Rivista Anarchica Online


Israele

Il processo
testo e foto di Activestills

La cronaca di un processo contro attivisti palestinesi impegnati in una lunga lotta per l’utilizzo dell’acqua di una sorgente dichiarata “patrimonio archeologico” dalle autorità israeliane e quindi bloccata per i palestinesi (ma utilizzata dai coloni israeliani).

Arriviamo al mattino nel campo, uno dei tanti lussuosi campi realizzati per il comfort di oltre seimila prigionieri palestinesi attualmente detenuti da Israele. La zona recintata comprende un grosso carcere e un tribunale militare nel quale i prigionieri palestinesi, giovani e vecchi, sono giudicati da ufficiali dell’esercito israeliano.
Qui non esiste razzismo e non ci sono discriminazioni, perché tutti, senza eccezione alcuna, hanno diritto a un processo iniquo. All’ingresso del tribunale militare ci sono due gabbie, una piccola per chi proviene dal versante israeliano e una più grande dove restano in attesa i familiari dei detenuti palestinesi. Alcuni di loro hanno affrontato un viaggio lungo e costoso per arrivare fin qui e incontrare i propri cari, sia pure per pochi minuti.
Arriviamo al grande cancello di ferro che si frappone tra noi e l’inizio di sgradevoli controlli di sicurezza. Come tutto il resto di quanto avviene nella giornata, anche la lunga attesa prima di entrare è un gioco ben programmato tra i visitatori e le guardie, le quali, nonostante abbiano un chiaro elenco con i nomi dei visitatori, fanno tutto il possibile per tirare in lungo e umiliare i parenti degli arrestati. Qualche guardia sa parlare in arabo, ma la maggior parte se la cava con poche frasi elementari: “vieni qui”, “vai via”, “documenti!”, “come ti chiami”, oltre a vari comandi che si divertono a impartire per fare mostra della gerarchia imposta dall’occupazione in ogni momento. Le regole sono semplicissime: tu devi pregarmi e deciderò io quando mi va di farti passare.
Subito dopo il nostro arrivo abbiamo visto Abu Hanni e sua moglie Im Fathi che ci venivano incontro dal versante palestinese. Abu Hanni, un uomo che va verso la settantina, essendo nato a Yaffa nel 1945, ci si accosta direttamente con il suo bastone. I lunghi anni sotto l’occupazione lo hanno reso cinico e sarcastico verso l’ambiente circostante: questo vecchio ha perso tre dei suoi figli in combattimenti con l’esercito israeliano ed è ora in attesa del processo nei confronti di suo figlio minore, Fathi.
Siamo qui anche per incontrare Fathi e il suo amico Jaudat, entrambi arrestati un mese fa, in piena notte, nel loro villaggio di Qarawat Bani-Zeid. Sono stati presi dall’esercito nel corso di una massiccia operazione militare che ha comportato un’ondata di arresti, tesi a schiacciare la resistenza popolare nei villaggi di An Nabi-Salih, Qarawat, Beit Rimma e Kufer Ein. La resistenza si era molto intensificata per la questione dell’esproprio di terreni agricoli appartenenti alla gente di Nabi Salih e dei villaggi circostanti, sui quali si trova un’antica sorgente utilizzata dai contadini del posto. Due anni fa la sorgente era stata dichiarata “sito di interesse archeologico” e l’esercito ne aveva vietato l’accesso. Invece i coloni ebrei che vivono nel vicino insediamento di “Halamish” utilizzano quotidianamente questa sorgente. Dopo molte azioni nonviolente, nel tentativo di riprendersi la sorgente, azioni che avevano incontrato una reazione violenta dell’esercito e dei coloni, i palestinesi hanno deciso di continuare la protesta con manifestazioni settimanali nelle quali scendono in strada con l’obiettivo di raggiungere le proprie terre, quale simbolo di protesta contro ogni possibile aspetto dell’occupazione.

Una lotta un po’ speciale

La rivolta della gente dei villaggi è sfociata in grandi manifestazioni con la partecipazione di centinaia di giovani, ragazzi e ragazze, dei quattro villaggi circostanti e in collaborazione con attivisti israeliani e internazionali. Fin dall’inizio le manifestazioni sono state caratterizzate da un elevato livello di violenza da parte dell’esercito e della polizia, con un impiego massiccio di armi non letali: gas lacrimogeni, proiettili di gomma di vario tipo e altro, con l’intenzione di reprimere così le proteste, provocando il ferimento di decine di persone. Dopo vani tentativi di impedire le manifestazioni, la tattica dell’esercito è cambiata, puntando sugli arresti in massa che avevano come principale bersaglio i giovani.
Fathi e Jaudat fanno parte di un gruppo di oltre quaranta donne e uomini arrestati in seguito alle manifestazioni e, come per la maggior parte dei fermati, la loro incriminazione si basa su un’unica accusa di lancio di pietre. Per le modalità con cui si tengono qui i processi, non servono elementi specifici riguardo allo svolgersi degli eventi, ma c’è una generica descrizione: “alcune volte… tra marzo e agosto…”, non servono testimoni o prove materiali e la corte marziale si basa solo sulle indagini cui sono stati sottoposti gli arrestati.
Come molti loro amici, anche i nostri passeranno i prossimi mesi in prigione invece che a scuola, dove avrebbero dovuto andare dai primi di settembre; alla stregua della maggior parte dei prigionieri palestinesi condannati da una corte marziale israeliana, conosceranno così il sistema giudiziario dell’“unica democrazia del Medio Oriente”.
Abbiamo conosciuto Fathi vari mesi fa, durante le manifestazioni di Nabi Salih: faceva parte di uno dei folti gruppi di giovani di Qarawat che partecipavano regolarmente alle dimostrazioni. All’inizio ci era venuto con altri ragazzi, ma presto il nostro rapporto si era fatto più stretto e lui ci aspettava al centro del suo villaggio e faceva con noi il resto della strada per Nabi Salih, sempre allegro e sorridente, anche nelle situazioni più dure che vivevamo, fino alle ultime ore precedenti l’arresto, quando non ha trascurato di farci avere un messaggio scritto in cui diceva baldanzosamente: “È arrivato il mio momento e vi rivedrò tra qualche mese…”
La sera seguente stavamo sotto il portico a Jaffa, con facce depresse e lontani da lui. Abbiamo rievocato episodi che avevamo vissuto insieme e la tristezza ci opprimeva pensando a tutti gli amici cari che sono rinchiusi in piccole celle senza finestra e che non possono correre all’aria aperta come amano fare. Pensavamo ad Amjad e a Omar, a Luay e a Rassem, pensavamo a tutti gli shabab e ai modi per non permettere al nemico di soffocare lo spirito della splendida lotta di cui facciamo parte e che è diventata parte di noi.
Non è la prima lotta alla quale partecipiamo, ma senza dubbio è quella più speciale, soprattutto grazie alla sorprendente varietà di persone che scendono in piazza, le donne, le ragazzine coraggiose che formano una linea retta davanti ai soldati e che fanno capire chiaramente a loro e agli uomini che le circondano che questa è anche la loro lotta, grazie ai ragazzi, alle ragazze a ai giovani che sanno esattamente chi sono, per che cosa si battono e che cosa sono disposti a pagare in questa battaglia.
È una lotta splendida per la tenacia, per la determinazione, per essere tale che non fa recedere né noi né la nostra causa.

Speranza vana

Di nuovo all’area recintata, finalmente si apre la porta di ferro e la sentinella ci fa passare al controllo della sicurezza; ogni nostro passo è seguito da sguardi e commenti che tendono solo a dimostrare che siamo controllati, che non è permesso portare niente all’interno, tranne le sigarette e i soldi: niente acqua, non un libro e sicuramente non un telefono. Dopo aver fatto passare le scarpe sotto i raggi X, attraversiamo il metal detector che non suona e siamo scortati in una stanzetta per la definitiva e umiliante perquisizione personale.
Ora che abbiamo finalmente superato tutti gli ostacoli del sistema di sicurezza, entriamo nel grande cortile, sotto un folgorante sole d’agosto, alto nel cielo, che non lascia nemmeno un angolo d’ombra in cui ripararsi, e ci sediamo sperando di sentire chiamati i nomi di Fathi e di Jaudat, ma la speranza si rivela vana, perché non esiste organizzazione né un ordine: i nomi dei detenuti compaiono su un tabellone elettronico, ma senza indicazione o previsione dell’ora in cui si svolgerà l’udienza. Mentre i familiari arrivano alle sette e mezza del mattino, spesso devono aspettare fino al tardo pomeriggio per assistere all’udienza per la quale sono venuti, un’udienza che può perfino non avere luogo. Si resta in attesa, in tensione e aspettando di sentire un nome.
Non vediamo l’ora di entrare nella piccola roulotte che funge da “tribunale”, anche se assomiglia piuttosto a un’armeria dell’esercito. Vogliamo sentire i nomi dei nostri amici, poterli vedere sorridere, ma nello stesso tempo vorremmo correre via da questo luogo che rappresenta così bene tutto il male, la crudeltà e la repressione che ci circonda.
Restiamo seduti in cortile discorrendo e sorridendo con i genitori di Fathi, che non sembravano troppo turbati dalla situazione; dopo tutto loro hanno vissuto quasi tutto quello che può regalarti l’occupazione e ora desiderano solo rivedere il proprio figlio sedicenne, cresciuto troppo in fretta. Per molte famiglie queste udienze sono le uniche occasioni in cui riescono a vedere i propri cari (le visite sono permesse solo dopo che l’arresto è trasformato in condanna, con una trafila che può durare mesi), per chiedere se stanno bene, per dare notizie della famiglia e del villaggio e per scambiarsi qualche sorriso.
Passano le ore e il calore non scema. Verso le due e mezza finalmente chiamano i loro nomi e noi ci affrettiamo a raggiungere la stanza numero 4. Eccoli lì, seduti vicino a noi (ma tanto lontani), con addosso quelle orribili tute marroni dei prigionieri. Fathi si è tagliato i capelli, non ha un bell’aspetto, ma continua a sorridere, anche se puoi leggere la stanchezza sul suo viso, Jaudat non stacca gli occhi da noi nemmeno per un momento; poi verremo a sapere che la sua famiglia non è venuta perché non l’avevano informata dalla data esatta dell’udienza.

Il sistema repressivo

L’uomo che presiede la corte è un ufficiale di alto rango (il titolo di giudice potrebbe essere sostituito facilmente con quello di portinaio). Se ne sta comodamente seduto e osserva lo spettacolo che si svolge sotto i suoi occhi. L’avvocato dell’accusa, un giovane religioso e smilzo, che parla con un forte accento francese, è l’unico che affronta la situazione in modo serio. Siccome nessuno dei due ragazzi ha un avvocato che li rappresenti, l’udienza dura dieci minuti, ma anche nei casi in cui è presente un difensore (e perfino se si tratta di un avvocato israeliano) il modo in cui si svolge l’udienza è ben lontano dall’essere razionale e corretto: il dibattimento è condotto in lingua ebraica e un soldato funge da interprete; ovviamente il suo dovere sarebbe di tradurre ai prigionieri le parole esatte che vengono pronunciate, ma in realtà traduce certe volte una frase intera, altre parole a caso e il resto del tempo resta impegnato a fare telefonate, a flirtare con le ragazze in divisa che vengono a fargli compagnia e addirittura a schiacciare un sonnellino. Per tutto il tempo, il dibattimento si svolge “sopra la testa” dei prigionieri che per lo più non capiscono niente del processo, se non le imputazioni e la data delle udienze successive. Il giudice decide di aggiornare tra due mesi. Alla svelta e in modo semplice, senza dubbio, decide così di tenerli in prigione. Nessuno ha fretta, saranno comunque giudicati colpevoli di un reato che non hanno commesso e il tempo trascorso in prigione sarà sottratto alla pena che comunque sarà loro comminata.
Ai tribunali militari piace tirare in lungo per le condanne agli arrestati. Quelli fermati durante le manifestazioni e incriminati per lancio di pietre, in gran parte dei casi, resteranno in carcere. La procedura è semplice: nei primi giorni successivi all’arresto sono sottoposti a indagini e torture che hanno due scopi, il primo è di farli confessare i reati (che li abbiano commessi o no), il secondo è di strappare loro informazioni sui loro amici, in modo da incastrare anche loro.
Gli inquirenti dell’esercito, coniugando abilmente l’esposizione di muscoli e le false promesse, pongono i giovani davanti a una scelta facile: confessare e passare dai cinque agli otto mesi in prigione oppure non confessare ed essere addirittura assolti, ma in questo caso il processo può protrarsi per anni, durante i quali si resta ad aspettare in prigione.
La combinazione di paura, torture, false promesse e il fatto che i giovani rappresentano la principale (se non l’unica) fonte di sostentamento per le proprie famiglie, spinge molti a dichiararsi colpevoli delle accuse portate nei loro confronti. Questo modo di opprimere non è una novità: è parte integrante e importante del sistema raffinato di repressione sviluppato da Israele per soffocare qualsiasi espressione di rivolta popolare.
Prima di Nabi Salih, un analogo attacco era stato subito dal villaggio di Nil’in, culminato con l’incarcerazione contemporanea di oltre sessanta suoi abitanti. Il sistema repressivo non è riuscito a spezzare lo spirito degli abitanti, anche se ha in effetti indebolito notevolmente la forza delle manifestazioni, colpendone gli elementi di guida e i giovani che avevano scelto di resistere.

Hanno scelto di non tacere

Le udienze di Fathi e di Jaudat sono finite e comincia quella della terza persona che sedeva accanto a loro: costui sembra insicuro ma decide di dire qualcosa alla corte. Il giudice accetta malvolentieri ed egli si alza in piedi orgogliosamente e si rivolge a tutte le persone presenti nella stanza: “Mi è stata estorta una confessione con la violenza e la tortura; io non riconosco l’esistenza dello stato d’Israele e di questo processo…”. Rimane immobile mentre il soldato traduce le sue parole al giudice, che tiene gli occhi fissi su di lui. Guardo quel giovane e il mio cuore batte più forte, egli ricambia il mio sguardo e io gli faccio un segno di vittoria. Ammiro la forza che ha nel suo cuore, quella che hanno anche gli altri.
La guardia ordina rudemente a Fathi e ai suoi amici di alzarsi, Fathi cerca di dire un’ultima cosa a sua madre prima di essere spinto fuori. Si alza in piedi Abu Hanni, che ringrazia l’onorevole giudice; il soldato traduce le sue parole ma nessuno dei militari presenti sembra cogliere l’intonazione sarcastica con cui le ha pronunciate.
Usciti dalla roulotte, cerchiamo di gridare ancora qualche parola ai nostri amici che sono allontanati dall’altra parte del recinto. Adesso l’unica cosa che ci unisce è il suono delle catene metalliche legate tra le loro gambe e, in pochi secondi, anche questo svanirà nella calura silenziosa e deprimente di questo posto.
Il percorso di uscita fino a raggiungere le nostre automobili è compiuto in silenzio: dobbiamo stare in piedi in una piccolo gabbia e domandare a un soldato che non vediamo, al di là di un vetro scuro, di darci di nostri documenti di identità, che ci sono indispensabili per allontanarci da questo posto che detestiamo e nel quale torneremo sicuramente la settimana prossima.
Nell’ultima gabbia diamo un arrivederci ad Abu Hanni e a Im Fathi, ci baciamo e abbracciamo, promettendo di tornare ancora e di restare in contatto; loro escono da un lato della gabbia e noi dall’altro.
Quando finalmente si chiude alle nostre spalle l’ultimo cancello, quando dovremmo sentirci “liberi” e “affrancati”, restiamo in silenzio accanto alle nostre auto: non c’è niente che possa rasserenarci l’animo. Possiamo solo pensare a coloro cui è stata sottratta anche l’ultima briciola di libertà perché hanno scelto di non tacere.

Activestills
(Traduzione dall’inglese di Luisa Cortese.
Si ringrazia per la collaborazione Gaia Raimondi)

Per ulteriori info:

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