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Migranti e politica in Italia

Ho avuto la fortuna di incontrare in diverse occasioni don Andrea Gallo, il prete libertario (curioso ossimoro) che ha fondato a Genova la Comunità di San Benedetto al Porto e che da almeno mezzo secolo lotta per diffondere la cultura della pace, della solidarietà, dell’accoglienza. Ogni volta ne sono uscito arricchito. Di vita, di umanità, di una sana voglia di ribellione. Nel 2005 ne recensii il primo libro autobiografico – Angelicamente anarchico –, che con spietata lucidità denunciava l’ingiustizia del nostro tempo, raccontava il quotidiano soffrire dei disperati, e richiamava con parole semplici ma di straordinario impatto il magistrale esempio di Fabrizio de André, il cantore di coloro che non si conformano alle leggi del branco e che viaggiano – con tutta la loro fragilità – in direzione ostinata e contraria. Ora ho appena concluso di leggere d'un fiato Così in cielo, come in terra, un secondo volume di riflessioni autobiografiche. La stessa intensità, la stessa straordinaria forza, lo stesso rabbioso sgomento contro le derive xenofobe e le ipertrofie paranoidi nelle quali siamo dolorosamente immersi. Curiosa coincidenza. La mia lettura si è conclusa il giorno stesso nel quale i “barbari” hanno vinto. Le elezioni regionali del maggio 2010 hanno consegnato quasi per intero l’Italia settentrionale alle Destre e – ciò che più sorprende – il Piemonte alla Lega Nord.
Ma perché parlo senza remore di barbari? Non è forse una sconfitta – quella del centrosinistra e della “Zarina” che lo guidava nelle lande sabaude – in buona parte meritata, frutto di un governo non così incisivo, di un’identità smarrita, di una miope autoreferenzialità e perfino di una certa arroganza (diciamo che in Val di Susa se ne erano accorti già da qualche tempo…)?! Probabilmente sì, le responsabilità sono molte, e la ricerca di un indefinito “consenso al centro” non ha affatto giovato. Ma questo non ci può far dimenticare chi c’era dall'altra parte, e che ora è chiamato a governare per i prossimi cinque anni.
Non credo che sia qui il caso di far riferimento alla classica distinzione tra le categorie politiche fondamentali di Destra e Sinistra, certamente da ripensare in epoca di iperliberismo globale, e sulle quali continuano ad arrovellarsi qualificati politologi. Probabilmente è meglio chiamare in causa l'alternativa – ancora drammaticamente valida – tra civiltà e barbarie, appunto.
Atteniamoci ai fatti. Fine gennaio 2010, Reggio Calabria. Sono ancora aperte le terribili ferite lasciate nelle coscienze di chiunque non sia disceso al di sotto di una soglia minima di umanità dal pogrom di Rosarno contro migranti brutalmente cacciati dai luoghi delle loro misere esistenze, che il nostro presidente del consiglio rilascia dichiarazioni sconcertanti. Lo slogan è semplice e diretto: “Meno immigrati, meno criminali”. Poco importa che quelle siano le terre dove imperversa la ‘ndrangheta, e dove lo Stato mostra da sempre tutta la propria debolezza. Il problema non è la mafia (del resto ben rappresentata nelle alte sfere); no, il problema sono i disperati che raccolgono arance o pomodori, a seconda delle stagioni, per pochi euro al giorno e in condizioni di lavoro insostenibili, senza diritti, senza tutele, senza voce. In una sola parola, Servi, come li ha giustamente chiamati in un suo eccellente volume l’autore toscano Marco Rovelli, che dopo la vergogna dei cpt (veri e propri centri di detenzione, con una legittimità giuridica del tutto infondata) si è dedicato a studiare il fenomeno dello sfruttamento dei migranti, in particolare dei cosiddetti “irregolari”.
Mi permetto qui di richiamare incidentalmente le efficaci parole di un appello scritto e firmato da una rete di associazioni di stranieri e di realtà antirazziste alessandrine: «Rosarno oggi è l’esempio più crudo della logica che guida le politiche di questo Governo ed è il risultato più compiuto di questi anni di politiche sull’immigrazione. Uomini e donne divorate senza la minima remora dalla volontà di creare nuove e più astute forme di schiavitù, persone ricattate in egual modo dalla violenza mafiosa e dalle Leggi, tenute in ostaggio e quindi oggetto di sperimentazioni giuridico-criminali di spogliazione di ogni diritto, della dignità, della parola. Uomini considerati e trattati come pura forza-lavoro. (…) Rosarno è questo Paese Italia impaurito, che soffre di vertigini perché sull’orlo del burrone e si muove a casaccio»
Buona, per una volta, la replica alle esternazioni del premier da parte dell’opposizione parlamentare, che per bocca di una dei suoi esponenti più attenti, Anna Finocchiaro, ha con prontezza ribattuto: “Altro che immigrati. Diciamo meno premier, meno crimini”. Eh già, perché ormai quasi ci si è dimenticati delle escort di Stato, dell’orgia del Potere inscenata a Villa Certosa (una tregua breve, invero, visti gli scandali delle settimane immediatamente successive, che hanno intaccato l'immagine di una figura chiave del nostro panorama politico, il super-capo della Protezione Civile Guido Bertolaso); mica c’è più tanta cautela a delegittimare apertamente la magistratura e a far scempio della giustizia, tra processo breve, legittimo impedimento e preoccupanti tentazioni bipartisan per reintrodurre l’immunità parlamentare. (…)
È vero che non ci sono nell’immediato soluzioni del tutto convincenti. Che la situazione è particolarmente complessa. Ciò che però non possiamo fare è tacere di fronte allo scempio che si sta perpetrando nei confronti dei valori fondanti delle nostre società. La tentazione può essere quella di sottrarsi alle brutture che ci circondano. Di ripiegarci nel privato pensando soltanto ai problemi del nostro quotidiano. Ma l’unica cosa davvero sbagliata in questo momento mi sembra che sia proprio l’indifferenza.
In Italia centinaia di migliaia di clandestini vivono in condizioni insostenibili, sfruttati, isolati, accerchiati, stigmatizzati, assolutamente non garantiti. E la differenza – peraltro assai discutibile, per usare un eufemismo – tra chi ha i "papelli" in regola e chi no va sempre più sfumando. Estraneo e cattivo sono troppo spesso intesi come sinonimi. La xenofobia striscia pericolosamente. E il Potere la alimenta. Che sia il premier che ammicca allo sbarco di belle ragazze dall’Albania, raggiungendo vertici di machismo idiota e villano, o che siano manifesti elettorali di oscuri candidati, che inneggiano apertamente all’odio razziale. “Donna o terrorista?”, era la scritta che campeggiava sotto la foto di una donna velata su uno di questi fogli in occasione delle recenti elezioni all’ingresso della città padana in cui ho la ventura di abitare. Non ci sono parole adeguate a commentare tanta stupidità. E lo scoramento rischia di prevalere se prendiamo consapevolezza che il nostro Paese, pur scivolato progressivamente lungo una china pericolosa di razzismo dispiegato – ormai sotto osservazione critica e costante delle istituzionali internazionali –, non rappresenta affatto un caso isolato. Pensiamo solo alle Destre xenofobe recentemente premiate da un largo successo elettorale in Ungheria, ma anche all’attenzione e al consenso che cominciano ad ottenere slogan e schieramenti politici xenofobi in uno degli Stati più civili d’Europa come l’Olanda. Un segnale inequivocabile – scrive Marco Revelli nel suo ultimo saggio, significativamente intitolato Controcanto – della «sempre maggiore difficoltà del rapporto con l’altro nell’epoca della de-localizzazione», nonché «di un ritorno brutale, rapido, in buona misura inconsapevole, ma devastante, alle logiche di una società di caste: universi sociali separati e gerarchicamente sovrapposti. Signori, e servi. Eletti, e paria. Uomini, e topi» (p.157 e p.54). Il risultato di una crisi globale, che sembra mettere all’angolo le classiche risposte dei movimenti progressisti, in Italia come e forse più che altrove.
Ma quando capiremo, alfine, che gli uomini sono davvero tutti uguali? Che senza migranti siamo tutti più poveri, e non solo dal punto di vista economico? Che la differenza è ricchezza, e che isolati si vive male? Bello, molto bello, l’embrionale tentativo di auto-organizzazione dei migranti, che il primo marzo 2010 hanno dichiarato uno sciopero, dai forti tratti simbolici, e utilissimo a far riflettere su quanto dicevo poc’anzi. Più migranti uguale più lavoro, più cultura, più apertura, più ricchezza economica e umana. Senza i lavoratori stranieri il nostro sistema economico sarebbe al collasso. Per rendere l’idea, sono quasi due milioni i cittadini rumeni che lavorano per imprese italiane, nel nostro Paese o in patria. E se da un giorno all’altro non ci fossero più? Ma soprattutto, tutti costoro di quali diritti e di quali tutele godono? Banalmente, come mai coloro che producono e pagano le tasse non dovrebbero avere voce in capitolo sull’uso e sulla distribuzione delle risorse pubbliche? Osservazioni di semplice buon senso, ma lontanissime dal sentire comune in un paese come il nostro, percorso come detto da una crescente ostilità verso l’altro, lo straniero, l’estraneo, con gravi responsabilità dirette di un sistema politico sempre più marcio.
Certo, la demagogia rende. Ma è fasulla, fragile, pericolosa. Chi starnazza in difesa di micro-identità esclusive ed escludenti in realtà cerca solo di costruirsi un facile consenso, facendo leva sulle paure e sugli istinti peggiori delle persone. Dobbiamo forse ricordare ancora, per fare un esempio tra i molti possibili, gli emolumenti da capogiro che parlamentari ed eurodeputati leghisti percepiscono, al pari di tutti gli altri, da Roma ladrona e dall’Unione Europea traditrice del popolo padano? Oppure il mare di consulenti e portaborse prezzolati dalle camicie verdi di lotta e di governo, tra i quali il figliolo del Capo, il buon Renzo Bossi, che deve ripetere l’esame di Stato tre volte prima di diplomarsi, e di diventare infine il più giovane consigliere regionale della Lombardia?!
Il populismo sembra in effetti rendere bene (in tutti i sensi). Almeno per un po’. Poi il popolo, quello vero, di solito inizia a capire. E il vento cambia. Forse parole come solidarietà, accoglienza, condivisione, avranno presto un risveglio nelle coscienze dei più, e la giusta rabbia contro iniquità e soprusi troverà nuove forme per esprimersi e organizzare comunità più libere, coese, gioiose. Dobbiamo rimboccarci le maniche e non smettere mai di “osare la speranza”, come ostinatamente ci ricorda don Gallo nei suoi libri, dai quali abbiamo preso le mosse: «So di non essere onnipotente», scriveva nel 2005, e tutti noi sappiamo di non esserlo; tuttavia, egli subito aggiungeva: «Ma non voglio concedermi la scusa dell’impotenza». Ecco il punto fondamentale. Non possiamo rassegnarci al pensiero che non cambi mai nulla; che gli ultimi saranno sempre gli ultimi. Occorre invece moltiplicare gli sforzi affinché faccia finalmente breccia l’idea di una “solidarietà liberatrice” che sappia coniugare le libertà, i bisogni e i diritti dei singoli e della collettività tutta, e vincere l’indifferenza, l’ipocrisia, l’egoismo, l’intolleranza e il razzismo. Ci attende un lungo e periglioso cammino comune in difesa della civiltà, ossia di una società meticcia fiera della ricchezza delle sue ibridazioni, dei suoi incontri, dei suoi scambi e dei suoi legami solidali. Non ci sono alternative, almeno se condividiamo l’obiettivo di porre un argine alla barbarie trionfante. Io non voglio vivere in un paese xenofobo. Non voglio rassegnarmi all’ingiustizia, all’iniquità, allo sfruttamento. Devo forse emigrare? O una speranza ancora c’è?

Giorgio Barberis
(Alessandria)

Botta e.../Dissento da Accame su Magris

Fino al numero 352 di “A” ho sempre letto con compiaciuta partecipazione gli articoli del nostro Felice Accame. A costo di risultare antipatico, però, devo fare un appunto all’articolo, quello sì, davvero «irrazionale» – comparso su A dello scorso maggio – che spazia con competenza, ma a mio parere impropriamente in rapporto all’articolo di Claudio Magris oggetto di denuncia, cercando di tirare forzatamente a fondo in toto l’autore triestino.
Se ho davvero compreso, ma non se sono certo, lo spirito autentico del complicato testo di Accame, devo dissentire in primo luogo sul preteso «delirio irrazionalistico» di Magris (Utopia e disincanto e L’altra ragione smentiscono da soli quest’affermazione) e allo stesso modo sull’additata «sfiducia nella scienza e nel suo sapere». Non si tratta, nel caso di Magris, di tutto questo: si tratta, casomai, di un attacco antiborghese al protettivo sguardo classificatorio tipico degli ingegneri e scientisti musiliani, per i quali la vita è “semplice” perché la si può “dire” in ogni suo aspetto. Sono i grandi “semplificatori” di cui siamo oggi – soprattutto in politica! – anti-bioticamente circondati. L’ordine, e molto bene viene mostrato dal critico ne L’anello di Clarisse, può venire solo dal “grande stile”, da un principio ordinatore che deve avere le sue radici esclusivamente nell’originalità creativa – e stirneriana – del singolo.
Da questo punto di vista io non vedo alcun tentativo irrazionalistico, ma un discorso, casomai, sulla misura e il limite del razionalismo.
Confesso di essere rimasto disorientato da una – forse solo apparente? – contraddizione che l’articolo contiene: se nel paragrafo 2, l’autore con non velata ironia definisce “una curiosa rivendicazione” quella che Magris avanza riguardo l’originaria paternità di Svevo sulla classificazione degli animali di Borges (e Accame la lega, un po’ in malafede, solamente all’esplicita triestinità che accomuna Svevo e Magris), nel paragrafo 6 accusa invece Magris di legittimare comunque la paternità di Borges in quanto divulgatore del contenuto. Insomma, Magris fa bene o male a condurre un discorso genealogico? Fa bene o male a confermare comunque la paternità a Borges?
Per Accame, fa malissimo: per questo definisce quella di Magris «una impressionante subordinazione culturale al populismo che viviamo». Lo stesso, mi chiedo allora, dovremmo fare con Wallace e Darwin, e smetterla di parlare di darwinismo e darci al “wallaceismo”? O negare l’importante lavoro di divulgazione sull’entropia a Max Plank per ridare a J.Willard Gibbs il giusto merito? O, ancora, negare a Richard Owen la paternità della nomenclatura paleontologica per ridarla allo sfortunato Gideon Mantell? La scienza, la storia e la cultura traboccano di questi «fatti e misfatti». E mi sembra tutt’altro che scorretto negare la “gloria” – se davvero di questa brutta bestia l’articolo in fondo tratta – a chi ha avuto la capacità di di-vulgare. Di rendere, cioè, popolare. Una verità, se nuda, muore di freddo.
Per esperienza personale, in riferimento al passo in cui Accame taccia Magris – leggendo in lui la volontà di «raccontar balle» dal momento che ritiene sia «giusto formulare una storia che, più che della sua coerenza, badi all’effetto che fa sulle masse» – oltre che di «bonarietà autolesionista» e di «ideologia irrazionalista», anche – e ben più gravemente – di «populismo», posso dire con certezza (per fare un esempio a tutti accessibile) che lo stesso Fabrizio De André non avrebbe scritto niente se non fosse stato anche lui convinto della supremazia del “grande effetto” sulla grande massa piuttosto che di un piccolo e impeccabile contributo su micro circoli autoreferenziali.
Sono invece d’accordo con Magris che, nell’articolo in questione pubblicato sul “Corriere della Sera”, ritiene sia «giusto che le scoperte portino il nome non di un precursore, ruolo spesso infelice, bensì di chi le ha diffuse, facendole diventare patrimonio comune e anche chiacchiera comune, necessaria al ruolo dominante di un pensiero». Il «populismo scientifico à la Magris» è in realtà anche quello di De André (accomunato per altro allo scrittore triestino per la spropositata devozione per Elias Canetti): ed è anche la sua carta vincente. Altrimenti  Cumba, Jamin-a, Geordie o Smisurata preghiera (tutte canzoni/idee/testi, solo per fare un esempio, preesistenti e da lui impeccabilmente trasformati e genialmente volgarizzati), e così praticamente tutto il repertorio di De André – che, come dice lui, si muove «tra antichi e moderni saccheggi» – non dovrebbero portare il suo nome. Non bloccarsi sull’origine autentica (che poi, come sostiene Nietzsche, e lo stesso Accame a inizio articolo, non esiste mai “pura”) è una grande e utile capacità: la tensione che a questo punto dovremmo definire «populistica» di De André è confessata di sua mano negli scritti autografi dal momento che, scrivendo, sempre si rivolge ad un “voi” immaginario: quello del pubblico, perché il pubblico è – in ogni istante – l’origine e il fine perennemente presente di ogni sua parola. Altrimenti, scrive, «certe volte mi chiedo se noi che cantiamo non siamo rimasti per caso un “club” di signorine romantiche che giocano a “palla a mano” fra le mura di un giardino di melograni mentre fuori la gente si sbrana».
È l’effetto che conta, in un mondo complesso, e non la genealogia che quell’effetto ha prodotto (genealogia o archeologia per altro necessarie, ma a discorso – per dirla con Foucault – già strutturato). Sarebbe bello il contrario, ma il mondo, purtroppo, oggi va così, e sia Magris che De André e lo stesso Tiziano Terzani – così come Tolstoj un secolo prima, per fare degli esempi di «divulgatori» di grandi idee – lo hanno capito. E se non vogliamo essere degli inutili Don Chisciotte, tanto vale utilizzare i mezzi a disposizione e servirsene per un fine comunque contro corrente, come è il loro. Non si tratta di premiare chi da il “la” al verbo, ma chi riesce a catalizzarlo per la massa, per la maggioranza. Certo, “massa” e “maggioranza” sono vere e proprie paludi, ma, nelle loro scelte, sta pur sempre il nostro destino. E a meno che non vogliamo giocare a “palla a mano” anche noi, forse è meglio che certi concetti, certe visioni, arrivino alle coscienze, invece che impantanarsi, a prescindere dal contenuto, in diatribe filologiche a priori. Altrimenti anche Al Gore avrebbe potuto fare benissimo a meno di scrivere Una scomoda verità, dandola così una volta per tutte vinta ai negazionisti (perché nello scrivere quel libro siamo certi non sia stato scientificamente impeccabile) per sottrarla alla «chiacchiera». Ri-orientare il tiro, poter trarre dalla «chiacchiera» ciò che nasconde di «autentico», invece, è sempre possibile. Insomma: meglio qualcosa che il nulla.
In realtà non sono affatto d’accordo con Magris quando rimprovera Foucault di non aver citato Svevo, per quanto Accame non riporti il passo (questo sì, davvero contestabile). Ora non so che sgarbo possa aver fatto Magris ad Accame, ma che sia un «nazionalista-patriottardo», vista la sua posizione non retoricamente frontaliera, direi proprio di no. Magris non gli è simpatico, d’accordo, ma “scientificamente parlando” mi sembra che l’articolo riporti nebulose illazioni fuori luogo, tanto più che nella bibliografia indicata non compare neanche un testo del germanista. Ad Accame, che da sempre seguo con fiduciosa attenzione, non sarebbe passato «manco per la capa» di scrivere un articolo così intellettualmente altezzoso, se prima avesse approfondito il contesto in cui si colloca l’intera produzione dello scrittore triestino. Forse, allora, sarebbe andato più cauto nel denunciare le «sciocchezze» e l’«autocompiacimento» di Claudio Magris.

Federico Premi
(Trento)

...risposta/La difficoltà di spiegarsi

Capita che uno scriva e scriva e che arrivi un momento in cui si rende conto che non è stato affatto chiaro. Ad aiutarmi nel raggiungere questa consapevolezza, la lettera di Federico Premi è servita. Mi riferisco a quanto ho scritto prima – nei numeri di “A” che precedono il fatidico 353 –, perché essendo sempre stato letto da Premi e non avendo egli mai trovato nulla da ridire, devo convincermi del fatto che, evidentemente, non sono riuscito ad esprimere tutto ciò che avrei voluto. Ne chiedo scusa – e chiedendone scusa provo ad emendarmi.
Prima, però, vorrei che si condividesse quanto segue:

  1. Che sia Magris a parlare di “insensatezza di ogni classificazione” e del conseguente dissolvimento di “scienza” e “ragione” mi sembra fuor di dubbio – e fuor di dubbio sembra anche a Federico Premi, perché in caso contrario sarebbe stato lecito attendermi che me l’avrebbe contestato.
  2. Che sia Magris a pontificare dicendo che “è giusto” che le scoperte siano ascritte non ad un precursore (“infelice”), ma a chi le ha diffuse (“felice”) trasformandole in “chiacchiera” di regime (traduco: “necessarie al ruolo dominante di un pensiero”) mi sembra fuor di dubbio – e fuor di dubbio sembra anche a Federico Premi, perché in caso contrario sarebbe stato lecito attendermi che me l’avrebbe contestato.

Ciò assodato, vengo ad un’argomentazione che mi preme. Qualcuno avrà notato che, allorché ho attribuito a Magris un “pieno delirio irrazionalistico” mi ero ben guardato dal far mio il giudizio in quei termini. Ho detto che: “un tempo sarebbe stato bollato come”. Pensavo a categorie nell’uso di altri – come avrebbe potuto essere in un Lukacs, per esempio, laddove, ne La distruzione della ragione, prova a rifare i propri conti con il pensiero di Sorel; o nel Nolte de I tre volti del fascismo laddove parla di “irrazionalismo relativistico”. Perché?
Perché, purtroppo, nella storia della filosofia spesso “razionale” e “irrazionale” sono trattati come designassero caratteristiche proprie di qualcosa e non come categorie applicabili in alternativa a seconda del punto di vista adottato. Sia nella sua versione ottimistica che in quella pessimistica – “realtà” accessibile e “realtà” inaccessibile –, la filosofia ha fatto largo scempio di queste categorie confondendole con il presunto oggetto della sua analisi. Da ciò abbiamo avuto buone dosi di “realtà razionale” – l’aggettivo “di fiducia”, lo chiamava Ceccato – quanto di “realtà irrazionale”, perché “incomprensibile”, “eterogenea con le capacità della ragione umana”, come nota Vaccarino in Scienza e semantica costruttivista (Clup, Milano 1988, pag. 160-161).
Nessuna attività, dice Ceccato nelle sue Lezioni di linguistica applicata (Clup, Milano 1990, pag. 103-104) : “è di per sé razionale o irrazionale, logica o illogica, ma ciascuna lo diventa se è messa in rapporto con qualcos’altro e al vedere se lo soddisfa o no. Nel caso del razionale, il rapporto è con uno scopo che si intenda raggiungere”. Sono analisi che condivido – se qualcuno me ne fornisce una migliore sarò lieto di accoglierla.
Il nucleo della questione, insomma, è che definire un’attività “razionale” significa semplicemente considerarla coerente allo scopo che questa attività vuole perseguire. Pertanto, soltanto in virtù di un assunto filosofico erroneo – erroneo in quanto filosofico –, Premi può dire che il mio articolo in “A” 353 fosse “irrazionale”. A meno che non volesse dirmi che non ho raggiunto lo scopo che mi ero prefisso – il che è negato dai punti 1 e 2 messi in evidenza a premessa dell’argomentazione.
Ci tengo ad essere particolarmente chiaro su questa questione perché, negli stessi termini metodologici, la questione si pone e ripone più volte. Per esempio, a proposito della “Verità” – quella che, a detta di Premi, se “nuda”, nonostante tutto il nostro voyeurismo, morirebbe di freddo.
Anche in questo caso ci troviamo a fare i conti con uno scempio filosofico che, in pratica, nasce con la filosofia stessa. Nell’uso comune “vero”, sul versante linguistico, è quell’asserto concernente la ripetizione di qualcosa, l’esecuzione di un confronto tra i due risultati e la categorizzazione successiva di uguaglianza – “falso”, all’opposto, nel caso di una categorizzazione successiva di disuguaglianza, di differenza. “Vero” e “falso” sono sul versante linguistico quel che sul versante non linguistico sono “reale” e “apparente”. In filosofia, come è noto, sono stati ridotti al risultato dell’impossibile confronto tra un “ordine delle idee” ed un “ordine delle cose” – o tra “linguaggio” e “realtà”.
Che, poi, il populismo scientifico di Magris sia anche quello di De Andrè sarei anche propenso ad accettarlo. Ma a De Andrè dovrei mettere sul conto anche altro che non so fino a che punto possa ascrivere a Magris. Per esempio, la sua indulgenza nei confronti della cultura esoterica, che, sarà anche stata una sua “carta vincente” ma fermo restando il fatto che il “gioco” in questione è tutt’altro che chiaro quale sia stato. Premi, non a caso, parla di un “pubblico” come “l’origine e il fine perennemente presente in ogni sua parola”. Ma, a mio modesto avviso, – già l’idea di “pubblico” – già il categorizzare più persone come “pubblico” presuppone dicotomie ineliminabili tra chi sta da una parte e chi dall’altra, tra chi paga e chi è pagato, tra chi “assiste” e chi “fa” e, pertanto, a questo svilimento del riferimento politico non ho alcuna intenzione di partecipare – come “origine e fine” perennemente presenti nelle mie parole, preferisco ancora quelle di “proletariato” e di “popolo” (lasciando a papa Wojtyla e a Toni Negri la “moltitudine”).
Che Magris mi abbia fatto uno sgarbo credo sia difficile – innanzitutto perché ho buoni motivi di ritenere che non sappia affatto della mia esistenza, e in secondo luogo perché temo che farmi uno sgarbo gli sia difficile – se non per altro perché non ne ha motivo alcuno. Che Magris non mi sia “simpatico” è tutto da vedere. Sull’utilizzo di questa categoria (come del suo contrario) ho tutta una serie di cautele, derivanti dal fatto che, nell’uso smodato della categoria fiuto – anche lì – un che di cultura esoterica (come l’etimo d’altronde lascia presagire) e, conseguentemente, di superficialità più o meno voluta e più o meno agognata: detto di uno che mi sarebbe simpatico (o antipatico), l’analisi non dovrebbe arrestarsi ma, bensì, da lì propriamente prendere le mosse.
Messi assieme – l’argomento dello sgarbo e quello della simpatia (o antipatia) –, comunque, non mi dicono niente di buono – su chi li mette assieme e me li propone: non ci deve essere bisogno di uno sgarbo o di una simpatia (o antipatia) perché si intervenga a correggere qualcosa – come, d’altronde, non mi chiedo affatto quale sgarbo possa aver fatto Magris a Premi per meritarsi l’appellativo di “germanista”. Anzi, in linea di massima, direi che io mi sento in obbligo di intervenire allorquando ritengo che l’intervento valga la pena di farlo. Il principio è quello di darsi da fare per migliorare le cose – mentre le complimentose pacche sulla spalla, in fin dei conti, non risultano indispensabili.

Felice Accame

P.s.:
Sulla matrice triestina della rivendicazione aveva già avanzato un sospetto di malafede su me stesso allorché ho sentito l’esigenza di aggiungere “fin penosa a dirsi”.

 

Solidarietà per Marco Camenisch

Marco Camenisch, conosciuto per la sua partecipazione attiva al movimento antinucleare degli anni settanta, è incarcerato da quasi venti anni come prigioniero politico. durante tutti questi anni ha fatto parte di lotte, campagne e proteste dentro e fuori del carcere come anarchico ecologistà combattente. Attualmente è detenuto nel carcere Poeschwies /Regensdorf vicino a Zurigo.
Tra due anni (nel 2012) verrà la data della sua scarcerazione condizionale, che gli dovrebbe essere concessa per principio, perché la scarcerazione condizionale è la regola nel sistema carcerario svizzero.
Però la situazione di Marco è particolare. Tutte le facilitazioni e le misure per prepararsi alla liberazione gli sono rifiutate categoricamente. Il provvedimento sanitario, di cui ha bisogno perché è malato di cancro, resta insufficente. La licenza dal carcere usuale gli viene rifiutata con la ragione che lui non nega la sua fede politica e che ha troppi amici e amiche in tutto il mondo, che potrebbero aiutarlo a scappare. Nello stesso tempo avere dei buoni rapporti sociali fuori della galera è una condizione della scarcerazione condizionale, una delle tante condizioni cui Marco adempirerà oggetivamente.
Si ha l’impressione che le autorità giudiziarie concedano la scarzerazione condizionale solo ai/alle detenuti/e che si sono piegati/e o adattati/e. Questa tendenza si puo constatare per quasi tutti/e i/le prigionieri/e politici/che nelle metropoli. Detenuti/e che difendono la loro identità politica sono sepolti vivi nelle galere, anché se hanno espiato la pena. Tutto con l’intenzione di indebolire il movimento progressista al quale appartengono – e di mantenere la paura del carcere come arma dei potenti. Come alcuni esempi fra tanti possono servire la situazione di Leonard Peltier negli Stati Uniti, quella dei/delle detenuti/e di Action Directe in Francia o dei/delle prigionieri/e baschi nello stato spagnolo.
Per queste varie ragioni facciamo un appello, insieme al Soccorso Rosso Internazionale, per una campagna internazionale di solidarietà per marco camenisch, che si vuole unire con le lotte per la libertà di altri/e prigionieri/e politici/che con delle pene lunghe in altri paesi o continenti. Non vogliamo perdere di vista la prospettiva di una società senza galere, abbiamo comminciato la campagna il 19 di giugno, che è il giorno d’azione per i/le prigionieri/e antagonisti/e e contro il carcere.
Vi domandiamo di sottoscrivere l’appello del Soccorso Rosso Internazionale. fate girare le informazioni su vostri website o altri canali d’informazione. Partecipate con i vostri punti essenziali politici e con “vostri/e” prigionieri/e. partecipate al giorno d’azione internazionale il 18 e 19 di settembre.
La solidarietà è un’arma.

amici/che e compagni/e di Marco Camenisch

Scrivete a Marco (non dimenticare di mettere un mittente): Marco Camenisch, Postfach 3143, Ch-8105 Regensdorf.
Sostenete Marco: conto 87-112365-3 (PAN-IG, ch-8000 Zuerich)
Contatto: marco_camenisch@yahoo.de

 

Pisa/Quella prof napoletana

Carissimo Paolo,
stamattina alle 7,30 davanti alla porta della biblioteca “Serantini” ho incontrato una cortese professoressa di inglese, d’origine napoletana, attualmente commissario d’esame presso il Liceo Buonarroti del nostro complesso scolastico, che voleva visitare la biblioteca prima di andare a lavorare. Con mia sorpresa la professoressa aveva con sé un numero di “A” e si è dichiarata lettrice storica del mensile. Le ho fatto visitare la biblioteca e abbiamo parlato qualche minuto e ho notato subito che non era una sprovveduta, né tanto meno una “fanatica” ma una persona semplice con alcune idee molto chiare. Meno male che ancora c’è “A” che come sostiene la professoressa è la migliore rivista della “sinistra italiana!” (…).

Franco Bertolucci
(Pisa)

Violenza sulle donne

“Uccide la sua ex, l’amico e poi si toglie la vita. Dramma della gelosia nel cuneese.”
“Donna barese uccisa a sprangate. Arrestato a Piacenza il presunto killer.”
“Ragazza uccisa e gettata nel Ticino. Confessa carabiniere: sono stato io.”
Sono solo alcuni dei titoli che nelle ultime settimane sono apparsi sui giornali nazionali.
Nel silenzio e nell’indifferenza generali, in Italia si sta consumando una tragedia ormai quotidiana:
quella dell’assassinio di donne, più o meno giovani, colpevoli di aver rifiutato o lasciato un uomo.
Sono una giovane donna, e sono indignata. Mi sento ferita da quello che sta succedendo.
Mi sembra sconvolgente e frustrante intuire che sia ancora tanto diffusa una considerazione della donna così arcaica ed umiliante da ammetterne l’uccisione come reazione ad un rifiuto.
Donne uccise essenzialmente perché colpevoli di essere donne, obbligate a soccombere di fronte a quella forza fisica che rende l’uomo diverso e spesso prevaricatore.
Donne colpevoli anche di decidere per sé, consapevolmente, di non volere un uomo.
La violenza di genere ha una lunga storia, mentre non ha confini di età o di appartenenza sociale.
Ad uccidere non sono più solo uomini rozzi, prepotenti, spesso appartenenti a contesti sociali difficili dove la violenza è la risposta alla maggior parte dei problemi.
Ad uccidere sono oggi anche uomini colti, affermati professionalmente, cosiddetti “insospettabili”.
Di sicuro ci sono elementi ricorrenti: l’incapacità di affrontare il rifiuto da parte di una donna, più o meno conosciuta, e lo sfociare della frustrazione e della rabbia in un gesto violento e criminale.
“È sempre stato così”, “in fondo siamo animali e non sempre si possono controllare le nostre pulsioni e passioni”, si sente dire spesso in giro, purtroppo anche da persone intelligenti e con una certa sensibilità.
Una spiegazione che privilegiando la natura passionale ed istintuale dell’essere umano, immutata ed immutabile visto che l’uomo ha ed avrà sempre legami con il mondo animale, sbarra la strada ad una critica più approfondita che coinvolga la società ed i suoi attori.
Ancora più insufficienti le spiegazioni che chiamano in causa, semplicisticamente ed acriticamente, l’incapacità dell’uomo ad adattarsi ai nuovi modelli relazionali con l’altro sesso.
In alcuni casi, il messaggio di fondo, mai esplicitato chiaramente, tende a far scivolare la responsabilità dall’uomo violento e psicopatico alla donna ed alla sua volontà di rompere gli schemi della concezione patriarcale dei rapporti di coppia.
Si vorrebbe lasciar intendere che una donna sottomessa, umile, senza velleità di autodeterminazione ed indipendenza dall’uomo e dai ruoli che la società le attribuisce, corre meno rischi di subire violenza.
Il problema non è l’uomo che è incapace ad adattarsi, ma la donna che si ostina a voler cambiare gli equilibri.
Si ignora, consapevolmente, il dato allarmante secondo il quale il 90% degli episodi di violenza sulle donne ha luogo tra le mura domestiche, e quindi proprio in quello spazio che almeno all’apparenza conserva i parametri della relazione tradizionale tra uomo e donna.
Insomma il destino di una donna, quando s’incontra con la furia omicida di un uomo frustrato e con gravi problemi psichici, è semplicemente ineluttabile.
Il tutto è estemporaneo, contingente, non ci sono cause remote da ricercare più approfonditamente.
“Non c’è niente da fare”, sembrano pensare molte delle persone (in tutto poche, se paragonate alla gravità di quanto sta accadendo), che avvertono la follia e il dramma di quello che sta succedendo.
Nessuno che si chieda, nemmeno dall’alto di ruoli istituzionali, ancora una volta smascherati di fronte alla loro inutilità, ipocrisia e piccolezza, se per caso quest’aumento generalizzato, e tollerato, di episodi di violenza contro le donne non sia il riflesso di tratti sociali e culturali a dir poco preoccupanti.
Mi chiedo, ingenuamente, se la presunta incapacità dell’uomo di metabolizzare la liberazione della donna da antichi ed opprimenti canoni di comportamento non sia invece la precisa volontà di non farlo, perché ormai di tempo né è passato e di cose ne sono cambiate per giustificarsi dicendo di non aver ancora rielaborato le novità.
Mi chiedo anche se la nostra società non sia in realtà complice di questo mancato adattamento ai cambiamenti avvenuti, nel suo silenzio e nel suo ostinato trascurare certe questioni.
Sono tanti a mio parere i segnali che, se individuati nella loro diversità e ricollegati in una visione d’insieme, dimostrano come la donna sia ancora troppo spesso considerata un essere inferiore e con meno diritti. In fondo, un oggetto.
Un oggetto di cui, in casi estremi, si può fare quello che si vuole.
Uno di questi segnali, che dovrebbero farci capire quanto la donna sia ancora lontana dall’essere considerata pienamente un soggetto (e non un oggetto), i cui diritti siano rispettati pienamente, è il fatto che in Italia la donna è troppo spesso posta di fronte ad una scelta drammatica: quella tra la realizzazione professionale e la creazione di una famiglia.
Il fatto che una donna che decide di fare figli non sia abbastanza tutelata da quello stato e da quelle istituzioni che chiacchierano senza sosta di difesa e salvaguardia della famiglia, e che per questo sia spesso costretta ad abbandonare il lavoro o a rinunciare ad una carriera professionale, è il primo sintomo di una concezione del ruolo femminile ancora lontana anni luce da conquiste raggiunte solo sulla carta.
Per non parlare di altri segnali altrettanto deprimenti come la disuguaglianza nella retribuzione tra uomini e donne o il fatto che un datore di lavoro, a parità di competenze e qualità, nella maggior parte dei casi preferirà un candidato uomo ad una donna.
Ma uno dei segnali più visibili del mancato riconoscimento del ruolo e dei diritti della donna da parte di questa nostra società schizofrenica e paradossale, è la declinazione dell’ideale di donna in due modelli opposti: l’angelo del focolare (di cui si è appena parlato in relazione al rapporto tra lavoro e scelte professionali) oppure la velina.
A proposito di questo secondo modello, e ritornando al problema principale, mi chiedo se non ci sia un collegamento tra la recrudescenza degli episodi di violenza sulle donne e la continua e martellante mercificazione della donna e del suo corpo trasmessa spudoratamente su tutte le reti televisive nazionali pubbliche e private, soprattutto private, soprattutto di un preciso proprietario.
Gli esempi di questa mercificazione sono infiniti, dalla necessità di associare qualsiasi tipo di prodotto pubblicizzato a parti del corpo femminile (non si usa nemmeno più il corpo intero, bastano delle parti, come dal macellaio, petto, gambe, fondoschiena), alla presenza in ogni programma televisivo di bellissime giovani donne, mute, sorridenti ed inconsapevoli, come fossero dei soprammobili, parte dell’arredamento.
Del resto il dominio della bellezza su altre qualità come condizione che favorisce la vita affettiva o professionale della donna (e spesso anche degli uomini), è ormai un dato di fatto, una caratteristica riconosciuta della società contemporanea.
Ma la riduzione della donna ad oggetto, nella maniera in cui ci appare ogni giorno in televisione e sulla carta stampata, è un passo successivo, una degenerazione non solo umiliante, ma pericolosa.
Non sarà che a forza di considerare la donna un oggetto, spesso un bell’oggetto, in misure e forme diverse l’uomo non si senta ringalluzzito e quasi giustificato a trattarla come tale, fino all’estremo di toglierle la vita se non può essere sua?
Senza per forza arrivare all’assassinio delle donne, le conseguenze di questo messaggio denigratorio nei confronti della donna, della sua riduzione a corpo sprovvisto di materia celebrale sono molteplici:
l’uomo, che spesso fatica ad accettare un ruolo sociale diverso per la donna, è velatamente stimolato a rinunciare a ripensare in senso egualitario i suoi rapporti con la donna.
È come se in maniera subliminale, si suggerisse la riproposizione di un tipo di relazione molto più semplice da gestire e storicamente molto più affermato, quello maschilista e patriarcale.
Se il messaggio imperante sui mezzi di informazione, principalmente la televisione (che utilizza ed umilia le donne quotidianamente), porta gli uomini a considerare le donne oggetti, non è difficile sostenere che in questo modo la reale accettazione del nuovo ruolo della donna venga ostacolata, fino ad arrivare agli estremi dell’omicidio cosiddetto “passionale”.
Per inciso, amore e violenza sono del tutto incompatibili. Persino il codice penale italiano se n’è accorto abolendo ad esempio i delitti d’onore, anche se con un ritardo scandaloso, nel 1981.
Peraltro, ad ulteriore dimostrazione dell’arretratezza e della vergognosa dipendenza da principi cattolici e quindi discriminatori e maschilisti, solo nel 1996 lo stupro è diventato per la legge un crimine contro la persona e non contro la morale.
Una delle conseguenze più inquietanti della “oggetivizzazione” della donna è il fatto che ormai siano le donne stesse ad aver metabolizzato e fatta propria l’immagine che il maschio contemporaneo ha di loro.
Molte donne ormai, a volte inconsapevolmente, si osservano e si giudicano utilizzando criteri fino a poco tempo fa solo maschili: l’aspetto del viso, del corpo, la dimensione del seno, delle labbra, la presenza o meno di cellulite e via dicendo.
Se le donne si guardano tra di loro con gli occhi degli uomini il gioco è fatto: non è più necessario imporre loro un determinato modello di femminilità, controllato e ricondotto all’interno dello spazio deciso dall’uomo, sono esse stesse a volerlo ed a coltivarlo.
Questa è una delle tesi sostenuta da Lorella Zanardo, nel suo documentario “Il corpo delle donne” (da cui recentemente è stato tratto anche un libro edito da Feltrinelli), illuminante e ricco di spunti interpretativi.
Nel documentario, visibile liberamente su www.ilcorpodelledonne.it, l’autrice compie un’analisi dettagliata ed approfondita dell’uso indiscriminato, avvilente e maschilista del corpo femminile che la televisione pubblica, adeguandosi al peggio di quella privata, compie costantemente nei suoi programmi di intrattenimento.
Una delle tesi esposte dall’autrice, supportate dall’attenta visione di ore ed ore di programmazione televisiva, è la consapevolezza che “nelle società contemporanee occidentali il controllo del corpo è decisivo per l’esercizio del potere e per la conservazione dello status quo sociale”.
Più avanti nel testo che ha seguito l’uscita del documentario, in risposta a chi giustifica l’esibizione costante e morbosa del corpo femminile nei programmi televisivi come conseguenza dell’avvenuta liberazione della donna, si afferma che “tutto questo nudo e i continui richiami sessuali non operano la liberazione dell’erotismo femminile, che l’uomo teme in quanto segno evidente di affermazione della persona, ma, abbinati al continuo reinserimento della figura femminile nei ruoli di madre, sposa e prostituta, servono a congelarne le possibilità di evoluzione nella società, a limitarne libertà e diritti.”
Con tali presupposti, non è difficile mettere in relazione la mercificazione della donna e del suo corpo e la violenza che spesso è costretta a subire.
Si può sostenere infatti che in una società in cui il riconoscimento collettivo si basa ormai sulla quantità e qualità di oggetti posseduti, la esplicita riduzione della donna ad oggetto, non solo sessuale, non può che avere anche derive psicotiche e delinquenti, visto che degli oggetti che possediamo siamo liberi di fare quello che vogliamo.
A trent’anni dalle principali conquiste del femminismo, si ripropongono oggi molte delle questioni storiche affrontate dal quel movimento.
Il dominio dell’uomo sulla donna non è stato sconfitto, ha assunto forme nuove
Anzi è più subdolo e meno evidente, anche se solo ad un occhio distratto.
L’uomo che uccide la donna perché non può essere sua, dimostra tratti maniaci e criminali, ma dimostra anche di voler riaffermare la sua virilità, altro valore ancora dominante nella nostra società, riconducendo la donna a quello spazio chiuso, delimitato, controllato e controllabile da cui lei invece ha cercato di uscire.
Dimostra la disperazione della sua insicurezza ed inadeguatezza.
Invece che porsi delle domande e fare un lavoro su di sé, ammettendo i propri limiti e debolezze (caratteristiche ancora incompatibili con l’essere un “vero” uomo), colpevolizza delle sue mancanze la donna, la donna autonoma ed indipendente che non risponde più automaticamente alle sue esigenze ed ai suoi desideri.
Purtroppo pochi, e poche, si rendono conto della deriva mercificante ed umiliante che ha imboccato la percezione e la considerazione della donna contemporanea da parte della televisione e dei mezzi di comunicazione di massa.
Le prime a doversi ribellare a questa concezione della donna dovrebbero essere proprio le donne, perché finché saranno le donne ad aspirare a raggiungere modelli femminili avvilenti e denigratori, ci sarà ben poco da fare.
Ho appena finito di scrivere queste righe, sono le 18.00 e mi fermo con alcuni colleghi a bere un aperitivo mentre il mio ragazzo mi aspetta tranquillo a casa e, di sua iniziativa, prepara la cena.
Rifletto un po’.
Sono fortunata oppure la prospettiva che ci troviamo davanti non è così grigia?
Forse entrambe le cose.
Di sicuro non ho niente contro gli uomini in generale, non li disprezzo in quanto esseri inferiori e viceversa non mi ritengo a priori migliore di loro.
Non li considero nemici naturali della mia libertà, perché se pensassi tutte queste cose ragionerei esattamente con i principi di cui l’umiliazione della donna è conseguenza e che m’indignano tanto.
Penso a loro come a persone, esattamente come lo sono io.

Valentina Galasso
(Rovereto – Ge)

Imola/Una certa incredulità

Ieri sera alla riunione del gruppo anarrchico grande apprezzamento per il nuovo numero della Rivista. Anche una certa incredulità che si potesse fare tanto. Da parte dei compagni, tutti, elogi a questo numero, ai precedenti, ed ai futuri. Me la sto riguardando anch’io .
È sempre più raro trovare un concentrato simile di cose interessanti e non schematiche; tutti gli articoli, ma proprio tutti, rispecchiano una concezione interpretativa della realtà dialettica e dialogante e questo è davvero un merito impagabile.
Mi sento onorato di far parte, anche se in misura secondaria, di un progetto così importante, originale e utile.
Ciao.

Massimo Ortalli
(Imola)

Prefascista... postfascista? Una costante

Dopo che nel 2008 le banche hanno potuto sbarazzarsi del gravame di crediti indigesti servendosi dello Stato come tampone, come sistema di acquisizione, i “furfanti senza frontiere”, con instancabile zelo, hanno messo all’ordine del giorno la parola d’ordine: scippare!
Poi è la società, vale a dire le popolazioni degli Stati-nazione, che deve farsi carico del peso del credito così trasformato. Malgrado tutto ciò, la rivoluzione è poco probabile… La funzione di ammortizzatore assolta dal sottosistema politico e la repressione statale funzionano bene. In questo caso, l’anarchismo dovrà manifestarsi soprattutto come “potenziale critico” (1).
Possiamo notare una “costante”: le “crisi” sono “ripetizioni”, come lo è il modo in cui settori economici e statali reagiscono. Parlo di una “costante”. In questo caso, mi concentro su un periodo di più di un secolo: a partire dall’epoca delle leggi scellerate (1893-1894) (2) fino all’affare “Tarnac” (dal 2008 a oggi) (3). Quanto al tipo di reazione, la affronterò tramite l’analisi di Agnoli (4). L’accento sarà posto sull’analisi del modo in cui il sottosistema politica continua a dominare l’ordine sociale. Tale “dominio” si manifesta in maniere differenti, che dipendono dalla situazione socioeconomica. Dunque, attraverso il tempo, si possono osservare processi di trasformazione.
Quasi mezzo secolo fa, Johannes Agnoli è stato uno dei più acuti analisti dell’esistenza di simili processi. Poiché non ha elaborato una descrizione statica della situazione di quei tempi, è possibile leggere il suo testo del 1967, intitolato La trasformazione della democrazia, come se fosse stato scritto di recente.
Il nocciolo del pensiero di Agnoli si trova nella nozione di involuzione. Nello spiegare tale nozione, descrive ciò che accade se i conflitti di base in una società capitalista non sono risolti. Tali conflitti di base si presentano, secondo la sua analisi, laddove non esiste un accesso paritario alla partecipazione alle fonti materiali della società. Il tentativo della “politica” di conservare una simile situazione fa sì che la società debba affrontare l’involuzione. Ciò significa che ci si deve confrontare con la distruzione e l’indebolimento delle istituzioni democratiche e giudiziarie. E il “sistema” trova sempre dei mercenari grazie ai quali esercitare la propria pressione tramite la violenza e l’intimidazione (5).
Questo processo procede in parallelo con il “disciplinamento” e l’“emarginazione” di certi gruppi e con la tendenza delle strutture statali di sicurezza a crescere in modo permanente. In ambito anarchico, l’ultimo aspetto ha dato luogo al recente discorso: vivere nello Stato di eccezione (6).
È inevitabile l’introduzione in proposito del termine “fascismo” (7) Quando Agnoli parla di fascismo, si riferisce a elementi specificamente istituzionali e giuridici, che sono connessi con la “leadership”, l’“autorità dello Stato forte” e l’“autonomia” dello Stato in rapporto alla società. Stabilendo un rapporto tra il capitalismo e il fascismo non intende affermare che il capitalismo “vuole” il fascismo. Quello che “vuole” il capitalismo è la garanzia politica del suo profitto. In questo modo affronta la relazione in termini di “funzionalità”. Come fa Agnoli, più di quarant’anni fa, a giungere a questo modo di vedere?
Una componente essenziale dello Stato politico è costituita da due elementi che si intrecciano l’un l’altro. Il primo elemento è la concentrazione economica e l’oligarchia societaria. L’oligarchia è implicita nel potere organizzato (per esempio i partiti politici). E un popolo che delega il proprio potere rinuncia alla propria sovranità, come spiegava il sociologo tedesco Robert Michels (1876-1936), già nel 1911, citato da Agnoli (8). Inoltre, l’anarchico inglese Colin Ward (1924-2010) spiega che possiamo intendere Proudhon e Bakunin in quanto precursori di Michels nelle critiche della teoria democratica e socialista. Infatti, aggiunge, la sua teoria è stata comprovata costantemente dall’esperienza (9).
Il secondo elemento è costituito dal consolidarsi della posizione oligarchica di organizzazioni che sono rappresentate nei partiti statalisti. In ciò Agnoli concorda nell’affermare che la prospettiva di una crisi stimola la correlazione tra, da un lato, l’impulso ad ampliare le competenze e il potere dello Stato (se si vuole: l’ambizione di potere degli uomini politici), e, dall’altro lato, il desiderio della garanzia supplementare dell’ordine sociale costituito. Eventualmente, quest’ultimo sotto la forma di uno Stato di polizia, vale a dire, dal rigore del desiderio a una garanzia violenta dei privilegi costituiti.
Agnoli aggiunge in quale misura il capitalismo moderno si è forse allontanato dal fascismo: le grida liberali prefasciste dello “Stato forte” si ripetono nella modalità neoliberale postfascista. Ecco, in questo si può individuare la “costante” di cui parlo. Ciò accade concretamente con l’assenso benevolo dei gruppi privilegiati che fanno dei sacrifici e mantengono un “basso profilo”. Così, parti del potere di controllo sulla produzione sono delegate alle istituzioni statali, come spiega Agnoli (10).
In questa prospettiva, abbiamo visto ciò che nel 2008 molte banche erano pronte a fare: in cambio della sicurezza riguardo la loro esistenza (ricevere l’aiuto pubblico) porsi, provvisoriamente, sotto la protezione statale riguardo a certe gestioni. Di nuovo, con questo è ribadita la funzionalità dello Stato: fare propri i problemi delegati (la funzione di ammortizzatore), dopo di che tutto può restare come prima. Conservare il “sistema” con tutti i mezzi giudicati necessari, ivi compresa l’“intimidazione”, vale a dire il “sistema mafioso”.
Chi ha capito l’analisi della situazione, si arrabbia, vuole resistere… In tal modo, la resistenza si colloca nel prolungamento dell’analisi. Naturalmente, anche Agnoli l’ha riconosciuto, come è evidente dai suoi scritti degli anni sessanta e settanta e come risalta nel suo discorso di addio al momento di lasciare la cattedra di professore di politologia (alla Libera Università di Berlino; inverno 1989-1990). Partendo dall’ambito biblico (Adamo ed Eva) e mitologico (Prometeo e Antigone) e continuando fino alla nostra epoca, Agnoli è andato alla ricerca delle tracce della sovversione. Basandosi su pensatori sovversivi come Spinoza e Bakunin, indica cosa significhi mettere in pratica l’opposizione al potere e allo sfruttamento e, al tempo stesso, prenderli in considerazione (11). Giudico l’analisi di Agnoli una delle componenti del “potenziale critico” dell’anarchismo.

Thom Holterman
redattore della rivista anarchica olandese “De AS”

(traduzione dal francese di Luisa Cortese)

Note

  1. Non intendo l’anarchismo come una “teoria compiuta”, bensì come una “fonte” di un certo potenziale. Con l’aiuto di questo potenziale si può, tra l’altro, decostruire le situazioni sociali costituite e mettere a nudo le strutture imposte. Ecco il “potenziale critico”.
  2. Cfr. Francis de Pressensé, Émile Pouget, Les lois scélérates de 1893-1894, Marseille 2008 (prima edizione 1899).
  3. Cfr. Alain Brossat, Tous coupat tous coupables. Le moralisme antiviolence, 2009.
  4. Johannes Agnoli (1925-2003), marxista non dogmatico e anarchico sociale; politologo tedesco di origine italiana; critico severo della società capitalista e del suo sistema politico. È noto per il suo Die Transformation der Demokratie (La trasformazione della democrazia), Berlin 1967 (le mie osservazioni sono tratte dalla traduzione olandese).
  5. Cfr. Maurice Rajsfus, Les mercenaires de la république, Prefazione di P. Schindler, Paris 2008.
  6. Uno studio su questa forma di Stato è presente in Giorgio Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
  7. Dal 1966 al 1969, Agnoli ha approfondito questa nozione in numerosi articoli, pubblicati nell’antologia intitolata Fascismus ohne Revision (Freiburg 1997). Una corposa dissertazione su questo tema si trova in Werner Bonefeld, On Fascism. A note on Johannes Agnoli’s Contribution; per questa dissertazione, dalla quale ho tratto numerosi spunti, vedi il sito: http://libcom.org/library/on-fascism-bonefeld.
  8. È evidente che Agnoli ha studiato il testo di Michels intitolato Zur Sociologie des Parteiwezens [1911], il cui sottotitolo è Unteruchungen über die oligarchischen Tendenzen des Gruppenlebens (ristampato parecchie volte); tradotto in italiano con il titolo La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, il Mulino, Bologna 1976.
  9. Colin Ward, Anarchism as a Theory of Organisation (Anarchismo come teoria d’organizzazione), in “Anarchy”, n. 62, vol. 6, 1966, pp. 98-99.
  10. Johannes Agnoli, Die transformatie van de democratie (La trasformazione della democrazia), Nijmegen 1971, p. 55; tr. it. La trasformazione della democrazia, Feltrinelli, Milano 1963.
  11. Johannes Agnoli, Subversive Theorie “die Sache selbst” und ihre Geschichte (Teoria sovversiva “la propria cosa” e sua storia), Freiburg 1996.

 

Sacco, Vanzetti e Di Pietro

Certo, non possiamo impedire a Di Pietro di inaugurare, né ai cittadini di Torremaggiore di intestare un’Associazione ai nostri compagni, dei quali nulla o pochissimo sanno. In quest’Italia che è ormai alla deriva e dove non c’è più né politica né cultura, tutto è possibile. La questione è una questione di coerenza e Di Pietro nulla a che fare con la storia di Nicola Sacco e di Bartolomeo Vanzetti. Anzi, giustizialista com’è, sono convinto che fosse stato giudice a quei tempi li avrebbe condannati, oggi sfrutta il loro nome a fini elettorali, per carpire il consenso elettorale, mentre i due nostri compagni erano – come tutti gli anarchici – astensionisti.
Ci saremo aspettati un minimo di coerenza nei fondatori dell’Associazione, che si poteva manifestare invitando all’inaugurazione chi ancora oggi la pensa come Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, cioè gli anarchici.
In ogni modo Sacco e Vanzetti non sono militanti dell’Italia dei valori, e non lo sarebbero mai stati, anzi come cittadini si sentivano poco italiani, erano dei veri e autentici cittadini del mondo e quando dovevano rientrare per partecipare alla prima guerra mondiale si rifugiarono in Messico, proprio a testimoniare che non credevano nell’Italia che aveva come valore la guerra.
Ricordo che anni fa, in un paese del casertano Forza Italia costituì un Circolo intestato ad Errico Malatesta – scrissi un articolo su «Umanità Nova» e dopo poco il circolo cambiò nome.
Ci auguriamo che anche i sostenitori dell’Italia dei valori di Torremaggiore trovino altri nomi a cui intestare la loro Associazione, senza speculare su una tragedia che appartiene alla storia del movimento anarchico italiano.
Infine, per dirla con il linguaggio dello stesso Di Pietro: «Che ci azzecca Di Pietro con Sacco e Vanzetti?». Non vorremo che Di Pietro fosse... anarchico e noi non lo sappiamo!

Giuseppe Galzerano
(Casalvelino Scalo – Sa)
(tel. 0974.62028)

162 Ben Shahn: Sacco e Vanzetti tra le guardie, 1932.
Collezione privata

 

 

I nostri fondi neri

Sottoscrizioni.
Daniele Ferro (Voghera – Pv) 20,00; Gianpiero Bottinelli (Massagno – Svizzera) 10,00; Bastiano Sias (Barrali – Ca) dalla Collettività Anarchica di Solidarietà in memoria di Tommaso Serra, a 25 anni dalla sua morte (10 ottobre 1985), 50,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Amelia e Alfonso Failla, 5.000,00; Andrea Cassiol (Cesio Maggiore – Bl) 20,00; Giorgio Bucola (Cogorno – Ge) 10,00; Dario Pace (Castel Lagopesole – Pz) 20,00; Umberto Lenzi (Roma) 25,00; Ivano (Milano) 50,00; una (Milano) 50,00; Zelinda Carloni (Roma) 500,00; Dante Tentori (Santa Croce al Piuro – So) 10,00; Giuseppe De Matteis (Maddaloni – Ce) 20,00; Cristiana Bruni (Castel Bolognese – Ra) 40,00; Paolo Trezzi (Lecco) per dossier su Pietro Gori, 85,00; Nicola Pisu (Serrenti – Vs) 5,00; Luca Vitone (Milano) 50,00; Giuseppe Gessa (Gorgonzola – Mi) per dossier su Pietro Gori, 50,00; Franco Maggi (Milano) 20,00; Luigi Vivan (San Bonifacio – Vr) 15,00; Enrico Calandri (Roma) 100,00; Mario Cardinali de “Il Vernacoliere” (Livorno) 30,00; Roberto Mazzini (Montechiarugo – Pr) 30,00; ricavato dalla cena di sottoscrizione del 10 luglio organizzata dalla Federazione Anarchica (FAI) di Reggio Emilia, 300,00; Tommaso Bressan (Forlì) per dossier su Pietro Gori, 10,00; Gianandrea Ferrari (Canossa – Re) 20,00; Silvano Montanari (San Giovanni in Persiceto – Bo) per dossier su Pietro Gori, 10,00; Daniele (Roma) 7.50; Luca Denti (Oslo – Norvegia) 10,00; Giorgio Pittaluga (Recco – Ge) 10,00; Aldo Curziotti (Sant’Andrea Bagni – Pr) 50,00; Davide Andrusiani (Castelverde – Cr) 10,00; Nicola Scognamiglio (Montano Lucino – Co) 40,00; Davide Masoero (Trieste) 10,00; uno (Milano) 20,00; Ermanno Firmino Gaiardelli (Novara) 27,00; Battista Saiu (Biella) 20,00; Maria Rosaria Bello (Sarno – Sa) 20,00; Pietro De Leonardis (Brindisi) 20,00; Andrea Cardin (Mita – Ve) 20,00; Federico Bertelli (Riva del Garda) 20,00; Milena e Paolo Soldati (Clermont-Ferrand – Francia) 150,00; a/m Flavio, raccolti alla cena da Santina del Collettivo “Le scorie della Valle della Motta”. Solidarietà con il compagno Billy (Novazzano – Svizzera) 78,10; Ugo Fortini (Signa – Fi) 35,00; a/m Tommaso Bressan, raccolti ad una cena in casa di Miriam e Nino, presenti anche Antonietta, Andrea, Maddalena e Tommaso, ricordando Pio Turroni, 80,00; Roberto Colombo (Boffalora Ticino – Mi) 10,000. Totale euro 7.167,20.

Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, trattasi di euro 100,00). Roberto Pietrella (Roma) 200,00; Renzo Bresciani (Campi Bisenzio – Fi); Enzo Boeri (Vignate – Mi) 200,00; Alessandro Milazzo (Linguaglossa – Ct); Marco Galliari (Milano) 250,00; Agostino Perrini (Brescia); Patrizio Quadernucci (Bobbio – Pc); Marco Buraschi (Roma); Roberto Altobelli (Canale Monterano – Rm); Michele Pisicchio (Roma), Luigi Caporiccio (Porto d’Ercole – Gr); Alfredo Gagliardi (Ferrara) 200,00; Cariddi Di Domenico (Livorno) 110,00; Roberto Di Giovannatonio (Roseto degli Abruzzi – Te). Totale euro 1.860,00.