Rivista Anarchica Online


attenzione sociale


a cura di Felice Accame

 

L’ipocondria
poetica

 

1. Daniel Vogelmann nasce a Firenze nel 1948, scrittore, fondatore e direttore della casa editrice La Giuntina, pubblica ora una sua raccolta intitolata Le mie migliori barzellette ebraiche. Traggo dal libro un paio di esempi. Classico telegramma ebraico: “Comincia a preoccuparti. Segue lettera”. Oppure: “Una mamma ebrea regala al figlio per il suo compleanno due cravatte: una rossa e una blu. Il sabato successivo, il figlio va a trovarla sfoggiando la cravatta rossa. ‘Perché ti sei messo questa cravatta? Quella blu non ti piaceva?’”. Tanto pessimismo e un pizzico di taccagneria? Può darsi. Ma nella breve introduzione al libro, l’autore mette le mani avanti: “ricordatevi sempre che le barzellette ebraiche dovrebbero essere raccontate solo dagli ebrei, perché se le racconta un non-ebreo rischiano di diventare subito antisemite”.

2. In Thomas Mann Jakob Wassermann e la questione ebraica, Arnaldo Benini istruisce un processo ad entrambi – al primo per antisemitismo, al secondo per antisemitismo da ebreo, un atteggiamento, anche questo, che ha avuto i suoi bravi interpreti (e che potrebbe implicare anche tutti gli ebrei che raccontano barzellette sugli ebrei) – per mandarli entrambi assolti. Con le stesse sue carte, vorrei andarci più cauto.

Thomas Mann

3. Lo scrittore tedesco Jakob Wassermann è nato nel 1873, due anni prima di Thomas Mann. Hanno fatto parte, dunque, della società letteraria nella stessa epoca anche se con diversi destini. Il primo muore piuttosto presto, nel 1934 – e non sommerge il mondo colto del suo ingegno e di relativa fama, mentre il secondo muore nel 1955 – da intellettuale famoso e scrittore letto e stimato. Sono stati amici o, almeno, come “fedele amico”, Mann lo ricorda ancora in una lettera ad Hans Mayer datata 23 giugno 1950. L’uno dell’altro, comunque, hanno saputo molto presto, perché già in una cartolina postale – inviata da Napoli a Korfiz Holm – datata 6 novembre 1896, Mann parla di Wassermann e di un “indegno plagio” che avrebbe commesso nei suoi confronti – indegno plagio di cui, presumibilmente, Mann era stato accusato ingiustamente, ma che, tuttavia, conferma ulteriormente l’idea che, nel bilancio del loro rapporto, le voci relative al dare e all’avere fossero piuttosto sproporzionate.

4. Relativamente a Mann, le carte dicono cose come queste:

  1. Tra il 1895 e il 1896, collabora ad una rivista – “Il ventesimo secolo” – che è stata definita “organo eminente del nazionalismo popolare e dell’antisemitismo radicale”.
  2. In una nota dei suoi Diari, nel 1907, dice di essere “filosemita”, ma, più o meno al contempo, dice anche che il “problema ebraico” (…) si risolverà da solo” – grazie ad una misteriosa “europeizzazione dell’ebraismo”, che, a quanto mi è dato di capire dovrebbe consistere nel fatto che i “giovani ebrei benestanti” – notare il ‘benestanti’ –, praticando sport e usufruendo di “circostanze favorevoli”, “non dimostrano la loro origine”; diventano belli da brutti che erano, insomma, e piacciono già ai rappresentanti “germanici” dell’altro sesso – tanto che si arriverà presto a matrimoni misti.
  3. In una nota dei suoi Diari, nel 1918, si lamenta che “Monaco e la Baviera sono governati da letterati ebrei”; uno di questi lo descrive come “una viscida nullità letteraria”, “spirito affarista e acchiappatore di denaro, con l’eleganza di merda della grande città”.
  4. In una nota dei suoi Diari, nel 1919, si dice entusiasta di Hans Bluer, antisemita dichiarato di cui ha letto Germania, ebraismo, socialismo senza trovarvi alcunché da ridire.
  5. Nel 1921, Wassermann pubblica Il mio cammino di tedesco e di ebreo, libro che viene definito da Gerschom Scholem “uno dei documenti più toccanti della finzione del dialogo fra tedeschi ed ebrei, un vero urlo nel vuoto, che sapeva di esserlo”. Bene, Mann gli scrive che non condivide alcunché della sua diagnosi relativa alla condizione di ebreo in Germania, che non esiste “una vita nazionale, dalla quale si cerchi di escludere l’ebreo verso il quale si manifesta sfiducia”, che la Germania è “cosmopolita”, che è “capace di assorbire e di rielaborare tutto” e che non costituisce certo “il terreno più idoneo a far attecchire l’albero dell’antisemitismo”. Quella di Wassermann, in una parola da gran letterato, sarebbe soltanto “ipocondria poetica”. Va da sé che questi ci rimanga male – e ciò non ostante, paziente come Giobbe, continui a manifestare stima e amicizia nei suoi confronti.
  6. Soltanto in una nota dei suoi Diari, nel 1935 – a Wassermann morto e Hitler al potere – ha l’occasione di guardarsi indietro e riconosce di esser stato “di un’ingenuità incredibile”.

5. Relativamente a Wassermann, le carte dicono cose come queste:

  1. Nel 1898 si trasferisce a Vienna e si rende conto che “tutta l’opinione pubblica era dominata da ebrei”, i quali erano “brutalmente determinati” e “senza scrupoli”. In quanto ebreo se ne vergogna.
  2. Nel 1915, allorché va volontario in guerra, è nazionalista. Scrive “noi tedeschi” e considera la guerra come “nazionale”.
  3. Nel 1923 pubblica un romanzo, Gli ebrei di Zirndorf, in cui un recensore di oggi può trovare “l’intero catalogo dell’antisemitismo di allora”, ma che un ebreo di ieri poteva considerare “il più straordinario romanzo ebraico”.

6. Liquido l’affare Wassermann in poche battute. Non parlerei mai di un “carattere” ebraico o di classificazioni affini perché temo sempre l’effetto interattivo di ogni classificazione: definisci “figlio di separati” un bambino in prima elementare e, da lì in avanti, tutto il suo comportamento risulterà, agli occhi di un osservatore, tipico dei “figli di separati” – fino al punto in cui la categorizzazione sarà fatta propria anche dal soggetto interessato. Tuttavia, sono anche convinto che Wassermann, come dice Benini, “si scaglia contro aspetti che egli sente negativi ed arcaici degli ebrei tedeschi non per avversione razziale, ma perché se ne liberino”. Sospetto sempre di chi dice di pensare al bene altrui, ma capisco che, sotto l’oppressione della discriminazione, si possa piuttosto agevolmente giungere a ciò. Non mi piace, voglio dire, che Vogelmann pubblichi le sue migliori “barzellette ebraiche” – non mi piace le esigenze implicite che lo muovono a ciò e mi sentirei in un mondo migliore se avesse pubblicato le sue migliori “barzellette” –, ma non posso, non me la sento, di accusarlo di razzismo.

Jakob Wassermann

7. Le argomentazioni con cui Benini arriva ad affermare che Mann non coltivava “sentimenti antisemiti”, invece, non mi convincono. Sostiene che “nei diari si esprimono riflessioni, dubbi, stati d’animo spesso momentanei o transitori, che non influenzano nessuno” e che, più o meno, la stessa argomentazione valga per le lettere. Ma, a mio avviso, da un lato non si può ignorare che, se qualcosa come un pensiero assume la forma scritta ha già avuto tutto il tempo di essere filtrata e ben soppesata – a maggior ragione in un “letterato”, in uno che conserva lettere proprie e che scrive diari, giornali il cui grado di intimità è implicito; dall’altro, neppure si può far finta di nulla riguardo le matrici culturali di questo pensiero. Che da qualche parte pur proviene, che in qualche modo si è pur formato.
Diventa allora difficile non ricondurre la matrice culturale dei “sintomi” di Mann alla malattia di cui soffre la sua classe sociale in quel preciso momento – una malattia che la renderà presto tragica protagonista nient’affatto innocente. Mann è animato esattamente dallo spirito borghese tedesco quanto quelli che, poi, – spinti in circostanze diverse dalle sue – hanno mandato a morte con piena consapevolezza gli ebrei. La matrice culturale è quella – nella versione della sua cultura o, meglio, della forma che poteva assumere al suo livello culturale. “Le tirate antiebraiche” di Mann non andranno “sopravalutate”, come benevolmente suggerisce Benini, ma non certo perché “quel che avvenne dopo in Germania carica quelle descrizioni e atteggiamenti di un accento che allora non avevano e non potevano avere”, perché l’“accento” l’avevano eccome – tanto è vero che c’è lì Wassermann a testimoniarlo, un Wassermann che nessuna accusa di “ipocondria” potrà rendermi meno affidabile.
D’altronde è lo stesso Benini – onesto quanto tenacemente impegnato a portare in salvo il proprio beniamino – a riconoscere che “l’antisemitismo non lo lasciò indifferente, ma non ne capì la natura, le dimensioni e la deriva criminale”, “difetto” che riconduce alla “ideologizzazione di un’entità mitologica come la Kultur tedesca”. Mica poi a quel poco che si vorrebbe che fosse.

Felice Accame

Note
Le mie migliori barzellette ebraiche è pubblicato da La Giuntina, Firenze 2010. Il libro di Benini è pubblicato dalle Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2010. Il titolo originale della rivista su cui scrive il giovane Mann è “Das Zwanzigste Jahrhundert”. Per la presenza di Wassermann nella corrispondenza di Mann, cfr. T. Mann, Lettere, a cura di Italo Alighiero Chiusano, Mondadori, Milano 1986. Arnaldo Benini (1938) è docente di neurochirurgia e neurologia all’Università di Zurigo e recentemente ha pubblicato Che cosa sono io – Il cervello alla ricerca di sé stesso, Garzanti, Milano 2009, che ho recensito in Working Papers della Società di Cultura Metodologico-Operativa, n. 231, in www.methodologia.it.