Rivista Anarchica Online


dibattito

Il soggetto allo specchio
di Federico Battistutta

La sfida del post-anarchismo.

 

Presente: tra passato e futuro

Sotto la dicitura post-anarchismo vengono accorpate forme di pensiero accomunate dall’idea che, di fronte ad una società che muta in modo sempre più rapido e ad ogni livello, vi è l’urgenza di una rivisitazione dei consueti modelli di riferimento specifici della tradizione libertaria, la quale affonda buona parte delle sue radici nella cultura dell’Ottocento, connotata da una fisionomia quanto mai distante dalla nostra contemporaneità. In particolare, è stato inoltre osservato che il post-anarchismo si presenta come una declinazione sul versante libertario delle letture della società secondo le categorie post-moderne e post-strutturaliste (1).
Il riferimento corre subito al pensiero francese contemporaneo, assai articolato al suo interno, comunque affratellato dalla convinzione della necessità di un’uscita dall’idea del grand récit, vale a dire di una narrazione esplicativa e a largo respiro, in grado di fornire risposte univoche e definitive al bisogno di comprensione e di trasformazione del mondo. Per fare qualche nome: Foucault, Lyotard, Deleuze, Guattari, Baudrillard (e Lacan, nume tutelare o deus absconditus di questo approccio).
Una delle critiche ricorrenti rivolte al post-anarchismo è quella di essere una teoria troppo accademica, ineffettuale, priva perciò di sbocchi nella pratica e nella vita quotidiana. Sotto certi aspetti alcune affermazioni elaborate da questa corrente rischiano di infastidire proprio per la ricerca di un novum che può apparire fine a sé stesso o per una carenza di contestualizzazione circa i filoni di pensiero libertari messi in discussione. Nonostante ciò non si può disconoscere l’inceppamento di alcune categorie cruciali nel pensiero libertario e la necessità di compiere un percorso sufficientemente esplorativo e bisognoso di ricevere un senso inedito rispetto al già detto e al già conosciuto, in grado di fornire continue aperture tanto nel pensiero che nella prassi trasformativa.
Resta con ciò aperta la questione della tensione tra novità e tradizione. Da una parte c’è il rischio di un ingessamento del proprio pensiero e della propria pratica in un ossequio rispettoso, fin troppo rispettoso, di un passato che può rallentare il cammino. Se – usando le parole di Durruti – questo mondo nuovo sta crescendo in questo istante, io devo allora essere pienamente presente, pronto a ciò che questo istante mi sta domandando, senza infingimenti o fraintendimenti prodotti da griglie interpretative inadeguate. D’altro canto sento il bisogno di tenere fra le mani quel filo che mi ricollega a chi in passato si è trovato dalla mia stessa parte e si è posto le medesime domande che mi pongo io adesso: è il problema del rinvenimento di tracce di memoria, a fronte dei mutamenti sociali in corso che creano e innescano dinamiche di forte discontinuità se non di rottura (non a caso Toni Negri, proprio nei cupi anni Ottanta, sollevava la questione parlando di un “elogio dell’assenza di memoria”, nella convinzione che laddove vi è completo dislocamento non vi è più memoria: “Solo la negazione della memoria ci rende l’orizzonte della vita”) (2).
E proprio seguendo una prospettiva ricognitiva possiamo dire che – a quanto è dato sapere – il primo a usare il termine ‘post-anarchismo’ fu una figura oggi poco conosciuta e vissuta perlopiù isolata: Ferdinando Tartaglia (1919-1987), il quale scrisse su questo argomento un lungo testo (che meriterebbe una rieditazione), comparso negli anni Quaranta su “Gioventù anarchica”, periodico dei giovani della Federazione Anarchica Italiana, diretto da Carlo Doglio (3). In questo denso testo l’autore, sostenendo l’attualità della proposta anarchica per il suo tempo (ricordiamo che siamo nell’immediato dopoguerra), afferma che tale validità può essere pienamente esplicata solamente attraverso “un’opzione decisa di novità”, “una purificazione radicale” e “un’operazione essenziale di concretizzazione e di completamento”, sfondando le categorie del già dato, del possibile e finanche del reale, con argomentazioni che ritroviamo (almeno in parte) in alcuni attuali pensatori del post-anarchismo (ad esempio la critica dell’orizzonte umanista, della visione materialista e scientista, della pratica politica della violenza).

Todd May

Oltre il soggetto

Ma non è di archeologia del sapere libertario che si vuole qui discutere, è mio desiderio focalizzare l’attenzione su uno dei punti centrali della riflessione post-anarchica, vale a dire l’analisi del ruolo della soggettività, per esplorarne alcuni dei possibili esiti. La questione del soggetto possiede una sua centralità; contrariamente a letture (vedi l’autodefinizione del marxismo come passaggio dall’utopia alla scienza) che solevano individuare meccanismi oggettivi nel divenire sociale – vere e proprie leggi scientifiche operanti all’interno delle dinamiche storiche e sociali, pari a quelle presenti nel mondo della fisica – c’è stata tutta una tendenza all’interno dell’area libertaria che poneva, pur con forme e sbocchi differenti, l’enfasi sulla funzione del soggetto come agente attivo della trasformazione sociale, della rottura qualitativa rispetto all’esistente.
Ora, tutto ciò, che è una ricchezza da custodire e plasmare, va altresì sottoposto ad analisi. Il post-anarchismo, seguendo le indicazioni degli autori francesi citati sopra (i quali a loro volta avevano rielaborato e sottoposto a critica la nozione freudiana di inconscio) ci mostrano che questa soggettività non può essere considerata come un nucleo duro, non analizzabile ulteriormente. Il soggetto non è costitutivo, ma costituito, è a sua volta un costrutto del quale non è dato sapere fino in fondo quali siano gli elementi che lo compongono e lo abitano. In ciò riconosciamo un tratto distintivo del post-anarchismo, vale a dire il rifiuto dell’essenzialismo, la convinzione che esista una sostanza costante e inamovibile al fondo di ogni identità.
Attenzione: non stiamo divagando, né ci troviamo nell’iperuranio delle astrazioni. Riconoscere questo significa per esempio sondare lo scarto tra le parole e le cose, tra le dichiarazioni di principio e gli agiti. È una declinazione particolare di quella eterogenesi dei fini (di cui ne parlava già Giambattista Vico) – parole difficili per un’idea semplice e facilmente riscontrabile – secondo cui la storia umana, pur perseguendo certi obiettivi, è tutt’altro che lineare e lungo il suo percorso può accadere che l’uomo, nel tentativo di raggiungere certe finalità, arrivi a conclusioni opposte, e ciò perché l’agire umano è sottoposto a spinte e tensioni che non sempre affiorano alla sfera della coscienza di colui che agisce. Ma qui misuriamo anche la distanza dalla lettura marxiana secondo la quale l’uomo è capace di realizzare i propri progetti senza interferenze od ostacoli tra ideale e reale, fra lo psichico e l’esecuzione pratica, fra il risultato atteso e quello conseguito (è il famoso apologo sull’ape e l’architetto presente nella sezione sulla produzione del plusvalore assoluto del primo libro del Capitale).
Lo ripeto, non sono divagazioni, stiamo parlando qui anche di pratiche. Riconoscere come il soggetto fondante sia esso stesso fondato e attraversato da una pluralità di tensioni, e saper condurre tale riconoscimento sino al punto da offrire spazio e voce a queste alterità significa già operare all’interno di un nuovo paradigma politico (meglio: di critica della politica come attività separata e parcellizzata) per un’ampia area libertaria. Ciò che in un passato prossimo è stato espresso dal movimento delle donne o dalla cosiddetta ‘ala creativa’ nel movimento del ’77, in quelle che venivano chiamate ‘politiche del corpo’ o ‘pratiche desideranti’, è solo l’esemplificazione di qualcosa che richiede nuove linee di fuga, ulteriori articolazioni, sviluppi e apporti creativi.

Gregory Bateson

La grande catena dell’essere

Ma non esiste solo una dimensione microfisica del soggetto (per adoperare un’espressione foucaultiana): accanto alla dimensione ‘micro’ c’è anche il versante ‘macro’. Spieghiamoci: il post-anarchismo, raccogliendo e rielaborando la nozione freudiana di inconscio ha portato l’attenzione verso le componenti interne della soggettività, ma non possiamo fermarci a ciò, è opportuno estendere quest’attenzione verso l’esterno, riconoscendo al contempo che concetti quali ‘interno’ ed ‘esterno’ operino in questo ambito in modo relativo (in fondo c’è sempre qualcosa che si trova più all’interno o all’esterno di un’altra). Il soggetto, ciò che chiamiamo così, è allora un punto di transito e di coagulazione di sensazioni, bisogni, intuizioni, pensieri e pratiche che lo attraversano, poiché l’essere umano può riconoscersi come una parte di un sistema più grande con cui è in relazione e da cui non può pretendere di separarsi, così come non può immaginare di voler conoscere appieno e dominare per mezzo della sua coscienza. Al ‘che fare?’ si sostituisce il non-fare, il riconoscimento di limiti per l’agire umano che è bene non oltrepassare.
Cosa può essere quest’altro versante? Se la dimensione ‘micro’ si riferiva alla sfera dell’inconscio o qualcosa ad esso riconducibile, questo nuovo versante – come qualcuno forse avrà intuito – sposta il discorso sul crinale dell’ecologia, vale a dire verso quell’approccio che riconosce di primaria importanza lo studio delle interazioni fra le parti di un tutto. Gregory Bateson, che è stato uno dei più acuti pensatori in questa direzione sosteneva che “la mente individuale è immanente, ma non solo nel corpo: essa è immanente anche in canali e messaggi esterni al corpo; e vi è una più vasta Mente di cui la mente individuale è solo un sottosistema. Questa più vasta Mente è paragonabile a Dio, ed è forse ciò che alcuni intendono per ‘Dio’, ma essa è ancora immanente nel sistema sociale totale interconnesso e nell’ecologia planetaria”. Da qui egli giungeva a parlare proprio della possibilità di una profonda ridefinizione di ciò che siamo soliti chiamare ‘io’, sino alla possibilità che a un certo punto cessi di funzionare come fattore cruciale nella segmentazione dell’esperienza: qui “l’identità personale si fonde con tutti i processi di relazione, formando una vasta ecologia o estetica di interazione cosmica” (4).
Se in questo discorso si è parlato indifferentemente di soggetto, identità, io, mente, considerandoli come sinonimi, risulta evidente come invece non lo siano. Ciò che preme qui notare però è il punto che accomuna questi concetti, vale a dire l’idea dell’esistenza di una sostanza, di un centro non ulteriormente riducibile che determina il comportamento umano.
Ora, se la prospettiva micropolitica ci ha condotti ad allargare lo sguardo, riconoscendo che non esistono solo dispositivi che innescano discriminazioni di classe, ma anche quelle di genere e quelle etniche, quest’altra prospettiva ci descrive invece lo sfruttamento di specie: è il campo, ad esempio, in cui opera l’ambientalismo, l’animalismo, il vegetarianesimo e tutte quelle pratiche per mezzo delle quali diveniamo consapevoli di partecipare alla grande catena dell’essere. Qui è una qualità del sentire ad essere in gioco, non è questione di filantropismo su basi etiche o intellettuali: il prendermi cura dell’altro significa al contempo prendermi cura di me stesso, in quanto aderiamo tutti ad un medesimo destino.
La grande catena dell’essere, appunto. È da questa prospettiva allargata che – anziché proseguire secondo i dettami di una rigida gerarchia che trova la sua ragion d’essere nel tagliare, separare e dividere – si procede a includere attraverso cerchi più ampi, dal dentro verso il fuori e viceversa, non con l’intento di uniformare e incasellare, ma al contrario con la passione di approfondire il valore della differenza: fra culture, fra generi, fra specie.
Quanto detto sopra a proposito dei processi di interazione e inclusione può essere ulteriormente illustrato attraverso l’ipotesi del ‘bootstrap’ elaborata dal fisico Geoffrey Chew negli anni Sessanta e già da qualcuno considerata utile per le sue implicazioni circa un rinnovamento dei paradigmi dell’anarchismo contemporaneo (5). Stiamo parlando di concetti poco conosciuti al di fuori dell’ambito della fisica delle particelle (il settore della fisica che studia i costituenti elementari e le interazioni fondamentali della materia), pur nella consapevolezza di quanto sia problematico applicare un’ipotesi in ambiti differenti rispetto al settore che l’ha generata. In sintesi: secondo questa ipotesi l’universo altro non sarebbe se non una serie di eventi dinamici e intercorrelati, per cui nessuna proprietà di ciascuna parte è da ritenersi essenziale (ricordiamo che l’essenzialismo è uno dei punti maggiormente presi di mira dal post-anarchismo), ma deriva dalle proprietà di tutte le altri parti. Alla fine, è la coerenza globale, il sistema generale di relazioni dell’insieme che conta e determina la struttura complessiva della rete: non ci sono principi ultimi da ricercare, non esistono mattoni elementari della materia. In questa prospettiva le singole parti non sono da considerare come enti determinati in assoluto, una volta per tutte, ma sono definite in funzione delle relazioni con l’intero corpus di tutte le altre: qui la relazione diviene più importante del concetto di gerarchia, di struttura o di entità dell’oggetto.
In conclusione: il progressivo indebolimento e allargamento della trama del soggetto nella duplice direzione (verso l’interno e l’esterno) di cui si è sin qui parlato, ci offre un territorio tutto da esplorare, aprendo nuovi scenari con implicazioni inedite, recando con sé ulteriori ridefinizioni a cui si è potuto a malapena accennare e che costituiscono tutto un altro capitolo che qui non è possibile trattare: l’elaborazione di nuove forme di coordinamento e di lotta, la gestione delle dinamiche di potere e la definizione di prospettive alternative. Ma non siamo agli inizi: su questi temi sono già all’opera esperienze fattive e laboratori di futuro ben calati nel presente. Si tratta allora di andare avanti, provando coniugare la sfida aperta dalla riflessione del post-anarchismo con la pratica quotidiana degli uomini e delle donne di questo tempo.

Federico Battistutta

Note

  1. Cfr. Post-anarchismo: una introduzione, a cura di Salvo Vaccaro, supplemento al n. 31 del “Bollettino Archivio G. Pinelli”, giugno 2008. Si tratta di una sorta di abbecedario del pensiero post-anarchico, articolato secondo alcune parole-chiave, da “Anarchismo” a “Valori umanistici”, riportante il pensiero dei più importanti autori di questo filone, da Todd May a Saul Newman, per citare i più noti.
  2. Toni Negri, Erkenntnistheorie. Elogio dell’assenza di memoria, “Metropoli”, n.5, giugno 1981, poi in Fabbriche del soggetto, Livorno, XXI Secolo, 1987.
  3. Ferdinando Tartaglia, Anarchismo e postanarchismo, “Gioventù anarchica”, n.2/3, gennaio-febbraio 1947 (prima parte) e n. 4/5, febbraio-marzo 1947 (seconda parte). Per un ritratto di Tartaglia rimando al mio: Trittico eretico, Novara, Millenia, 2005. Quanto alla ricezione del suo pensiero cfr. il mio articolo: Spigolature spigolose. Ferdinando Tartaglia e i suoi critici, “Religioni e società”, n. 59, settembre-dicembre 2007. Sulla storia della rivista “Gioventù anarchica” v. Alberto Ciampi, La “Gioventù anarchica” di Carlo Doglio a un anno dalla scomparsa, “Rivista storica dell’anarchismo”, n.2, luglio-dicembre 1996.
  4. Entrambe le citazioni provengono da: Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi, 1976.
  5. Cfr. Thomas S. Martin, Nuovi percorsi per l’anarchismo, “Libertaria”, n.1, ottobre-dicembre 1999. Quanto all’ipotesi del ‘bootstrap’, a parte i contributi divulgativi di Fritjof Capra, si rinvia al più recente e approfondito volume di Francesco Maria Scarpa, Una rivoluzione mancata. Il bootstrap e i dieci anni che potevano cambiare la fisica, Torino, Bollati Boringhieri, 2008.