Rivista Anarchica Online


No Tav

Tra briscola e scarponi
di Maria Matteo

I signori del Tav sono pronti a riprendere le ostilità. I No Tav sono pronti a riprendere la resistenza, ma non devono cedere al ritorno dei sindaci.

 

È finita la tregua. Passate le elezioni, dimenticata la kermesse papalina e l’ostensione della Sindone, il governo ha buttato sul tavolo la sua carta. Se fosse una briscola diremmo che sul tavolo c’è un carico pesante. Ma non è una briscola e gli altri giocatori si stanno prendendo le misure prima di calare la propria carta.
Tutto comincia d’estate, anche se è facile prevedere che la partita vera, quella con scarponi e giaccone, la giocheremo d’inverno. L’8 agosto il governo, dopo lungo tentennare, mediare, minacciare ha fatto il suo allungo sulla nuova linea ad alta velocità tra Torino e Lyon. Ltf – Lyon Turin Ferroviaire, la società che ha l’incarico di progettare e realizzare la tratta internazionale dell’opera - ha terminato e reso pubblico il progetto preliminare per la parte italiana, che va da Chiusa S. Michele al confine. Il progetto, 17 megabyte di documenti, è allo studio degli esperti No Tav, tuttavia il quadro emerso dalle prime letture la dice chiara sull’impatto terribile di quest’opera sul territorio. I paesi di Chiusa, Vaie, S. Ambrogio, oltre all’abbattimento di numerose case e alla perdita di tutti i terreni agricoli, sarebbero costretti a sopportare per un minimo di dieci anni un cantiere, dove si lavorerebbe giorno e notte, mentre centinaia di camion sono destinati al trasporto dell’enorme quantità di smarino del tunnel dell’Orsiera.
Tutto questo scempio per una linea che non serve, perché gli stessi tecnici governativi ammettono che l’attuale linea internazionale tra Torino e Lyon è ampiamente sotto utilizzata. Sebbene i più si immaginino un trenino a vapore che si inerpica per i monti, è una linea da poco ammodernata dove passano anche i modelor, i treni su cui vengono caricati i container trasportati dai tir, favorendo il passaggio delle merci da gomma a ferro.
La nuova linea avrebbe dei costi spaventosi. Secondo quanto dichiarato dal Commissario Straordinario per la Torino-Lione, Mario Virano, i 260 km di linea costeranno 20 miliardi di euro. 120 milioni al km! 1 cm di tav costerebbe 1.200 euro, come lo stipendio di un operaio; 12 cm di tav sono il suo stipendio annuale; 4,8 m di tav valgono come 40 anni del suo lavoro. E questo è solo il preventivo, ma sappiamo bene che i costi dell’alta velocità in Italia sono sempre lievitati - per la tratta Firenze-Bologna quasi triplicati. In più la manutenzione di questo inutile e costosissimo giocattolo costerebbe 700 milioni l’anno.
Il progetto per la tratta nazionale (Settimo Torinese – Chiusa S. Michele), che doveva essere pronto contemporaneamente all’altro, pare ancora in alto mare. C’è chi sostiene che tra Ltf ed RFI, che ha in appalto la tratta nazionale, ci sarebbero contrasti sul progetto che motiverebbero la mancata presentazione dei preliminari per l’importantissimo segmento iniziale, quello che dovrebbe investire Torino e vari paesi della cintura.
Resta in ogni caso il fatto che sinora il progetto non è stato ancora reso pubblico, anche se a fine settembre alcuni quotidiani avrebbero fatto delle anticipazioni.
In un’assemblea affollatissima – quasi un migliaio di persone – svoltasi a Chiusa lunedì 6 settembre, sia la popolazione sia numerosi amministratori locali hanno ribadito l’opposizione ad un’opera inutile, che, con questo progetto, conferma la sua dannosità per il territorio.
A quest’assemblea ne sono seguite molte altre in numerosi paesi come nella città di Torino: la gente ha partecipato in massa, attenta e preoccupata ma insieme determinata nel proprio No all’opera.

Ancora in marcia

Il primo segnale forte è stata la settimana culminata con la tre giorni di “prove tecniche di resistenza”, promossa a Chiomonte dai comitati No Tav. Nei tre giorni si sono svolte assemblee, spettacoli teatrali, incontri di produttori biologici, passeggiate nei siti archeologici a rischio e, soprattutto, una lunga marcia per strade e mulattiere tra Chiomonte e Giaglione, due dei comuni più toccati dal percorso del tunnel geognostico di dieci chilometri che la CMC di Ravenna si accinge a scavare. Diverse migliaia di No Tav armati di bandiere e striscioni hanno percorso una decina di chilometri di strada, attraversando la zona dove dovrebbe essere piazzato il cantiere del tunnel. Sono stati piantati numerosi cartelli di divieto di ingresso a ruspe, camion, trivelle, mentre qualcuno distribuiva vuvuzuelas anti “puffi blu”.
In uno dei terreni comprati durante la campagna “acquista un posto un prima fila” è stato messo un baracchino di lamiera, reduce dal presidio di Susa autoporto. Il baracchino, per ora solo un capanno per gli attrezzi, è il primo tassello del futuro presidio No Tav. Lungo tutto il percorso, che si snoda magnifico lungo le gorge della Dora, si sono attraversati i vigneti da cui proviene l’uva da cui viene fatto il celebre “vino nel ghiaccio” di Chiomonte. Una delle tante produzioni locali che spariranno se i signori del Tav riusciranno ad imporre il loro arbitrio su questo territorio.

Il ritorno delle fasce tricolori

La novità politica della marcia è stata la ricomparsa di sindaci e amministratori con tanto di fascia tricolore. Il progetto presentato da LTF è stato il detonatore di questa giravolta istituzionale, che ha portato in piazza oltre al consueto manipolo di amministratori No Tav delle liste civiche, quasi ovunque in minoranza, anche esponenti del PD. Evidentemente l’impatto fortissimo dei nuovi progetti, oltre alla batosta elettorale delle ultime regionali, ha sospinto sul fronte dell’opposizione all’opera anche quei politici che avevano di fatto sposato la tesi del “come tav”, abbracciando la proposta del F.A.R.E., sponsorizzata dell’ex presidente della Comunità Montana Bassa Val Susa, Antonio Ferrentino.
Un incrinamento del fronte si era delineato già dopo le amministrative dell’anno precedente in Val Susa, in cui le liste civiche, pur sconfitte ovunque tranne che a S. Ambrogio, erano l’ago della bilancia per l’elezione del nuovo presidente delle Comunità Montane Alta e Bassa Val Susa e Val Sangone riunite dalla nuova legge. Il democratico Sandro Plano, ex sindaco di Susa ed assessore a Venaus, l’aveva spuntata grazie al sostegno delle liste civiche. Il PD nazionale aveva minacciato di espulsione gli esponenti del PD valsusino per l’alleanza con amministratori seccamente No Tav, ma, nonostante le forti tensioni, la crisi era rientrata senza conseguenze. La reazione dei democratici piemontesi alla scelta di campo dei loro colleghi valsusini paiono di cauto imbarazzo: vedremo, anche alla luce di un possibile invalidamento delle elezioni regionali, se ci sarà una scomunica plateale o una presa di distanza meramente formale.
Gli errori della campagna elettorale per le regionali della scorsa primavera potrebbe indurre il PD subalpino ad un atteggiamento più cauto, anche se alcuni sfegatati Si Tav come Esposito non hanno mancato di lanciare i loro anatemi. Nondimeno in una regione, prostrata dalla crisi e sedotta dalla propaganda securitaria della peggior destra, l’enorme spesa pubblica per il Tav, a discapito di servizi, trasporto locale e scuola potrebbe muovere sul terreno dell’opposizione all’opera anche gli indifferenti alle questioni ambientali o di qualità della vita.
Nel frattempo alla marcia No Tav tra Rivoli e Rivalta del 15 settembre, da sempre poco investite dalla lotta al supertreno, hanno partecipato diverse migliaia di persone, segno che anche da queste parti l’opposizione all’opera sta crescendo. Sindaci e amministratori hanno lanciato una manifestazione No Tav per il 9 ottobre a Vaie, tentando di recuperare un protagonismo perso con la scelta di sedere al tavolo delle trattative, mediando su un’opera inutile, dannosa, costosissima.

Senza deleghe

Tra i tantissimi No Tav che hanno dato vita alle marce dell’11 e del 25 settembre non pochi hanno espresso perplessità per il repentino mutamento di fronte di sindaci, la cui opinione sul Tav, varia con il variare delle stagioni e delle alleanze politiche. Il movimento No Tav, pur non avendo una critica netta ai percorsi istituzionali, ha tuttavia una sana diffidenza nei confronti della delega in bianco ad amministratori, che, anche nei momenti migliori, sono stati trascinati dalla forza di un movimento, forte della sua autonomia e capacità critica.
In questo momento cruciale, per certi versi simile a quello che precedette la lunga resistenza dell’inverno 2005, oltre alla partita importantissima del Tav, è in gioco la capacità di autonomia di un movimento, che ha la sua forza nelle assemblee popolari, nei comitati di paese, nella rete solidale che si è costruita in vent’anni di lotta.
In questi anni di resistenza al Tav di acqua sotto i ponti della Dora ne è passata tanta. Il movimento è cresciuto lungo il cammino, imparando poco a poco la pratica della partecipazione e dell’azione diretta. Tutti erano consapevoli che non sarebbe stato facile e sapevano che i fautori del Tav, unanimi da destra a sinistra, avrebbero preparato mille trappole per ingabbiare, dividere, provocare. Non ci sono riusciti, grazie alla consapevolezza che un movimento popolare ampio, dalle tante anime, è forte delle sue differenze, perché sa che gli autoritari vincono quando riescono a trasformare individui liberi in sudditi, tutti uguali come i panini/spazzatura delle grandi catene di distribuzione.
Accusati di essere selvatici, antimoderni, montanari attaccati al giardino di casa, i No Tav hanno indossato la loro diversità con l’orgoglio di chi vorrebbe che questo mondo diventasse un giardino per tutti. Media e politici hanno sostenuto che la forza del movimento dipendeva dal sostegno, in bassa Val Susa, degli amministratori: quando quella stagione ebbe termine gli oppositori al Tav hanno dimostrato che un movimento solido, radicato tra la gente, cammina con le proprie gambe e non ha bisogno di tutele e di padrini.
Ogni volta che il governo di turno ha provato a forzare ha dovuto battere in ritirata. Ci hanno provato con le botte e l’occupazione militare, quest’inverno come nel 2005 e i No Tav, lì, bugianen, non si sono mossi. Ci hanno provato con le campagne stampa, via via più dure, volgari, arroganti, alternando il silenzio alla menzogna. Ma i No Tav sono ben corazzati, perché abituati a osservare il mondo con occhio critico, costruendo le proprie reti di comunicazione, confrontandosi costantemente faccia a faccia in centinaia di incontri, assemblee, feste di strada, tra un presidio ed un banchetto al mercato. Con pazienza, umiltà, determinazione.
Una lunga resistenza.
Ma non è bastata a dare la spallata definitiva ai signori del Tav. Dopo cinque anni dal quel dicembre del 2005, quando venne impedito l’inizio dei lavori, i No Tav devono ancora una volta ingrassare gli scarponi per un altro inverno di lotta.
La scommessa, questa volta, è di farli correre per sempre. Non ci devono più provare.
Certo non è facile. La torta è ricca, e questo raffinato sistema di drenaggio del denaro pubblico funziona grazie alla complicità attiva della gran parte degli schieramenti politici istituzionali. Gente che non guarda in faccia nessuno e non si ferma di fronte a nulla.
Per questo motivo è importante che il movimento non si fermi, che non ascolti le sirene del sostegno istituzionale. Nel 2005, dopo le giornate di Venaus, le Olimpiadi alle porte, il governo chiamò a Roma gli amministratori, che tornarono indietro gridando vittoria per la nascita dell’Osservatorio Virano. Già allora i No Tav compresero che l’osservatorio era una trappola, un sistema per passare con l’inganno, dove la forza non era bastata. Però si fermarono lo stesso, accettando la tregua, per non rompere con gli amministratori, perché troppi non seppero capire che quegli amministratori, accettando e sottoscrivendo quell’accordo, si stavano preparando a saltare il fosso. Le sirene del potere, del prestigio, del denaro stavano cantando la loro canzone.
Oggi quella tregua, una tregua armata, è finita. I signori del Tav sono di nuovo pronti a riprendere le ostilità. I No Tav sono pronti a riprendere la resistenza. L’auspicio è che acqua corsa sotto i ponti della Dora in questi cinque anni non sia passata invano e che nessuno si faccia illudere dal ritorno in piazza delle fasce tricolori. Oggi come allora: sulla vita, sul futuro, sulla salute, sulla giustizia sociale non si tratta. Mandarli a casa per sempre è possibile. Senza deleghe, con l’azione diretta popolare.
È tempo per un altro passo, quello decisivo, in una lotta che ha il sapore aspro e seducente della libertà.

Maria Matteo