Rivista Anarchica Online


Cina

Uno spettro si aggira per la Cina
di Gianni Alioti

Situazione economica, tensioni sociali, scioperi e altre forme di lotta, sindacalismo di Stato (e tante altre cose) nella seconda potenza economica mondiale.

 

La scia di suicidi alla fabbrica Foxconn

La catena di suicidi, verificatasi nel 2010 tra i giovani operai nella città-fabbrica “senza nome” più grande al mondo, ha scosso le nostre false coscienze di consumatori occidentali, in fila per comprare il nuovo Ipad o l’ultimo smartphone della Nokia. Sono 420 mila gli operai, tra i 17 e 24 anni, che lavorano nei reparti della Foxconn, divisi tra Longhua e Shenzhen nella regione cinese del Guangdong. Nelle 20 fabbriche che la Foxconn ha in tutta la Cina lavorano oltre 800 mila persone.
La Foxconn Technology Group, con sede a Taiwan, è il leader mondiale della produzione di componenti elettronici per notebook e computer, cellulari e smartphone, fotocamere, videogiochi e lettori mp3. Tra gli utilizzatori i principali marchi dell’elettronica di consumo nel mondo: Apple, Dell, Ericsson, Hp, Microsoft, Motorola, Nintendo, Nokia, Sam­sung e Sony. Molte di queste aziende hanno codici etici di condotta, che dovrebbero (almeno sulla carta) renderle responsabili socialmente anche per quello che accade nella catena dei fornitori.
Lee Cheuk Yan, 52 anni, responsabile della Federazione dei sindacati di Hong Kong, sui 15 suicidi tentati e 13 morti alla Foxconn (dal gennaio al luglio 2010), ha detto all’agenzia AsiaNews che “sono il risultato di una politica di gestione oppressiva e cieca. Per i lavoratori, soprattutto per i migranti, la situazione è terribile: sono trattati come bestie nonostante abbiano lasciato casa e famiglia per cercare un lavoro. Non hanno il supporto della famiglia, affrontano pressioni incredibili e non hanno alcun sostegno umano: scelgono la via più estrema perché non hanno alternative. Qui a Hong Kong non abbiamo giurisdizione sulla Cina continentale: ma possiamo fare pressione affinché le fabbriche trattino i loro operai in maniera umana. Non c’è altro modo per evitare i suicidi”. (1)
La responsabilità di questa situazione, prosegue, “è sicuramente del Governo cinese. Ma anche la comunità internazionale ha le sue colpe, perché cerca soltanto manodopera a basso costo senza preoccuparsi del modo in cui questa lavora. Ecco perché dobbiamo fare in modo che ci sia più consapevolezza della situazione: si deve lottare, insieme, per garantire i diritti fondamentali alla forza lavoro. Ma questo, come dicevo, interessa per ora molto poco anche al resto del mondo: la crisi spinge tutti a cercare prodotti a basso costo”.
Sotto accusa non è solo il sistema cinese, con le autorità comuniste e le transnazionali americane, europee e giapponesi, che fondano la propria ricchezza sullo sfruttamento intensivo di lavoratori migranti trattati come animali per misere paghe (il salario alla Foxconn è di circa 90 euro al mese), ma la logica stessa che regola l’economia e la competitività tra produttori in un mercato globale.

Sindney Lu, Chief Executive e
Vice Presidente della Foxconn
Connector & Cable Division

La Foxconn, dopo essere stata “sbattuta” sulle prime pagine dei giornali, si è subito giustificata dicendo che le condizioni di lavoro nelle sue fabbriche sono le stesse che in tantissime aziende in Cina. Poi, con lo scopo di arginare il fenomeno dei suicidi degli operai, ha montato un milione e mezzo di metri quadrati di reti protettive, per impedire la morte di chi si getta nel vuoto dai tetti dei capannoni e dei dormitori. Infine, dopo aver versato le consuete lacrime di coccodrillo, ha annunciato aumenti salariali del 30% per gli operai alla catena di montaggio (200 mila sui 420 mila lavoratori della fabbrica), assunto duemila “psicologi del lavoro” e introdotto nei reparti alcuni monaci buddisti.
Anche i burocrati di Pechino sono corsi ai ripari. Hanno inviato a Shenzhen un gruppo guidato da Yin Weimin, ministro per le Risorse Umane e la Sicurezza Sociale, per accertare le cause dei suicidi. Nel contempo l’Ufficio per il Lavoro e il sindacato ufficiale cinese, la All-China Federation of Trade Unions (Acftu), hanno deciso di creare sportelli locali per affrontare il “disagio” dei giovani operai. Particolare curioso: nessuno si è posto il problema di rivedere condizioni e orari di lavoro.
Eppure, per garantire i contratti di fornitura con i maggiori marchi mondiali dell’elettronica di consumo, le centinaia di migliaia di lavoratori occupati nelle grandi fabbriche della Foxconn, fanno turni di lavoro di 10-12 ore consecutive per 7 giorni su 7 con 30 minuti per mangiare e 10 minuti per andare al bagno. Non fanno ferie. Nessuno senza un permesso speciale può entrare o uscire dalle fabbriche, sorvegliate da 40 mila guardie della milizia aziendale (uno ogni 20 lavoratori). La realtà in fabbrica è più simile a una caserma-prigione. Nei reparti di produzione, ma anche nei dormitori e a mensa, è imposta una rigida disciplina quasi militare. Gli ordini dei superiori non si discutono. Gli operai sono multati per ogni minima infrazione. Non possono nemmeno parlare tra loro, ma sono incitati a spiare i colleghi e se lo fanno ottengono vantaggi.
È questo il modello di organizzazione del lavoro che ha fatto della Cina “la fabbrica del mondo” al prezzo di condizioni di lavoro disumane. E, tutto, in assenza di sindacati che tutelino i diritti dei lavoratori.

“Senza libertà il comunismo è una caserma”

Pensando alla Foxconn e al sistema di lavoro “marziale” imposto in Cina, non può non venire alla mente la profezia di Bakunin che, nel 1872 durante i contrasti con Marx sul futuro della prima Internazionale dei Lavoratori, usò il concetto figurato di “comunismo da caserma” per indicare dove le idee politiche del filosofo tedesco avrebbero condotto. Bakunin aveva intuito che “la più fatale delle combinazioni” sarebbe stata “unire socialismo e assolutismo”. Non avrebbe, mai, potuto immaginare che, a questa sintesi aberrante, ne sarebbe seguita un’altra. La combinazione tra un potere dispotico comunista (la sintesi tra socialismo e assolutismo) e la più pura forma di iper-liberismo economico storicamente applicato (insieme con la versione cilena di Pinochet) a esclusivo vantaggio del capitalismo privato e della tecno-burocrazia di Stato.
Lo stesso Marx nell’analizzare i livelli attuali di sfruttamento degli operai in Cina, paragonabili a quelli da lui osservati in Inghilterra nella prima rivoluzione industriale, dovrebbe riconoscere che le critiche di Bakunin all’idea della “dittatura del proletariato” erano pertinenti. Certo, il padrone della Foxconn, Terry Gou non è un marxista. Ma è altrettanto vero che il partito comunista cinese gode di un larghissimo credito da parte dei capitalisti nel mondo. E non è solo una questione di basso costo della manodopera, largamente presente anche in altri paesi.
Come ha scritto il dissidente cinese Wei Jingsheng lo sviluppo sociale della “dittatura del popolo” esercitata attraverso il partito comunista cinese, “ha aiutato i capitalisti a distruggere il più importante avversario nella competizione per il lavoro, ovvero i sindacati. Senza sindacati che rappresentano i lavoratori, gli industriali non hanno alcuna necessità di pagare salari ragionevoli ai loro operai. Il “plusvalore” teorizzato da Marx, si è prodotto in Cina, interamente e in maniera evidente”. (2)
Nessun sistema, però, è perfetto. E come spesso succede “il diavolo si nasconde nei dettagli”. L’angoscia operaia alla Foxconn, con la scia ininterrotta di suicidi e tentativi di suicidio, rileva il profondo malessere che esiste tra la nuova generazione di operai migranti. Sono sempre di più le ragazze e i ragazzi che si ribellano ai ritmi disumani di lavoro e a una vita asservita solo alla catena di montaggio. E, come hanno dimostrato gli scioperi alla Honda nel maggio scorso, è la stessa crescita economica cinese con l’espansione numerica degli operai industriali, che contribuisce a rendere gli operai consapevoli della loro importanza nel processo produttivo. Sono segnali di una metamorfosi che sta interessando l’industria e il mercato del lavoro cinese.

La nuova generazione scuote il mondo del lavoro

La politica del “figlio unico” sta già riducendo il surplus di manodopera a buon mercato. Negli ultimi 20 anni il numero di cinesi di età compresa tra 15 e 24 si è attestata intorno ai 200-225 milioni. Le proiezioni al 2024 ci dicono che questo numero dovrebbe scendere di un terzo, dando più potere di contrattazione ai giovani che stanno entrando nel mercato del lavoro.
Nel 2010 in Guangdong si è registrata, per la prima volta, una penuria di manodopera. Arthur Kroeber, redattore di China Economic Quaterly, ha scritto: “Per diversi anni le imprese hanno fatto come se la Cina avesse una riserva illimitata di gente giovane pronta a lavorare per salari modesti. Non sarà più così per i prossimi quindici anni: le imprese dovranno pagare di più i nuovi assunti, e fare più sforzi per tenerli, perché non sarà più facile rimpiazzarli”. (3)
Per molti anni gli operai hanno accettato in Cina condizioni di lavoro indecenti, perché tra loro era comune pensare che, se avessero scioperato, sarebbero stati buttati fuori. E l’impresa non avrebbe avuto alcuna difficoltà a sostituirli con le migliaia di persone in attesa di un’occupazione qualsiasi. Adesso, in aziende che hanno un bisogno cruciale di manodopera, questi giovani operai dispongono di una leva più forte. La legge sul figlio unico ha modificato sia il flusso di operai a basso costo, garantito negli ultimi 30 anni, sia la composizione della forza lavoro. A dominarla sono i giovani migranti, figli unici, che vengono dalle campagne.
Se la prima generazione dei lavoratori migranti in Cina era formata da contadini con un basso grado d’istruzione, senza una conoscenza della realtà industriale, disposta a condizioni disumane di lavoro e di vita, pur di racimolare qualche risparmio per azzerare i debiti o sostenere l’investimento della famiglia nel luogo di provenienza; la seconda generazione è meno disposta a tollerare i bassi salari, gli orari estenuanti e la ferrea disciplina imposta nelle fabbriche-caserma. Vuole condizioni di lavoro decenti. I giovani operai migranti non hanno altra vita al di fuori della fabbrica, non hanno terre nelle quali tornare come contadini. La loro prospettiva di miglioramento è legata, quindi, al cambiamento delle condizioni di lavoro e delle relazioni in fabbrica e al riconoscimento pieno del diritto di cittadinanza.
La condizione in Cina dei migranti interni è, infatti, aggravata dal fatto che, a questi, non è riconosciuto lo status di cittadinanza urbana pur lavorando e vivendo in città. Ciò li esclude da alcuni diritti fondamentali come l’assistenza sanitaria, la previdenza sociale, il diritto alla casa, ecc. Infine, a differenza della generazione precedente sono in maggioranza diplomati, sono più coscienti dei loro diritti, navigano su “internet” e sopportano sempre meno di essere trattati come dei robot e sorvegliati come reclute in una caserma.
Però, come ha scritto GianPaolo Visetti su Repubblica, “aumentare i costi e riconoscere ai giovani il diritto a non essere schiavi, come i loro padri, spinge la produttività, ma fa fuggire le imprese. Per questo il Governo è diviso. Gli innovatori puntano sull’aumento dei salari, per sostenere i consumi interni e irrobustire il ceto medio metropolitano. I conservatori esigono la repressione di ogni protesta, per salvare l’autoritarismo fondato sull’export e sui miserabili dispersi nei villaggi. Il resto del pianeta aggiorna semplicemente l’agenda: modernizzare in fretta infrastrutture e tecnologie di India, Vietnam e Cambogia, per trasformarle nelle Cine promesse del prossimo Oriente”. (4)
In effetti non sono poche le imprese transnazionali (TNCs) e quelle cinesi orientate all’esportazione che, con la crisi del mercato globale, hanno cominciato a de-localizzare le produzioni e l’approvvigionamento di componenti nelle regioni più povere della Cina e in altri paesi asiatici dove i salari sono ancora più bassi. Alla luce di ciò si comprende la preoccupazione e il dilemma politico del Governo cinese: come permettere l’aumento dei salari e dei redditi familiari a sostegno dei consumi interni, senza scoraggiare gli investimenti diretti esteri, sostenuti da tre decenni di lavoro a basso costo e da un sindacato che, quando c’è, sorveglia i lavoratori piuttosto che difenderli!

La nuova ondata di scioperi nel Guangdong

Il 17 maggio 2010 gli operai della fabbrica Honda Motor di Foshan, nel sud della provincia di Guangdong, dopo anni a lavorare 12 ore al giorno per sei giorni a settimana, hanno deciso d’incrociare le braccia. È l’inizio di una nuova stagione che può invertire i rapporti di forza - in meglio per gli operai e in peggio per i padroni - di quel “laboratorio dei cambiamenti globali” che è la Cina. L’ha così definita senza malcelato interesse Roberto Colaninno, amministratore delegato della Piaggio, in un’intervista su un quotidiano. La sua azienda a Foshan, non distante dalla Honda, produce scooter con oltre 800 dipendenti, ripartiti tra due turni di lavoro di 12 ore al giorno sabato compreso e un turno unico di 10 ore più 4 o 8 ore di straordinario al giorno, per un salario che oscilla tra 82 e 120 euro al mese (straordinari esclusi).
Da quel giorno, per quindici giorni, gli operai della Honda Motor hanno scioperato, rivendicando salari più alti e condizioni di lavoro meno massacranti. Le altre tre fabbriche della seconda casa automobilistica giapponese in Cina, a Zenhcheng, Huangpu, Wuhan, sono state costrette a sospendere la produzione. Il Gruppo Honda aveva appena deciso di aumentare, entro il 2012, i veicoli da produrre in Cina da 650 a 830 mila. Per il settore dell’auto questo è già il primo mercato al mondo con 13 milioni e 600 mila veicoli venduti nel 2009 (+50% rispetto al 2008) e una previsione per il 2010 di oltre 15 milioni.

L’interesse della Honda per questo mercato e la resistenza degli scioperanti hanno indotto, alla fine, il management giapponese ad accettare il negoziato con i rappresentanti indicati dai lavoratori e con la mediazione del Governo cinese che, in questo caso, ha deciso di non intervenire con la forza. Gli operai hanno ottenuto aumenti salariali del 24 per cento (la richiesta era del 50 per cento), portando la paga base mensile a 180 euro, non molto lontana dai 214 euro mensili ritenuti dalla Ong cinese Sacom un salario minimo decente per la regione del Guangdong, la più industrializzata della Cina. La retribuzione mensile minima definita per legge nel 2009 era all’incirca di 90 euro mensili.
Dei 1.900 lavoratori della Honda di Foshan oltre 600 sono studenti delle scuole professionali, ai quali è richiesto un periodo di lavoro tra 6 e 18 mesi per ottenere il diploma. La loro paga è circa 2/3 di quella di un lavoratore regolare. Appena è esplosa la lotta alla Honda, gli studenti in stage hanno dovuto firmare un impegno scritto “a non organizzare o partecipare” a qualsiasi azione di lotta. Sebbene ci siano state queste intimidazioni nei confronti degli stagisti l’adesione allo sciopero ha coinvolto l’85% del totale dei lavoratori.

I giovani operai della Honda di Foshan per organizzare e coordinare lo sciopero hanno fatto ampiamente uso di strumenti di social networking. Hanno creato un forum di discussione su internet, diffondendo online un bollettino sulla loro lotta. Hanno usato i loro cellulari e computer per inviare messaggi, foto, video e per chattare sul servizio di messaggistica “QQ”, molto popolare in Cina. Geoffrey Crothall, direttore del China Labour Bulletin (5), che documenta le condizioni di lavoro in Cina, ha spiegato che le chat si cancellano e aggirano la censura. È in quei giorni che gli operai della Honda, chattando tra loro, si sono scambiati opinioni sul ruolo inutile del sindacato ufficiale e sulla necessità di contare solo su loro stessi.
Il sindacato unico “Acftu”, controllato dal partito comunista cinese, è del tutto subalterno agli interessi dello Stato e delle imprese. Sul piano economico si mantiene, non con l’adesione volontaria dei lavoratori, ma con il 2% del monte salari che le aziende per legge devono versargli e con i sussidi governativi. In molti casi i suoi rappresentanti sono cooptati nel management delle aziende. “Il sindacato non ci rappresenta”, ha detto una giovane operaia della Honda rimasta nell’anonimato. “Hanno chiesto alla direzione di negoziare con noi, ma non ci hanno aiutato”. Anzi. In un rovesciamento del classico scontro nei picchetti davanti alle portinerie delle fabbriche, mentre i lavoratori resistevano al di fuori dei cancelli a sostegno delle loro rivendicazioni, gli uomini con i “berretti gialli” del sindacato Acftu, insieme a funzionari dell’azienda, sono arrivati ad aggredirli e spintonarli per farli rientrare in fabbrica, cercando di porre fine allo sciopero.

Il Governo durante lo sciopero alla Honda Motor di Foshan ha scelto di non far intervenire la polizia, per evitare altri clamori dopo il caso della Foxconn, finito sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Lo scopo è stato non accendere una miccia che potesse far esplodere le contraddizioni di un paese la cui economia cresce a ritmi ultra sostenuti, senza che i salari dei lavoratori e i redditi della maggior parte della sua popolazione facciano lo stesso. In realtà azioni di protesta e astensioni dal lavoro nelle fabbriche cinesi non sono una novità. Nel Guangdong è da quasi un decennio che si sono moltiplicati i conflitti di lavoro, e nel resto del paese durante la privatizzazione e le ristrutturazioni dell’industria di Stato, ci sono stati aspri conflitti sociali per i pesanti licenziamenti e la chiusura di numerose aziende.
La novità, in questo caso, è stato il non intervento repressivo nei confronti degli scioperanti. Insolita è stata anche la copertura iniziale data alla protesta dai media controllati dallo Stato e alla legittimità delle rivendicazioni operaie. Solo dopo alcuni giorni il Governo è intervenuto direttamente sui media cinesi imponendo il silenzio sulle lotte, per evitare fenomeni di emulazione in altre fabbriche e in altre regioni. Il possibile effetto a catena degli scioperi operai è visto, ovviamente, con preoccupazione da Pechino. Il timore è che la protesta possa allargarsi a macchia d’olio, minando i delicati equilibri che hanno portato al boom dell’economia del colosso asiatico (bassissimo costo del lavoro e a una forza lavoro “ingabbiata”).
In effetti, la ripercussione dello sciopero alla Honda Motor in tutta la catena di sub-fornitura dell’industria dell’auto (il cuore dell’export cinese ad alta tecnologia) ha avuto un impatto forte anche in altri settori dell’industria manifatturiera nel Guangdong e in altre regioni della Cina. Nel Guangdong, secondo il quotidiano governativo China Daily, tra il 25 maggio e 12 luglio ci sono stati almeno 36 scioperi. E sempre la stampa cinese ha riferito che a maggio si sono verificati dodici scioperi in grandi imprese tra cui, oltre la Honda a Foshan, la Sharp Electronics a Shanghai e la Nikon a Jiangsu Wuxi. Anche aziende cinesi sono state interessate dagli scioperi, come la Pingdingshan Textile Group, nello Henan, dove più di 5 mila operai si sono fermati per due settimane, bloccando l’ingresso della fabbrica finché non si è aperto un negoziato sull’aumento dei salari.
L’azione diretta nella fabbrica di Foshan della Honda è stata, infatti, solo la punta di un iceberg. Appena conclusa la loro vertenza sono entrati in sciopero 250 lavoratori su 600 alla Foshan Fengfu Autoparts, controllata al 65 per cento dalla Yutaka Honda Giken e al 35 per cento dalla taiwanese Moonstone Holding. Il mancato pagamento delle giornate perse per la decisione aziendale di sospendere la produzione e i bassi salari sono stati la molla della protesta.

Il 28 di maggio più di mille dipendenti della Beijing Xingyuche Technology, che fornisce telai e pezzi di ricambio allo stabilimento di Pechino della coreana Hyundai Motor, hanno incrociato le braccia chiedendo, e ottenendo salari più alti. Nella Hyundai Motor è stata la stessa direzione aziendale che, per far rientrare l’azione diretta dei lavoratori, ha promesso salari più alti. Nel frattempo altri 2 mila lavoratori di un’azienda taiwanese la Kok, che produce macchinari in Kunshan City, nella provincia di Jiangsu, hanno scioperato contro gli straordinari, per l’ambiente di lavoro e per i bassi salari. In questo caso la polizia è intervenuta e, negli scontri con gli operai in sciopero, sono rimaste ferite circa 50 persone, tra cui cinque in modo grave. I lavoratori hanno continuato lo sciopero fintanto che il management non ha accettato di negoziare con loro.
A giugno è stata la volta di un’altra azienda controllata dalla Honda e partecipata dalla municipalità di Xiaolan, la Guli Lock di Zhongshan. 1.700 lavoratori hanno scioperato una settimana chiedendo un aumento del 50% del salario, per allineare le loro paghe a quelle più alte della Honda di Foshan, e il riconoscimento di un sindacato indipendente. Alla fine hanno dovuto accettare solo un aumento medio mensile di 32 euro (tra paga base e indennità turno e notturno) che, sebbene lontano dalle aspettative, rappresenta pur sempre una crescita salariale del 24% equivalente a quanto ottenuto dagli operai di Foshan. Durante lo sciopero hanno inviato online resoconti dettagliati della loro lotta, diffondendo l’informazione non solo tra di loro, ma anche ai lavoratori in agitazione e in sciopero in altre zone della Cina. Hanno usato i loro cellulari per inviare sms ai loro colleghi affinché resistessero alle pressioni individuali dei capi della fabbrica. Hanno speso molto del loro tempo usando il web per trovare materiale sulla legislazione del lavoro in Cina e conoscere i diritti riconosciuti e quelli negati. Si sono persino registrati in un sito web controllato dallo Stato - workercn.cn - trasformandolo in un nodo digitale del movimento dei lavoratori cinesi. E armati dei loro computer hanno diffuso video sulle violenze della sicurezza interna aziendale contro i lavoratori in sciopero.
“Abbiamo filmato lo sciopero con i nostri telefoni cellulari e abbiamo deciso di pubblicare il video online per far conoscere ad altri come siamo stati trattati ingiustamente,” ha detto un operaio di 20 anni della Honda Lock, che ha chiesto l’anonimato a causa della minaccia di rappresaglia. (6) In effetti, uno dei due leader della lotta alla Honda di Foshan, Xiao Lang era stato licenziato dalla direzione subito dopo aver guidato lo sciopero. Xiao aveva creato una chat la sera prima dello sciopero, dove era stato discusso e deciso tra una quarantina di operai come e quando incontrarsi, quando entrare in sciopero e quanto chiedere di aumento salariale.
Nello stesso mese di giugno si sono conclusi gli scioperi in altre due fabbriche nel Guangdong fornitrici anch’esse della giapponese Honda. I lavoratori della Atsumitec Auto Parts, che produce leve per il cambio delle auto, hanno ottenuto un aumento del 45% del salario mensile medio, che da 112 euro è passato a 163 euro. Quelli della Omron Automobile Electronics di Guangzhou hanno invece avuto un aumento più contenuto di 35 euro al mese, che ha portato il loro salario a 145 euro. Anche altri scioperi nel settore della componentistica auto per Honda e Toyota si sono conclusi con aumenti tra il 20 e il 30% dei salari, che ora sono tutti nettamente superiori ai 120 euro al mese, un livello ancora basso, ma che fino a pochi mesi fa era raggiunto solo da pochi operai specializzati.

Nell’indotto auto da segnalare, infine, altre due vertenze. Alla Nihon Plast a Zhongshan, che produce componenti plastici per la Honda, dove i 500 operai sono scesi in sciopero, contestando le condizioni di lavoro e chiedendo aumenti salariali. Alla Denso a Guangzhou Nansha, che produce componenti auto per Toyota e Honda, i 1.100 lavoratori hanno scioperato dal 21 di giugno fino al 25, quando hanno raggiunto un accordo sul bonus di fine anno e sull’aumento salariale di 50-60 euro al mese, rispetto a paghe mensili precedenti di 130-150 euro per gli operai e di 350 euro per i tecnici. Lo sciopero alla Denso aveva causato, dal 22 di giugno, anche il blocco della produzione della Toyota Motor.
Il denominatore comune di queste lotte (7) è che i lavoratori, non potendo contare sul sindacato ufficiale, si sono organizzati spontaneamente. Non tutte le sospensioni dal lavoro (come eufemisticamente la stampa cinese definisce gli scioperi), che accadono nelle fabbriche cinesi, trovano riscontro sui media. Inoltre, molte controversie sono brevi e non sono neppure segnalate. Una cosa, tuttavia, è evidente. Lo scontro alla Honda, seguito da altre fabbriche, riflette una tendenza più ampia in Cina. Le tensioni crescenti tra lavoratori e imprese stanno modificando i rapporti di forza a favore dei lavoratori. Le aziende che, per molti anni hanno fatto affidamento a una fonte di manodopera a basso costo e a un mercato in rapida crescita, trovano oggi più difficile attrarre e mantenere i lavoratori, che chiedono migliori salari e condizioni di lavoro.

La Cina non sarà più la stessa

La Cina è oggi il maggior esportatore al mondo, avendo superato nel 2009 la Germania, e la seconda economia mondiale dopo gli Usa. In soli 20 anni ha visto aumentare il suo peso nella produzione industriale globale dal 2 al 20%. Mentre in Europa e in America del Nord i lavoratori dell’industria si sono ridotti, in Cina la forza lavoro nei settori manifatturieri ha raggiunto i 112 milioni di persone, grazie all’emigrazione dalle zone rurali dell’interno. Il 70% di queste lavora in imprese metalmeccaniche. Secondo stime dell’America’s Bureau of Labour Statistics il costo orario medio nel 2009 di un operaio in Cina era di 0,81 dollari, equivalente al 2,7% del costo del lavoro di un operaio americano. Il lavoro a buon mercato, però, è destinato a ridursi. I giovani lavoratori cinesi, almeno nelle città come Shanghai e Pechino o nel delta del fiume Pearl (Guangzhou, Dongguan, Foshan e Shenzhen al confine con Hong Kong), sono diventati costosi come molti loro coetanei filippini o thailandesi e molto più costosi di quelli vietnamiti e indiani. Dopo gli aumenti salariali concessi nel Gruppo Honda e in diverse imprese della catena di fornitori, un analista giapponese, Mitsuo Shimizu ha sentenziato che “[...] i costi dei produttori manifatturieri che operano in Cina aumenteranno, proprio come è avvenuto in Giappone e negli altri paesi sviluppati “. (8)
Questa prospettiva, mentre risolleva lo spirito dei sindacati nei paesi sviluppati, preoccupa le imprese transnazionali. Secondo l’UNCTAD, lo stock di capitale investito in Cina da imprese straniere è di quasi 500 miliardi di dollari. Le aziende controllate dalle TNCs in Cina occupano più di 16 milioni di persone. Per un decennio questa “felice” combinazione di comunismo e capitalismo ha dominato la crescita della produzione globale e la spedizione di merci sempre meno costose dai porti della Cina. Dei 200 maggiori esportatori dalla Cina ben 153 sono imprese americane, coreane, giapponesi ed europee, contro cui - paradossalmente - si sarebbero dovuti abbattere i dazi doganali evocati da molti per fermare l’invasione “gialla”.

La stessa ipocrisia interessata con cui Alberto Vettoretti, presidente della Camera di Commercio Europea nel Delta del Fiume delle Perle e direttore generale di Dezan Shira & Associates, e altri imprenditori italiani, reagiscono dalle pagine del Sole 24 ore (9) alla fine dell’era del lavoro low cost.
“Il Delta è grande, ma il tam tam operaio corre velocissimo di fabbrica in fabbrica e ormai qui nella zona tutti sanno che, di fronte alle pressioni dei lavoratori, Honda e Foxconn hanno finito per calare le braghe concedendo aumenti salariali fuori da ogni logica contrattuale. Con queste premesse, è ragionevole aspettarsi presto altre rivendicazioni selvagge in altre fabbriche della zona”. Gli risponde, indirettamente, nello stesso articolo l’economista indipendente, Andy Xie: “Per lungo tempo l’industria manifatturiera cinese ha potuto contare su un bacino pressoché illimitato di manodopera a basso costo, ma oggi il quadro è cambiato radicalmente. I contadini che, fino a pochi anni fa, migravano felici per andare a lavorare nelle fabbriche del Guangdong, non sono più disposti a trasferirsi a migliaia di chilometri da casa per un salario che garantisce loro giusto la sussistenza. Oggi chi lascia il villaggio per trasformarsi da contadino a operaio vuole di più”. E alla domanda su cosa ne sarà della più grande piattaforma industriale del pianeta, se i salari continueranno a crescere, Andy Xie non ha dubbi “Si ripeterà quanto già accaduto in passato a Taiwan o in Corea: le produzioni a basso valore aggiunto si sposteranno in paesi caratterizzati da un costo del lavoro più basso”.
Solo chi è in malafede può dissimulare, in campo imprenditoriale e politico, un dato di fatto: il modello economico cinese, basato su lavoro low cost e sull’assenza di sindacati autentici è stato orientato dallo Stato comunista a favore delle esigenze del capitale per attrarre gli investimenti diretti esteri anche a danno della popolazione. È altrettanto vero che questo pragmatismo del Governo ha trasformato la Cina in una potenza economica. Non si può negare che il paese sia più ricco, ma le persone che stanno contribuendo a tale ricchezza (centinaia di milioni di lavoratori e migranti) rimangono esclusi dal benessere. Il reddito da lavoro sul PIL cinese è sceso dal 57% nel 1983 al 37% nel 2005.
Secondo Lu Huilin, sociologo all’università di Pechino, le autorità devono cambiare il modello di sviluppo perché esso sacrifica la dignità di milioni di lavoratori. “[Il Paese] ha usato in modo enorme il lavoro a basso costo… ignorando i diritti umani degli operai e un’equità sociale… I giovani operai migranti resistono allo sfruttamento per istinto… Ma se non si cambia, i problemi emergeranno a fiumi”. (10)

La questione salariale e la durata settimanale dell’orario di lavoro in Cina sono centrali nell’immediato futuro. Nello stesso Governo c’è chi sostiene che il problema delle retribuzioni va in qualche modo affrontato. Non è un caso che nel maggio di quest’anno il salario minimo legale (che ha un valore indicativo per la contrattazione in azienda) sia stato aumentato del 20% e che a luglio, dopo l’ondata di scioperi, sia stata approvata dal Consiglio Legislativo una legge di riforma che introdurrebbe dal 2011 un Salario minimo garantito. Sebbene la norma approvata sia ancora incompleta su punti fondamentali, come la fissazione del valore del salario minimo per ora di lavoro e se debba essere agganciato all’Indice dei prezzi al consumo, è evidente la volontà di Pechino di stimolare la domanda interna (com’è avvenuto in Brasile). Per far questo ha bisogno di gente che guadagni di più e possa alla fine anche comprare i beni che produce. Viceversa, la politica dei bassi stipendi ha il fiato corto e rischia di compromettere, se s’innestasse una spirale di vertenze collettive di lavoro, l’armonico sviluppo economico voluto dai leader comunisti cinesi. I quali difficilmente sarebbero disposti a tollerare un’ondata di tensioni sociali e men che meno di manifestazioni di piazza.
Sulla stessa lunghezza d’onda il presidente della Toyota Motor, Akio Toyoda che in un’intervista ha detto, riecheggiando la vecchia filosofia di Henry Ford, che più alti salari per i lavoratori delle fabbriche cinesi creerebbero una nuova classe di consumatori. “L’esperienza degli ultimi cento anni dimostra che i lavoratori dell’auto diventano anche compratori di auto. La tendenza verso salari più alti ha aspetti sia negativi, sia positivi. Una crescita salariale non è necessariamente un male se è gestita come si deve”. (11)
In Giappone, quindi, dopo il caso della Honda, ci si è resi conto che le aziende che guardano alla Cina solo per i costi devono cambiare velocemente. I redditi e le aspettative di ascesa della popolazione cinese saranno sempre più in linea con la rapida crescita economica. Le aziende giapponesi capiscono anche che la Cina è un mercato enorme. E per vendere in Cina ha senso produrre lì. Al contrario a chi si è insediato nel Guangdong solo per sfruttare la manodopera a basso costo, non resta che delocalizzare in altre provincie della Cina finora ignorate dallo sviluppo industriale o nel Vietnam, dove la stessa municipalità di Shenzhen ha investito direttamente per creare un nuovo distretto industriale.
Va detto, però, che la competitività dell’industria manifatturiera cinese (come in qualsiasi parte del mondo), non dipende solo da quanto i lavoratori sono pagati o dalla durata della giornata lavorativa, ma anche da quanto producono. Nel periodo 1995-2004, per esempio, secondo uno studio di Chen Bart van Ark e Harry Wu dell’Università di Hitotsubashi, il costo del lavoro nelle imprese più grandi della Cina è triplicato. Però la produttività del lavoro nello stesso periodo è più che quintuplicata. Il risultato è stato che i costi unitari del lavoro sono diminuiti del 43%. La produzione cinese è diventata più competitiva, non meno. (12)
Numerosi economisti credono ormai che la Cina, dopo aver esaurito la sua offerta di manodopera in eccesso, abbia raggiunto un punto di svolta nel suo sviluppo e non sarà più la stessa.

Lo spettro, per Pechino, è la nascita di un sindacato autonomo

Secondo i dati dello stesso Governo, riportati da Manlio Masucci in un articolo sul quotidiano Conquiste del Lavoro (13), “[...] nel 2009 l’aumento dello stipendio dei lavoratori cinesi è stato del 5,1% più basso rispetto all’anno precedente, segnando così un record negativo che non si registrava dal 2001, mentre i salari degli impiegati delle piccole e medie imprese specializzate nell’esportazione sono crollati anche del 20 e del 30% [...]. Le agenzie governative rilevano, inoltre, come il numero di vertenze collettive stia letteralmente esplodendo negli ultimi anni aumentando dalle 314.000, registrate nel 2005, alle 690.000 del 2008 mentre, nei primi mesi del 2009, il numero complessivo aveva già raggiunto quota 519.000. Anche il numero delle cause civili relative a controversie lavorative sta aumentando vertiginosamente. Parallelamente alle azioni legali e alle proteste, anche gli incidenti sono aumentati portando gli analisti del Governo a concludere che le dispute lavorative rappresentano, attualmente, una delle prime cause di conflitto in Cina. Scioperi, marce di protesta, appelli a favore dei diritti dei lavoratori si sono, infatti, susseguiti incessantemente negli ultimi anni conducendo, in alcuni casi, ad esiti drammatici. È il caso della fabbrica di Tonghua dove, nel mese di luglio 2009, un manager ha perso la vita in seguito all’aggressione degli operai esasperati e della fabbrica di Lingang dove il vicedirettore è stato tenuto in ostaggio per novanta giorni. Secondo la polizia della città di Shenzhen, uno dei maggiori distretti produttivi cinesi, le dispute lavorative sono fra le prime cause di tensioni sociali all’interno del perimetro cittadino. Nel 2008, il numero degli incidenti legati a proteste dei lavoratori si è attestato a 637 con un aumento del 119,7% rispetto al 2007 mentre, nel solo gennaio del 2009, gli incidenti erano già 97 con un aumento del 61,7% rispetto all’anno precedente. [...] Una situazione oramai insostenibile, dunque, che sta provocando un diffuso risentimento anche fra l’opinione pubblica [...]”.
Ivan Franceschini, rappresentante dell’Iscos a Pechino e uno dei maggiori esperti italiani sul diritto del lavoro in Cina, in un suo articolo “Le libertà sindacali nella Repubblica Popolare Cinese” (14), spiega come in questo paese non ci sia una chiara definizione del diritto di sciopero. Nella nuova Costituzione del 1982 non è stato inserito. Nel 2001 la Cina ha ratificato il patto delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e culturali che lo comprende, esprimendo una riserva al comma 1 del patto, che sancisce il “diritto degli individui a costituire e a unirsi autonomamente in sindacati”. Nessuna riserva del legislatore cinese, invece, sul comma inerente il diritto di sciopero che, però, è tuttora relegato in una specie di limbo giuridico. Infatti, nonostante queste aperture, il codice penale continua a prevedere pene molto severe per chi sciopera: fino a tre anni di carcere a chi partecipa attivamente, da tre a sette anni di carcere a chi lo promuove. Organizzare o partecipare a uno sciopero in Cina, considerato un crimine contro la sicurezza dello Stato, rimane un’attività molto rischiosa. Lo stesso vale, ma con meno tolleranza, per i tentativi di creare in Cina sindacati indipendenti, che continuano a essere duramente repressi.
Il fatto che la Cina non abbia ancora ratificato le convenzioni internazionali sulla libertà di associazione sindacale e sul diritto alla contrattazione collettiva, non è solo una questione etica, ma ha rappresentato in questi anni la principale minaccia indiretta al sistema di garanzie, diritti e conquiste storiche che i sindacati dei lavoratori in Europa (e in altri paesi) hanno ottenuto attraverso dure lotte. La maggioranza delle persone in Cina, in conseguenza delle restrizioni ai diritti sindacali, lavora senza contratto. E la stessa Acftu ammette che gli accordi collettivi si limitano, nella maggioranza dei casi, ad applicare il salario minimo.
L’esempio della Honda mostra, però, la crescente capacità dei lavoratori di aggregarsi per le loro rivendicazioni. La moltiplicazione di scioperi spontanei promossi dagli operai sembra in qualche modo “burlarsi” dell’assenza di libertà e autonomia sindacale, imposta dallo Stato comunista. I tempi si annunciano caldi in Cina e non solo per effetto dei cambiamenti climatici, ma anche per le lotte operaie.
Il caso della Honda marca una svolta nella storia degli scioperi in Cina. Non solo le rivendicazioni salariali hanno fatto irruzione nel dibattito di politica economica, ma sotto accusa è finita la federazione dei sindacati cinesi Acftu. Fondata nel 1925, è sempre stata la cinghia di trasmissione del Partito Comunista Cinese. Strutturata secondo i principi del “centralismo democratico” l’Acftu si articola su 12 sindacati industriali nazionali e su più di un milione di sindacati organizzati su base territoriale. Formalmente, con oltre 150 milioni di lavoratori iscritti, è la più grande centrale sindacale al mondo. A dispetto di questi numeri, il suo ruolo sindacale di rappresentanza e tutela dei lavoratori è pressoché inesistente,“spento” come l’hanno definito alcune giovani operaie della Honda. La legge sui sindacati del 1992, “in nome del potere socialista dello Stato, della dittatura del popolo, della leadership del Pcc, del marxismo-leninismo-pensiero di Mao e della teoria di Deng Xiaoping”, contiene tre punti aberranti. Il primo nega la libertà dei sindacati; il secondo impone una rigida struttura gerarchica e di controllo dell’organizzazione sindacale; il terzo definisce la funzione del sindacato (garante della produzione) come difensore degli interessi - non tanto dei lavoratori - quanto dei datori di lavoro.

Nel 2001 con l’ingresso nel Wto, la legislazione sui sindacati è stata emendata almeno su quest’ultimo punto. I sindacati devono “rappresentare i diritti e gli interessi legittimi dei lavoratori in base alla legge” e “i doveri e le funzioni fondamentali dei sindacati sono salvaguardare i diritti e gli interessi legittimi dei lavoratori”. Le questioni centrali, come il diritto a proclamare scioperi e l’autonomia sindacale verso lo Stato e le imprese, sono rimaste ancora tabù, ma quantomeno questa modifica legislativa ha riportato la funzione del sindacato nel suo ambito naturale. Nella realtà, però, la trasformazione del sindacato ufficiale non è avvenuta, in quanto l’Acftu continua a dipendere economicamente dai fondi versati dall’imprese e dai sussidi del Governo.
La necessità di accedere a queste risorse spinge l’Acftu ad adottare una politica di compromesso con la direzione delle imprese private, garantendo solitamente che non verranno intraprese azioni collettive e permettendo, persino, che sia la stessa impresa a nominare i rappresentanti sindacali. Questo spiega il perché in Cina, a differenza di quanto accade in altri paesi del mondo, grandi imprese transnazionali - quali Carrefour, Mc Donald, Motorola, Nestlé, Samsung ecc. e persino un campione dell’anti-sindacalismo come Wall-Mart - accettino tutte, dopo blande opposizioni iniziali, la presenza dell’Acftu all’interno delle loro unità produttive e commerciali.
L’assenza di autonomia dei sindacalisti ufficiali dalle direzioni aziendali è stata una costante negli scioperi che si sono propagati nel corso del 2010. È risultato evidente che il meccanismo “ufficiale” di rappresentanza dei lavoratori è fallito. (15) I lavoratori non possono eleggere i propri delegati. A Foshan gli operai della Honda hanno lottato con chiarezza e metodo affinché venissero rispettati i loro diritti. In una lettera aperta pubblicata il 3 di giugno, criticando aspramente il sindacato ufficiale, hanno scritto che sperano di “arrivare all’elezione democratica dei rappresentanti sindacali e alla definizione di un meccanismo di contrattazione collettiva”. Allo stesso tempo hanno chiesto la costituzione di un sindacato indipendente dei lavoratori che li aiutasse nelle loro lotte.

Anche nello sciopero successivo alla Honda Lock di Zhongshan gli operai hanno sviluppato una sofisticata organizzazione democratica, eleggendo nei fatti 20 delegati sindacali di reparto a rappresentarli nella contrattazione collettiva con i dirigenti. Anche loro stanno chiedendo il diritto di formare un sindacato indipendente dalla Acftu, focalizzata unicamente al mantenimento della pace sociale per gli investitori stranieri. “Il sindacato ufficiale non sta rappresentando i nostri punti di vista; vogliamo un nostro proprio sindacato che ci sappia rappresentare”, ha detto un lavoratore scioperante, che ha insistito per l’anonimato per paura di ritorsioni da parte di autorità di Governo o dell’azienda.
C’è chi guarda a questi embrioni di crescita dell’autonomia sindacale con simpatia, come simboli di una nuova acquisizione di consapevolezza da parte dei lavoratori. Per il professor Ma Qiufeng della Jinan University di Guangzhou quella dello sciopero è “una buona notizia” perché le richieste dei lavoratori possono aiutare la Cina a diventare una società più aperta.“La Cina deve capire che, per migliorare sé stessa e la propria popolazione, deve permettere ai sindacati di operare liberamente sul territorio. Ma questo è oggi impensabile: basta pensare a come viene trattata la libertà di espressione per capire che Pechino non lo permetterà a breve. Ma gli scioperi nelle grandi fabbriche, come quello avvenuto alla Honda, fanno ben sperare per il futuro: prima o poi i politici cinesi capiranno che, senza tutele del lavoro, rischiano un’esplosione sociale senza precedenti”.
Secondo il professor Chang Kai le relazioni industriali in Cina stanno cambiando. I lavoratori si sono resi conto che individualmente sono incapaci di far rispettare i loro diritti, così hanno cominciato a fare delle lotte collettive. Per Chang Kai gli scioperi sono fenomeni normali in un’economia di mercato. Sono l’unico mezzo a disposizione dei lavoratori per far sentire la propria voce e difendere i loro interessi. Anche perché in Cina il sindacato, che dovrebbe essere il sostegno fondamentale dei lavoratori non fa nulla. L’Acftu non rappresenta in modo efficace i lavoratori e preferisce schierarsi a fianco delle aziende e curare i suoi interessi. Questo perché le strutture sindacali in Cina non sono nate su iniziativa dei lavoratori e i dirigenti sindacali non sono eletti dagli iscritti. Anzi, in molte imprese il datore di lavoro esercita un pieno controllo sul sindacato.

Alla Honda, il sindacato ufficiale si è schierato apertamente al fianco della direzione per reprimere gli scioperi. In questo modo ha perso credibilità e, come spiega Chang Kai, ha rinnegato lo stesso ruolo attribuitogli dalla nuova legislazione cinese sui sindacati del 2001. Non sorprende, quindi, che gli operai violino i regolamenti imposti da un sindacato legato al partito e alle imprese, scegliendo lo sciopero spontaneo per fare valere le proprie esigenze. Il virus dei diritti sindacali, speriamo, che finisca per contagiare altre aziende cinesi, partendo dal Guangdong dove si concentrano gran parte degli investimenti diretti esteri delle imprese transnazionali, comprese quelle a casa madre italiana. (16) L’insolita pazienza, però, dimostrata finora dal Governo cinese verso gli scioperi, non sembra esserci verso forme di organizzazione operaia, embrioni di sindacati con autonomia giuridica e alternativi al sindacato ufficiale, integrato rigidamente nel partito. La prospettiva dello sviluppo di organizzazioni sindacali dei lavoratori, che eleggano democraticamente i loro rappresentanti, gestiscano gli scioperi e i negoziati contrattuali, solleva questioni difficili per il Partito Comunista Cinese ossessionato con la stabilità sociale e il controllo politico. Su queste ossessioni l’amico Han Dongfang è solito ironizzare: “Negli Stati Uniti durante gli anni venti si diceva che i sindacati liberi avrebbero portato al comunismo, ma non è accaduto. Per un’ironia della storia, quasi un secolo dopo in Cina, è il partito comunista a dire che i sindacati liberi trasformerebbero il paese in una democrazia”. (17)
Dopo lo sciopero Honda, nel mondo accademico cinese sono sempre più le voci che si levano a sostegno della costruzione di veri sindacati per difendere gli interessi degli operai. Altrove sarebbe ritenuta una banale presa di posizione. Nella Cina popolare ha, invece, una valenza quasi rivoluzionaria, e, soprattutto, fa venire l’orticaria al potere!

Gianni Alioti

Note

  1. Sindacalista di Hong Kong: “I suicidi in fabbrica, frutto dell’indifferenza”, Asia News 28 maggio 2010.
  2. Suicidi alla Foxconn: capitalismo e marxismo trattano gli uomini come animali, Asia News 31 maggio 2010.
  3. New generation shakes China labour landscape, Reuters, June 1, 2010.
  4. GianPaulo Visetti, Lo sciopero dell’operaio cinese, la Repubblica, 1 giugno 2010.
  5. China Labour Bulletin,
  6. David Barboza and Keith Bradsher, In China, a Labor Movement Aided by Modern Technology, The New York Times, June 16, 2010.
  7. Altri scioperi si sono conclusi con aumenti salariali dell’ordine del 20-40% nelle seguenti fabbriche: Ingersoll-Rand a Zhongshan che produce sistemi di condizionamento d’aria; Nhk-Uni Spring a Guangzhou che produce sospensioni per auto (Toyota, Honda, Nissan); Mitsumi Electric a Tianjin che produce componenti elettronici (3 mila lavoratori); Wantai Group a Zaozhuang; Sinopec Chemical Fibre a Yizheng; Weixun Electronics a Suzhou; Datong Xinghuo a Shanxi, industria farmaceutica (10 mila lavoratori); Vinylon a Lanzhou (2 mila lavoratori); Halong Electronics a Xiamen; Meilv Electronics a Shenzhen (2 mila lavoratori); Xieshu Group a Suizhou (400 lavoratori); Yacheng Electronics di Huizhou (oltre 2 mila lavoratori); Simaibo Sports Equipment a Juijiang (7 mila lavoratori); Mechanical Lab Engineer a Zhuhai; River Delta a Yangtze che produce computer (2 mila lavoratori); Tongbao Optical a Shanghai; Toyoda Gosei a Tianjin fornitrice di componenti auto.
  8. Roberts Bloomberg, Honda Rises After Most Workers End Strike in China, Business Week, June 6, 2010.
  9. Luca Vinciguerra, Scioperi in Cina: “Molte imprese straniere sono preoccupate” e a Pechino finisce l’era del lavoro low cost, Sole 24 ore, 6 giugno 2010.
  10. Nuovi scioperi alla Honda di Foshan. La ditta minaccia licenziamenti in tronco, Asia News, 12 luglio 2010.
  11. Kevin Krolicki, Toyota chief: China labor trend both good and bad, Reuters, July 9, 2010.
  12. China’s labour market, The next China: As the supply of migrant labour dwindles, the workshop of the world is embarking on a migration of its own, The Economist, July 7, 2010.
  13. Manlio Masucci, Cina, più contrattazione collettiva per risolvere i conflitti, Conquiste del Lavoro, 19 gennaio 2010.
  14. Ivan Franceschini, Le libertà sindacali nella Repubblica Popolare Cinese, Diritti Lavori Mercati, rivista quadrimestrale n.2, 2009.
  15. La legge cinese riconosce il diritto di costituire una rappresentanza sindacale per i lavoratori nelle ditte che hanno almeno 25 dipendenti.
  16. Oltre alla Piaggio sono presenti in Guangdong con propri siti produttivi altre aziende italiane come Bottero, Cogne, Compel, De Longhi, Magneti Marelli (Gruppo Fiat), Megadyne, Sacmi Ceramic Machinery, Somacis, St Microelectronics, Util Auto Parts ecc.
  17. Han Donfang ha promosso il primo sindacato autonomo cinese nel 1989 (durante i moti in piazza Tiananmen). Arrestato e incarcerato per 3 anni, è stato poi espulso dalla Cina. Da anni lavora a Hong Kong, dove ha fondato il China Labor Bullettin.