiamo abbeverarci anche ad altri pensieri … Bisogna stare a sentire gli altri, soprattuttto chi concretamente opera, ma anche chi riflette sull’esistente a partire da altri filoni di pensiero, anche religioso. C’è gente che in tante parti del mondo sta realizzando cose interessantissime senza far alcun riferimento all’anarchismo. Tanta gente. È possibile fare cose buone, anche ottime, al di fuori dell’anarchismo (non contro, però).
Come anarchici dobbiamo riguadagnarci tutti i giorni spazi e credibilità. Nei suoi quarant’anni, credo che la rivista “A” abbia dato un suo contributo specifico nel conquistare questi spazi e questa credibilità.