Rivista Anarchica Online


nuovi media

A proposito di social media
di Ippolita

«Open non è free, e pubblicato non è pubblico».

 

Sono passati diversi anni da quando Ippolita insisteva sulla necessità di distinguere l’apertura al «libero mercato» propugnata dai guru dell’open source economy dalle libertà che il movimento del free software continua a porre a fondamento della propria visione dei mondi digitali (1). «Il Software libero è una questione di libertà, non di prezzo» (2). L’Open Source si occupa esclusivamente di definire, in una prospettiva totalmente interna alle logiche di mercato, quali siano le modalità migliori per diffondere un prodotto secondo criteri open, cioè aperti. La giocosa attitudine hacker della condivisione fra pari veniva cooptata in una logica di lavoro e sfruttamento volta al profitto e non al benessere, sterilizzandone la potenzialità rivoluzionaria vissuta e individuata da Richard Stallman: «Freedom 3: Freedom to contribute to the community».
Anche la successiva analisi di Google, un tentativo chiaramente egemonico di «organizzare tutta la conoscenza del mondo», si muoveva nella stessa ottica (3). Ovvero, mostrare come la logica open, coniugata alla filosofia dell’eccellenza accademica californiana, trovasse nel motto «Don’t be evil» la scusa per lasciarsi cooptare al servizio del capitalismo dell’abbondanza, del turbocapitalismo illusorio della crescita illimitata. La favola è che more, bigger, faster sia sempre meglio. Tomorrow is another day, e sarà un giorno migliore, perché in sottofondo cova la fede nel miraggio incarnato dal bottone «mi sento fortunato»: una tecnica per definizione buona, figlia di una ricerca scientifica disinteressata, soddisferà tutti i nostri bisogni e desideri, immediatamente e senza sforzo, con un semplice click del mouse.
Purtroppo, questa pretesa di totalitarismo informazionale è meno ridicola di quanto potrebbe apparire. Appurato che non c’è più nulla da produrre, e soprattutto che la crescita illimitata è una chimera anche nel mondo digitale, la rincorsa al prossimo inutile gadget luccicante e rigorosamente touch screen potrebbe vacillare, la crisi di crescita dovrebbe essere dietro l’angolo. Un minimo di consapevolezza dovrebbe soffiare sul nostro mondo esausto: invece di crescere correndo verso il baratro con le cuffie a tutto volume potremmo cominciare a guardarci intorno, guardarci in faccia, parlarci, scambiarci ciò di cui abbiamo bisogno, immaginare e costruire insieme qualcosa di sensato.

La rete gettata

E invece no. Messa in piedi questa gigantesca macchina tecnologica costituita di data-center, di cervelli di prim’ordine e di codici open prontamente rinchiusi da NDA (Non-Disclosures Agreement) e simili, bisognava pur riempirla di qualcosa. Di qualsiasi cosa. Possibilmente spendendo il meno possibile, o meglio ancora a gratis. La produzione industriale del nulla sotto vuoto spinto doveva crescere, a costo zero e con profitti favolosi per i soliti noti, ma come?
La rete ormai era gettata. Piano piano, le connessioni a banda larga si sono fatte meno asimmetriche (soprattutto grazie agli investimenti e agli incentivi in perdita del settore pubblico, per «connettere» e colmare il «digital divide»...), le tariffe sono scese (ma rimangono ingiustificabilmente alte), la capacità di upload è aumentata. Ed ecco palesarsi la soluzione a tutti i problemi: riversare online i contenuti degli utenti. Quello che hanno sui loro computer, telefoni cellulari, apparecchi fotografici, ecc. Ecco il frutto maturo dell’apertura al «libero mercato»: la possibilità di pubblicare per tutti! E il bello, per l’ideologia della crescita illimitata, è che il margine è enorme, il processo di “webbizzazione” è iniziato da poco e le prospettive sono favolose. Infatti per ora si tratta perlopiù di metadati (tag, profilazione, ecc.), la “nuvola” del cloud computing può crescere di molti ordini di grandezza, visto che gli strumenti per gestire i documenti online (Gdocs, Facebook Doc con Microsoft Fuselabs, ecc.) sono ancora ben poco utilizzati. Una delle più efficaci armi di distrazione di massa (4) mai messe a punto: dispensa gratificazione presso gli utenti dei vari servizi cosiddetti «web 2.0», che non vedono l’ora di postare, taggare, commentare, linkare le loro foto, i loro video, twitterate, «testi» e quelli dei loro «amici» nel grande mare nostrum dei social network (e perché mai dovrebbe essere «nostro», se sta a casa di qualcun altro, Facebook, Flickr, MySpace, Twitter, Netlog, Youtube, o come si chiama?). Contenti e felici di avere sul tavolo e in tasca l’ultimo costoso strumento di auto-delazione dal basso, sempre connesso e con tanto di GPS integrato, con cui presto potremo fare acquisti dimenticando la carta di credito, perché chi deve sapere sappia sempre cosa ci interessa e ci piace, dove siamo, cosa acquistiamo, cosa facciamo, con chi, ecc. ecc. E poiché i device sono sempre più piccoli e meno capienti, è facile prevedere un’esplosione dello stoccaggio dei dati personali online.
E siamo arrivati ai giorni nostri. A differenza di quando Ippolita gridava nel deserto dell’entusiasmo tecnofilo che forse non era il caso di mettere «tutto su Google», dalle mail in su, perché la delega (anche semi-inconsapevole) segna l’inizio del dominio (in questo caso, tecnocratico), oggi molte voci si levano contro i social network, accusati di violare la privacy degli utenti. Di essere frutto di un’ideologia fintamente rivoluzionaria, perché internet sarà anche un movimento sociale, ma quanto elitario e contraddittorio! (5) In particolare Facebook, dicono alcuni autorevoli commentatori, è un progetto basato sull’ideologia della «trasparenza radicale» (6), per cui è nella sua natura tendere a pubblicare indiscriminatamente ogni cosa, come dimostrano le sue ultime mosse (7). Bisognerebbe ricordare anche che i finanziatori di Facebook vengono dalla mafia di Paypal, sono legati a doppio filo con i servizi di intelligence civili e militari, sostengono politici dell’estrema destra libertarian statunitense (gente che riteneva Bush senior «un moderato», per intenderci) (8). Qualcuno si azzarda anche a notare, dall’osservatorio privilegiato di Harvard, che forse c’è una bolla dei social media, anche dal punto di vista economico, visto che nessuno ha ancora dimostrato che questi social media permettano di vendere meglio i prodotti personalizzati attraverso pubblicità mirate (9). Persino i supporter cominciano a temere le ambizioni di Facebook (10).
Al di là delle proposte concrete, piuttosto velleitarie (The suicide machine su Facebook; Diaspora e Lorea per ricostruire un social network «libero»; reclami e petizioni alle varie Authority e ai vari Garanti incapaci di garantire anche se stessi, ecc.), qualcuno comincia a mettere il dito sulla piaga. Il pubblico (11). Come «aprire» un codice non significa affatto «renderlo libero», così «pubblicare» un contenuto non significa affatto renderlo «pubblico». Al contrario. Continuando per comodità con l’esempio di Facebook, è proprio il contrario: tutto ciò che viene postato diventa di proprietà esclusiva della società, (ri)leggetevi i TOS (Terms of Service). Ma come, non era stato pubblicato? Non era pubblico? Eh no, pubblicato non significa pubblico. In quasi tutti i casi del «web 2.0» significa, al contrario, privato, di proprietà di una multinazionale o comunque di una società privata. Avete lavorato a gratis per loro, quelli che cercheranno poi di guadagnare sulla vostra pelle servendovi le pubblicità personalizzate che vi ammorbano sempre più. Poi non venitevi a lamentare che non lo sapevate.

Immaginare il proprio futuro

Proprio così. La situazione è critica. Ma questa storia non è cominciata ieri, non ci troviamo per caso in questa situazione. Seguendo i dibattiti sul mondo tecnologico, dall’iPhone all’iPad, da Android a Windows7, da Facebook a Chatroulette, viene da ridere per l’ingenuità di guru, appassionati, semplici utenti: un riso amaro, dall’Italia (che ci appartiene almeno come forma mentis), una videocrazia nostro malgrado dove è chiaro da sempre che non saranno le istituzioni cosiddette democratiche a garantire i nostri diritti, né tantomeno le macchine di questa o quella multinazionale votata alla bontà e al Progresso per tutti a darci, gratuitamente, l’apertura sul mondo e la libertà.
Piuttosto, vale oggi quello che valeva ieri, e che non siamo certo i primi a sostenere: bisogna essere in grado di immaginare il proprio futuro per capire il proprio presente. Ricordando il proprio passato, e creando un racconto collettivo, perché la memoria è un ingranaggio collettivo, nulla si ripete mai ma le differenze si somigliano, e la minestra scipita di ieri, un poco adulterata, potrebbe esserci propinata come l’innovazione radicale di domani. Se l’immaginario sono le pubblicità, televisive o d’altro tipo, e si concretizzano nella «libertà di scelta» di settantamila applicazioni per l’iPhone (se proprio non avete nulla da fare, e ne provate dieci al giorno, ne avrete per i prossimi vent’anni) o nella possibilità di avere più di cinquecento «amici» su Facebook (una cena ciascuno, riuscite a malapena a incrociarli tutti una volta ogni due anni), beh, forse abbiamo insistito troppo poco sulla necessità di desiderare e immaginare qualcosa di meglio.

La questione delle reti

Questo è quello che abbiamo scritto finora, ed evidentemente dobbiamo continuare a scrivere. Forse non serve a niente, ma è molto piacevole e divertente, ci fa sentire bene anche se è un’attività costellata di incomprensioni, difficoltà e fatica, un tempo rubato alla necessità di guadagnarsi da vivere altrimenti. Ci piace immaginare vie di fuga, e provare a raccontarle; immaginare e costruire strumenti adeguati per realizzare i nostri desideri. Metterle a disposizione di un pubblico che è fatto di persone, non pubblicarle attraverso il megafono privato della bacheca invadente di qualche multinazionale.
Siamo in tanti nella stessa condizione, a non voler collaborare, a non voler partecipare al crowdsourcing delle masse dei social media. Ma non abbiamo nulla a che fare con la Moltitudine, né con l’Impero: queste sono categorie buone per il pensiero egemonico, che identifica presunte classi e interessi e organizza lo scontro, che si concluderà comunque con degli oppressi e degli oppressori. Non è difficile tracciare un parallelo fra l’analisi della rete come moltitudine e la teoria della netwar. I teorici fascioliberisti della netwar (John Arquilla in primis) non sono lontani dagli studiosi sinistrorsi di ispirazione negriana delle reti sociali: l’idea di fondo di entrambi è che bisogna conquistare l’egemonia. Da destra o da sinistra, guardano la questione delle reti, lo spazio reticolare, con spirito polemologico, di guerra, di conquista: apparentemente opposti, ragionano nello stesso modo (12). Nell’analisi delle reti, anche sociali, la terminologia stessa è fortemente militarizzata. D’altra parte, tornando al materiale in senso stretto, i computer stessi sono costruiti con minerali semi-conduttori estratti da zone proprio per questo costantemente in guerra (Africa centrale, ecc.). D’altra parte, la globalizzazione delle merci è soprattutto la globalizzazione dello sfruttamento: i nostri strumenti ergonomici e cool sono prodotti da masse di operai asiatici, cinesi in particolare, ai quali si fa dichiarare per contratto che non si suicideranno in fabbrica. Grazie, ragazzi. Intanto noi, mentre acquistiamo l’ultima sciocchezza tecnologica, possiamo forse rallegrarci che qualche albero striminzito è stato piantato per compensare le emissioni di CO2, ma il green capitalism rimane una follia come ogni ideologia produttivista. Nessuno è puro, siamo tutti coinvolti.
Ma pur essendo immersi in questo mondo tecnologico, vorremmo cercare di prenderne le distanze, per scrivere una sorta di etnografia dei social media. Non di come funzionano (ci sono how-to e manuali per quello), ma del perché siamo in questa situazione e di come influenzarla, iniettando eterogeneità, caos, germi di autonomia. Siamo compromessi e implicati, ma questo non significa che dobbiamo accettare tutto in maniera acritica. A partire dall’esperienza collettiva si possono trarre conclusioni individuali, in un processo di straniamento che procede dall’interno all’esterno, invece che dall’estraneità alla familiarità come accade nelle osservazioni etnografiche classiche. I selvaggi siamo noi, e abbiamo bisogno di uno sguardo dichiaratamente soggettivo, non della presunta oggettività di un osservatore esterno. E poi per fortuna il mito dell’oggettività scientifica sopravvive solo nella vulgata deteriore. È più di un secolo che le scienze dure hanno imboccato la via del relativismo, è ora che anche le «scienze umane» lo facciano con decisione. Abbiamo bisogno di relativismo radicale, di prendere le distanze da noi stessi, di osservarci dal di fuori, per capire cosa stiamo facendo, per rendere concreta la nostra attività e poterla così comunicare in uno spazio pubblico, che va preservato, rinegoziato e costruito senza sosta. Usando la terminologia della Harendt (13), abbiamo bisogno di elaborare un discorso che renda conto delle nostre azioni di ricerca.

Qualcuno ha qualche idea? Noi qualcuna sì, fateci sapere!

Ippolita
info@ippolita.net

Noi di Ippolita

Il gruppo di ricerca Ippolita si è coagulato nel 2004 attorno alla redazione del saggio «Open non è free – Comunità digitali fra etica hacker e mercato globale» (Elèuthera, 2005). Vi confluiscono competenze diverse, dall'hacking al giornalismo, dalla filosofia al design. Un'identità multipla, complessa e in costante evoluzione. Ippolita è una vecchia zia a cui dobbiamo molto, la nostra vocazione queer, ma anche il nome del server ippolita.net, una macchina che ospita progetti di scrittura. Scrittura collaborativa di saggi di comunicazione scientifica partecipata, soprattutto sul mondo digitale, ma anche scrittura di codice informatico, cioè di programmi, software, ponti in grado di collegare e mettere in relazione i mondi virtuali e i mondi reali. Messa a punto di strumenti e metodologie per scrivere insieme. Scrittura per costruire reti organizzate in maniera autogestita, scrittura per presentare agli altri ciò che facciamo e chi siamo. Scrittura come metodo per cambiare radicalmente il mondo circostante, per influire in maniera radicale. Per costruire spazi di interazione non gerarchica, cioè di comunicazione che rispecchi i nostri bisogni e realizzi i nostri desideri.
Nel 2006 circolava l'idea di scrivere a proposito della transizione dall'epistemologia all'ontologia nei mondi digitali. Ormai ci sembrava chiaro che il «che cosa» (ciò che conosci, l'epistemologia) venisse rapidamente sostituito dal «chi» (ciò che sei, quali privilegi di accesso ai dati hai, in quale mondo stai operando?): la gestione della conoscenza diventa gestione e costruzione dell'identità. Ma non era possibile scrivere un libro simile, sia perché non eravamo capaci, sia perché sarebbe stato estremamente noioso e per un ristrettissimo pubblico specialistico, sia perché, non essendo accademici o personaggi celebri, non saremmo riusciti a ottenere i finanziamenti né le risorse per dedicarci a un simile progetto.
Così ci siamo guardati intorno e abbiamo notato Google. Era impossibile non vederlo! L'attore più enorme in campo, il motore di ricerca più noto, utilizzato e versatile. Il suo obiettivo (la mission, propagandata da «evangelizzatori», evangelists): organizzare tutta la conoscenza del mondo. Un sogno di controllo totalitario, per quanto di stampo illuminista. Ma Google era e rimane solo un esempio della deriva in atto: la preoccupante diffusione di pratiche di delega a un soggetto egemone delle proprie «intenzioni di ricerca». Questi meccanismi di delega nei confronti degli strumenti digitali sono rappresentati chiaramente dall'arcinoto pulsante di Google, «Mi sento fortunato»: un click, e i miei desideri li desidera e realizza un soggetto tecnocratico. Non ci interessa come faccia, ma solo che ci conduca immediatamente a ciò che vogliamo. E invece la ricerca è un percorso, una costruzione. Ma qui si tratta di trovare, non di cercare. E lui sa cosa vogliamo trovare anche meglio di noi! Perché ci conosce bene, visto che siamo disposti a lasciare tutti i nostri messaggi online, la posta elettronica, le foto personali, i nostri siti preferiti così come le tracce delle nostre ricerche.
Google sfrutta l'enorme massa di dati in suo possesso per una profilazione accurata, necessaria per fornirci pubblicità contestuali, personalizzate in base alle nostre ricerche ma anche al contenuto delle nostre mail. Milioni di piccoli inserzionisti pagano per pubblicizzare discretamente i loro prodotti direttamente alle persone potenzialmente interessate, individuate attraverso le parole chiave contenute nelle loro mail, nella loro navigazione online. Così Google è gratis, perché la moneta siamo noi: ciò che scriviamo, cerchiamo, troviamo, le persone che conosciamo, tutti i nostri movimenti online.
La questione non era evitare di usare Google, demonizzare il colosso della ricerca, ma semplicemente capire, grazie a un esempio molto comune, in che modo la tecnologia cambia il nostro rapporto con il mondo e con gli altri. Internet è una finestra aperta dalla quale esplorare, ma anche una porta aperta sul nostro mondo personale. Formarsi all'utilizzo degli strumenti digitali diventa sempre più necessario, per non consegnarsi completamente al dominio tecnocratico. Questa ricerca è diventata un saggio, Luci e ombre di Google – futuro e passato dell'industria dei metadati (Feltrinelli, 2007), pubblicato anche in francese (La face cachée de Google, Payot et Rivages, 2008) e spagnolo (El lado oscuro de Google, Virus Editorial, 2010), e disponibile in traduzione inglese (The dark side of Google). Come tutte le creazioni di Ippolita, è distribuito sotto una licenza copyleft, che trasforma il diritto d'autore in un permesso d'autore. Perciò non solo non è reato penale fotocopiarlo e farlo circolare (in Italia il copyright è protetto con sanzioni penali!), ma si può anche scaricare gratuitamente dal sito http://ippolita.net/google.
E siamo arrivati a oggi. Da diverso tempo Ippolita sta studiando i social network – e come potremmo evitarlo? Oltre cinquecento milioni di utenti su Facebook, altri centinaia di milioni su Twitter, MySpace, Flickr, ecc. che condividono messaggi, foto, dati di ogni genere, sono un fenomeno che ci tocca anche se non facciamo uso direttamente di queste piattaforme. Capita di essere «taggati» su Facebook, magari fotografati a una festa e finire subito online, con tanto di nome e cognome. La situazione è complicata. Abbiamo deciso di scrivere qualcosa. L'articolo che segue è il primo di una serie che si propone di analizzare il fenomeno «reti sociali online» da diversi punti di vista: socio-storico, filosofico, tecnico, economico, antropologico, psicologico. Ogni articolo verrà tradotto in diverse lingue e fatto circolare; dalle reazioni ricevute si costruirà un capitolo in base a ognuno, in modo da avere un'immagine il più possibile completa da punti di vista diversi. E sarà spunto per progetti di codice. Perciò ogni suggerimento e critica (costruttiva) è benaccetto, e chi è in grado e ha voglia di tradurre si faccia avanti!

info@ippolita.net

 

ADDENDA metodologica:
ricerca industriale vs. ricerca conviviale

Q ualsiasi ricerca deve concretizzarsi in un prodotto testuale (in attesa di superare il logocentrismo...), altrimenti rimarrebbe un gioco solitario, intraneo al gruppo di ricerca. Ma l’imperativo della produzione è un fine in sé, la perversione dell’economia in economicismo, che giustifica mezzi di produzione gerarchici, autoritari e corrotti. Gran parte dell’attuale ricerca scientifica è inutile, ad esempio quando spreca risorse perpetuando le baronie accademiche, o addirittura dannosa, tipicamente quando viene pervertita da finanziamenti militari per lo sviluppo di armamenti. La curiosità e il desiderio di sapere vengono spesso castrati dai criteri di bieca redditività che regolano i finanziamenti pubblici e privati.
In teoria, se la ricerca non produce artefatti tecnologici in grado di generare introiti immediati, non è interessante. Questo è l’argomento principe volto a penalizzare la ricerca di base. Ma poi, in pratica, anche i testi di ricerca più insulsi – che di base non hanno proprio nulla – possono produrre introiti. Si pensi alle consulenze milionarie commissionate agli esperti che «spiegano» come agire in una situazione di crisi: una maniera comoda per distribuire favori e «far girare l’economia».
Questa ricerca, che chiamiamo industriale, è facilmente identificabile. Anche nelle occasioni pubbliche, fra non addetti ai lavori, adora esprimersi in maniera astrusa e incomprensibile ai più, contribuendo a scavare il fossato fra volgo ed esperti. Eppure questi esperti vengono finanziati in maniera sostanziosa da una pletora di soggetti pubblici, fondi non di rado stornati su progetti privati. A livello di produzione testuale, la gran massa delle pubblicazioni di ricerca (paper, atti di convegni, linee guida, ecc.), inaccessibile al grande pubblico, spesso induce frustrazione negli stessi ricercatori di base, che svolgono la gran parte del lavoro ma si vedono defraudati di ogni riconoscimento dal meccanismo gerarchico di attribuzione dell’autorialità. Quando i fondi sono gestiti in maniera opaca e clientelare, quando conta più l’anzianità del merito, chi fa ricerca seriamente è costretto suo malgrado ad accettare lo status quo, diventando di fatto complice di un sistema gerarchico di autosfruttamento delle competenze. Pubblico o privato, la musica non cambia.
Soprattutto, questo tipo di ricerca produce testi immediatamente secretati grazie alla sinergia malsana fra copyright, accordi di non divulgazione e sistema dei brevetti. In questo modo il discorso del potere si fa tecnocrazia attraverso l’accumulo del sapere tecnologico, l’esatto contrario della condivisione comunitaria, dell’autogestione nella discussione e della mediazione fra individui. Il criterio della produttività come fine in sé della ricerca (più pubblicazioni, più soldi, più sapere accumulato) deve essere accantonato a favore della convivialità, un mezzo collettivo che giustifica il fine della libertà individuale. Se la ricerca conviviale dal basso è un orizzonte utopico a cui tendere, la scrittura conviviale è una pratica di rivolta, che indirizza la collaborazione all’interno di un gruppo di ricerca verso quell’orizzonte.
La scrittura collaborativa si fa conviviale nel momento in cui immagina e crea dal nulla uno spazio autonomo che preme per la creazione di altri spazi autonomi. Questo spazio è il testo, un oggetto che mira realizzare i desideri dei singoli autori, consegnando ai lettori sia il risultato del proprio percorso individuale/collettivo, sia un metodo per riflettere e sperimentarsi nella scrittura. Adattando la classica definizione di Ivan Illich, possiamo dire che la convivialità nella scrittura è la libertà individuale realizzata nel rapporto di produzione testuale in seno a un gruppo dotato di strumenti efficaci (14).
Non è sempre possibile rendere una ricerca attraverso scritture conviviali. Generalmente sono necessari numerosi passaggi di traduzione-tradimento perché una ricerca scientifica particolarmente sofisticata diventi patrimonio condiviso e comunicabile a un pubblico ampio. Fornire al pubblico metodi e strumenti adeguati per gestire autonomamente le proprie intenzioni di ricerca e le proprie relazioni sociali è ancora più arduo. Ma la difficoltà dell’impresa è uno stimolo ulteriore a individuare gli esperti disponibili a condividere le loro conoscenze, a immaginare le modalità più efficaci per rendere pubblico, moltiplicando gli spazi di autonomia. Per chi non vuole né obbedire né comandare.

Note

  1. Ippolita, Open non è free – comunità digitali fra etica hacker e libero mercato, Elèuthera, Milano, 2005 free copyleft download http://ippolita.net/onf.
  2. La filosofia del Free Software: http://www.gnu.org/philosophy/free–sw.it.html.
  3. Ippolita, Luci e ombre di Google – futuro e passato dell’industria dei metadati, Feltrinelli, Milano, 2007 free copyleft download http://ippolita.net/google.
  4. Un’idea del CAE, Critical Art Ensemble, http://critical-art.net.
  5. Editoriale della rivista newyorkese N+1 http://nplusonemag.com/internet-as-social-movement.
  6. Danah Boyd, «Facebook and radical transparency» (a rant),
    http://www.zephoria.org/thou­ghts/archi­ves/2010/05/14/facebook-and-radical-transpa­rency-a-rant.html.
  7. Si veda l’evoluzione della privacy su Facebook nelle grafiche di http://www.mattmckeon.com/facebook-privacy.
  8. http://www.guardian.co.uk/technology/2008/jan/14/facebook.
  9. Umair Haque, «The Social Media Bubble», http://blogs.hbr.org/haque/2010/03/the_social_media_bubble.html.
  10. Robert Scoble, «Facebook’s Ambition», Scobleizer, http://scobleizer.com/2010/04/22/facebook-ambition.
  11. Confusing «a» public with «the» public, http://www.buzzmachine.com/2010/05/08/confusing-a-public-with-the-public.
  12. Un primo abbozzo è tracciato da Alexander Galloway, Eugene Thacker, The Exploit, 2007.
  13. Hannah Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano, 1994, p. 134.
  14. Ivan Illich, La convivialità. Una proposta libertaria per una politica dei limiti allo sviluppo, Boroli Editore, 2005, p. 37: «La convivialità è la libertà individuale realizzata nel rapporto di produzione in seno a una società dotata di strumenti efficaci. Quando una società, qualunque essa sia, reprime la convivialità al di sotto di un certo livello, diventa preda della carenza; infatti nessuna ipertrofia della produttività riuscirà mai a soddisfare i bisogni creati e moltiplicati a gara». http://www.altraofficina.it/ivanillich/Libri/Convivialità/convivialità.htm.