Rivista Anarchica Online


clima e diritti

La voce dei popoli senza Stato
di Roberto Cammarata

Il fallimentare vertice internazionale sul cambiamento climatico (Copenhagen, dicembre 2009) ha riproposto la realtà e le esigenze dei popoli “piccoli”, dimenticati, mai considerati. Che sempre meno sono disposti a restare in un angolo al servizio dei Grandi della Terra.

 

...ti saluto dai paesi di domani
che sono visioni
di anime contadine
in volo per il mondo...

“Anime salve”
Fabrizio De Andrè e Ivano Fossati

Anche il più recente vertice internazionale sul cambiamento climatico (tenutosi lo scorso dicembre a Copenhagen) è stato un colossale insuccesso e un’ennesima dimostrazione dell’incapacità della politica internazionale di farsi carico in modo serio delle emergenze che riguardano gli equilibri ambientali del pianeta. Il vertice, però, è stato anche l’occasione per un nuovo passo avanti di quella pratica politica dal basso che un osservatore attento dei movimenti sociali come Boaventura de Sousa Santos chiama “cosmopolitismo degli oppressi”, basato sulle esperienze e sulle lotte della rete di movimenti fautrice di una globalizzazione contro-egemonica (si veda in proposito il suo Diritto ed emancipazione sociale, Città aperta, 2008).
Tra queste lotte e questi movimenti un ruolo significativo è indubbiamente ricoperto dal movimento dei popoli indigeni, sbarcato in terra europea proprio in occasione del vertice sul clima. I Guaranì del Brasile, i Mapuche cileni, i Maya guatemaltechi, ma anche i Sami di Finlandia, i Nenet della Russia, i Penan del Borneo e gli Ogiek del Kenia; sono solo alcuni dei tanti popoli indigeni che hanno deciso di tornare a farsi sentire denunciando una situazione insostenibile e il debito storico (ed ora anche ecologico) che gli stati hanno nei loro confronti. E non è certo la prima volta che accade.

Una sfida non da poco

Era il 1992, l’anno delle pompose manifestazioni per il cinquecentenario della “scoperta” dell’America, quando i popoli indigeni di quel continente decisero di rompere il silenzio, di non perdere l’occasione per manifestare la loro presenza, per far sapere al mondo intero che esistevano ancora e non erano certo in pochi (solo nelle Americhe circa 40 milioni di individui, quasi 400 milioni nel mondo), e che, nonostante i genocidi (fisici) e gli etnocidi (culturali) subiti durante cinque secoli – dalla conquista alle colonie fino alle repubbliche indipendenti – continuavano a considerarsi dei popoli a tutti gli effetti ed erano determinati a rivendicare ed ottenere riconoscimento e diritti come soggetti collettivi. Una sfida non da poco per la politica e il diritto interno e internazionale e, più in profondità, per la stessa filosofia e antropologia da cui sono sorti e si sono sviluppati i diritti umani.
Era sempre il 1992 quando a Rio de Janeiro si teneva il primo vertice internazionale sull’ambiente e lo sviluppo. Alle contro-manifestazioni e alle iniziative del cinquecentenario si sommarono così quelle che i movimenti rappresentativi dei popoli autoctoni organizzarono per portare all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale la propria visione sulle emergenze ambientali e l’esistenza di un legame profondo e fragile tra la questione ecologica e quella indigena.
Quell’anno il movimento indigeno ottenne grandi risultati. Oltre a conquistare una straordinaria e inaspettata visibilità sulla scena internazionale, a intrecciare inediti legami con altri movimenti di protesta – ecologisti, anti-imperialisti e no-global – riuscirono ad ottenere un importante formale riconoscimento proprio nel documento finale del vertice di Rio (conosciuto come la “Dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo sviluppo”). In due dei Principi di cui è composta quella Dichiarazione – precisamente il n. 22 e il n. 23 – veniva infatti riconosciuto il rapporto di interdipendenza tra gli obiettivi della salvaguardia ambientale e della protezione delle popolazioni indigene del pianeta: da un lato la tutela dei fragili equilibri di ambienti spesso estremi è condizione necessaria per la sopravvivenza di esperienze collettive di vita basate su un’agricoltura di sussistenza e su uno stretto legame non solo produttivo ma anche spirituale e identitario con la terra; dall’altro lato le conoscenze, le esperienze, gli stili di vita e i modelli di sviluppo di queste popolazioni costituiscono un patrimonio e un contributo imprescindibili per raggiungere l’obiettivo della sostenibilità, e come tali vanno a loro volta riconosciuti e tutelati.
Sono passati quasi due decadi da quel vertice e da quel documento e la storia della lotta per il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni ha visto il succedersi di tante tappe e di non pochi risultati significativi, ultimo e maggiore dei quali indubbiamente l’approvazione il 13 settembre 2007 della Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Dichiarazione che prevede il riconoscimento, fra numerosi altri diritti specifici – individuali e collettivi – di un particolare diritto all’autodeterminazione che possiamo definire “interna”, che pur non discutendo direttamente la sovranità territoriale degli stati, in numerosi contesti può risultare – se non lasciata sulla carta – potenzialmente rivoluzionaria. Riconoscere ai popoli indigeni una tale forma di autonomia, significa infatti non solo mettere in forte discussione una porzione cospicua di sovranità statale, ma anche – e in modo più profondo – minare le basi stesse di quella particolare configurazione istituzionale che ha preso forma con la decolonizzazione, e che conosciamo con il nome di stato-nazione, ovvero: l’univocità e l’esclusività del rapporto tra popolo e stato (un unico popolo, un’unica nazione, un unico stato), e il monopolio dell’esercizio di determinati poteri (dalla produzione giuridica all’uso della forza).
Ed è proprio la questione del rapporto tra popoli indigeni e stati di appartenenza a riemergere con tutta la sua forza e a conquistare le pagine della cronaca durante il nuovo appuntamento internazionale dedicato al clima, quel vertice di Copenhagen che avrebbe dovuto aggiornare il protocollo di Kyoto e che invece si è chiuso con una semplice dichiarazione di intenti, senza impegni precisi e vincolanti da parte degli stati.
In occasione del vertice, infatti, oltre ad assistere alla riproposizione della saldatura tra le istanze ambientaliste ed ecologiste e quelle etno-identitarie dei popoli indigeni, si è registrata una richiesta che ha nuovamente lanciato una sfida alle istituzioni, statali e internazionali. Durante i lavori, infatti, una delegazione di rappresentati dei popoli indigeni dell’Amazzonia e di un network di circa 600 diverse etnie dei diversi continenti ha chiesto che venisse loro riconosciuta la possibilità di negoziare al vertice con una loro delegazione autonoma, prerogativa prevista unicamente agli stati e alle istituzioni sovranazionali.
Ma questa volta le istanze indigene hanno avuto meno fortuna rispetto a quanto avvenuto 17 anni prima a Rio de Janeiro. O, visto l’esito finale del vertice, ad avere meno fortuna sembra piuttosto essere stato il futuro stesso del pianeta.

Sicurezza e sovranità alimentare

È un vero peccato, perchè anche in questo caso, come ormai suo solito, il vasto ed eterogeneo arcipelago dei movimenti che rappresentano i popoli indigeni si era preparato a dovere per l’occasione e di richieste e proposte concrete ne aveva avanzate non poche. Nell’aprile del 2009, infatti, i movimenti indigeni si erano riuniti tutti in Alaska, nell’Indigenous Peoples’ Global Summit on Climate Change, al termine del quale era stata approvato un documento nominato Dichiarazione di Anchorage (dal nome della città dove si è tenuto l’incontro). In essa (recuperabile nella versione ufficiale completa all’indirizzo web www.indigenoussummit.com) sono elencate non solo le preoccupazioni, gli allarmi e le denunce dei popoli indigeni su quanto i cambiamenti climatici rischino di comprometterli nel modo più drastico, ma anche proposte e percorsi concreti, e l’offerta di farsi interlocutori e co-attori di una svolta che appare oggi agli occhi dei più come necessaria.
Ma vediamo allora in sintesi quali sono nello specifico queste denunce e queste proposte. Secondo gli indigeni, la Madre Terra (la Pachamama) “non si trova in un processo di cambiamento climatico, bensí in una crisi climatica e ambientale”. Chiedono che si raggiunga il consenso sull’obbligatorietà degli obiettivi previsti per la riduzione delle emissioni di gas serra dei paesi sviluppati (45% sotto il livello del 1990 entro il 2020 e 95% entro il 2050); che tutti i paesi, anche quelli in via di sviluppo, lavorino ad una riduzione progressiva della dipendenza delle loro economie dai combusitbili fossili, e che si lavori “ad una transizione giusta verso un’economia delle energie rinnovabili e decentralizzate, con fonti e sistemi sotto controllo delle comunità locali al fine di ottenere sicurezza e sovranità energetica”.
Oltre alla questione energetica e a quella dell’inquinamento, i movimenti indigeni sollevano con determinazione la questione della sicurezza e della sovranità alimentare dei loro popoli, anch’essa legata a doppio filo alle conseguenze dei cambiamenti climatici. Chiedono alle Nazioni Unite e alle sue organizzazioni di settore come l’OMS, la FAO e l’UNESCO, che su questo tema specifico si istituisca un gruppo di lavoro per affrontare una situazione che rischia di diventare sempre più difficile. Autodichiarano provocatoriamente, come misura immediata e necessaria, “le loro comunità, le acque, l’aria, i boschi, gli oceani i ghiacci marini che formano i loro territori come Aree di Sovranità Alimentare, definite e dirette dai popoli indigeni secondo le proprie leggi tradizionali, libere da industrie estrattive, deforestazione, sistemi di produzione di alimenti basati su prodotti chimici contaminanti, agro-combustibili e OGM”.
Pretendono infine che venga rispettato il loro diritto alla mobilità, così come quello all’isolamento volontario e di non essere sottoposti a programmi di riubicazione forzata lontano dai loro territori ancestrali. E rivendicano che, nei casi sempre più frequenti di “migranti a causa dei cambiamenti climatici”, i programmi e le misure da assumere siano prese in accordo “con i loro diritti, status, condizioni e vulnerabilità”.
Ma soprattutto, richiamandosi ai diritti loro riconosciuti nelle varie convenzioni e dichiarazioni che li riguardano e alle conoscenze, alle pratiche e alle esperienze da loro maturate in campo ambientale, chiedono di essere preventivamente consultati (principio del consenso preventivo, libero e informato) su qualunque misura, progetto o programma specifico relativo al cambiamento climatico; e che l’eventuale loro diniego venga rispettato. Chiedono finanziamenti, strutture e percorsi formali che li includano nei processi decisionali sulle misure da prendere, perché non sono pochi i casi di politiche etichettate come “ambientaliste” in realtà cariche di contraddizioni e conseguenze a volte anche nefaste per la vita di numerose popolazioni indigene.
È quanto emerge da un rapporto diffuso in occasione del vertice di Copenhagen dalla maggiore associazione impegnata a livello internazionale nella tutela dei popoli indigeni, Survival International, intitolato “La verità più scomoda di tutte” (www.survival.it) che, parafrasando il titolo del celebre film premio Oscar dell’ex vicepresidente statunitense Al Gore, evidenzia in modo dettagliato le contraddizioni di numerosi progetti di interventi di mitigazione dei cambiamenti climatici.
La verità, secondo Survival, è infatti che “i popoli indigeni del mondo, coloro che hanno contribuito di meno ad alimentare i cambiamenti climatici e ne sono tuttavia più colpiti, proprio per gli ambienti particolari dove vivono, oggi vedono anche violare i loro diritti nel nome della lotta per fermare il riscaldamento globale”, spesso usata come scusa per giustificare, da parte di stati o grandi imprese, la rivendicazione, lo sfruttamento e in alcuni casi lo stravolgimento e la distruzione dei loro territori.
È il caso delle coltivazioni estensive per la produzione dei cosiddetti bio-carburanti, delle costruzioni di grandi dighe per la produzione di energia idroelettrica, del mercato internazionale dei crediti per il bilanciamento delle emissioni, e addirittura in alcuni casi dei programmi di conservazione delle foreste (come nel caso denunciato del Kenia, dove il governo, con la scusa di un programma di riforestazione, avrebbe ordinato a migliaia di cacciatori-raccoglitori Ogiek di abbandonare le loro abitazioni).

Un futuro dalle radici antiche

Da quanto detto si capisce che la situazione è alquanto critica e che probabilmente non è sbagliato in molti casi parlare di vera e propria emergenza. I popoli indigeni, i popoli senza stato, appaiono sempre più come consapevoli e rispettosi portatori di una proposta di futuro dalle radici antiche, ma sempre più ricca di esperienze legate alla contemporaneità e sempre meno riducibile a quell’utopia arcaica descritta dalle pagine di Mario Vargas Llosa. Hanno deciso di continuare a far sentire la loro voce, di fare la propria parte, di non limitarsi ad alzare gli scudi a propria difesa (pratica peraltro legittima in condizioni che spesso sono di oppressione, di discriminazione, quando non diventano addirittura di persecuzione), ma di offrire il loro umile contributo alla costruzione di un futuro sostenibile per l’umanità e il pianeta. Hanno deciso di farlo attraverso azioni dirette nei confronti della comunità e dell’opinione pubblica internazionale, come “popoli senza stato”, bypassando il livello istituzionale statale, che si è dimostrato sordo rispetto alle loro istanze. Ma sembra proprio che anche le istituzioni internazionali dimostrino la medesima sordità.
A chi osserva i contenuti e le forme delle lotte della globalizzazione contro-egemonica e, più in generale, a chi osserva l’evoluzione della teoria e della pratica dei diritti umani, non può però sfuggire come quello messo in atto dai popoli indigeni con la rivendicazione dei cosiddetti “diritti climatici” sia un ottimo esempio del tentativo di costruzione di una diversa dinamica di riconoscimento e tutela dei diritti, attraverso un canale orizzontale (quello che Johan Galtung – nel suo I diritti umani in un’altra chiave, ed. Esperia, 1997 – chiama il canale beta) che a differenza di quello classico verticale (alpha), non contempla e anzi prescinde dalla presenza e dal ruolo degli stati. E forse è proprio il modo migliore per riscoprire il potenziale emancipatorio universale dei diritti umani.

Roberto Cammarata