Rivista Anarchica Online


 

Fine
dell’Occidente?

“La rovina del mondo antico non è, naturalmente, un fatto isolato nella storia: altre volte l’anima degli uomini si è infranta nel travaglio di vicende crepuscolari – lente consunzioni di organismi statali o violente distruzioni”. Così si apre La fine del mondo antico di Santo Mazzarino, celebre libro sull’argomento, uscito nel ’59 e più volte riproposto, in cui l’autorevole storico dell’antichità tratteggia una storia delle idee di “decadenza” e di “morte di Roma” com’erano intuite dal II secolo a. C. ai nostri giorni, fornendo al contempo un’interpretazione della rovina del mondo antico, attraverso la critica e la discussione delle varie soluzioni e ipotesi. Chi scrive queste note si è ricordato di tale incipit, che appare quanto mai appropriato accostare a quello della postfazione di Serge Latouche al suo La fine del sogno occidentale, già uscito nel 2002 e ora riproposto sempre da Elèuthera. Dice infatti l’autore: “Abbiamo l’incredibile privilegio di assistere in diretta al crollo della nostra civiltà”.
Se per molti l’11 settembre 2001 con lo sgretolamento delle Twin Towers è la data simbolica di questo crollo, per Latouche altri segnali erano già presenti in nuce: nella crisi politico-economica degli anni Ottanta, con l’ultraliberismo di Reagan e della Thatcher; prima ancora, nella crisi ecologica preannunciata negli anni Settanta dal “Club di Roma”; e ancora più indietro nei fatti del maggio francese, con tutto quello che ne è seguito (do you remember sixty-eight?). La postfazione costituisce un’utile integrazione ai capitoli che formano il volume, nei quali vengono delineati i tratti di ciò che chiamiamo, magari in modo un po’ distratto, “Occidente”. Contrariamente a quello che il senso comune veicola l’Occidente non riguarda un’entità geografica in senso stretto (l’Europa), una razza (quella bianca), una cultura (quella razionalista), una religione (il cristianesimo), anche se è strettamente imparentata con ciascuno di questi elementi. Con le parole di Latouche: “L’Occidente ci appare come una macchina vivente, metà meccanismo metà organismo, i cui ingranaggi sono uomini dai quali, pur autonoma rispetto a loro, trae forza e vita, muovendosi nel tempo e nello spazio”.
Il progetto civilizzatore dell’Occidente non ha dunque un soggetto proprio, né possiede basi territoriali definite rigorosamente, anzi il suo obiettivo è la creazione di una metasocietà mondiale senza confini, in cui tutto è (o può essere) in relazione con ogni cosa, dominata dalle categorie della scienza, della tecnica e dell’economia, ma ancor di più dai poteri simbolici su cui questi poggiano e che costantemente trasmettono, vale a dire i valori del progresso e dello sviluppo, i quali vengono presentati come degli assoluti, esenti pertanto da qualsivoglia critica o contestazione. È la mondializzazione, presentata dai politici e dagli economisti come un processo anonimo e universale, in ultima istanza benefico per le sorti dell’umanità.
Ma, ricorda Latouche, se la macchina tecnoeconomica della modernità a parole invita tutti a partecipare a questa competizione, in realtà finisce per innescare una sfida su scala planetaria di hobbesiana memoria, una guerra di tutti contro tutti, non solo perché si fonda su una concorrenza generalizzata priva di regole (certo c’è chi ha la funzione di controllare: ma chi controlla i controllori?), “ma soprattutto perché la posta in gioco non è estensibile” e per forza di cose ci sono vincitori e vinti; e a questi ultimi non è riservato “alcun diritto, né considerazione, né rispetto”.

Serge Latouche

Se il puro e semplice ritorno al passato è improponibile (in questa direzione si colloca la lettura critica di Latouche dei movimenti fondamentalisti, islamici, indù o cristiani), è doveroso rintracciare sotto il progetto di uniformazione planetaria i percorsi di fuoriuscita dal tunnel mondializzato. Di fronte al fallimento del mimetismo economico, tecnologico e politico, gli esclusi dalla modernità mondiale hanno cominciato a costruire reti di solidarietà. Il principio di reciprocità che le ispira, difficilmente rientra nel reticolo interpretativo proprio dell’economia: sono quei valori vernacolari (il termine è di Ivan Illich) – comportamenti, attività o campi sociali – che vengono appresi senza un insegnamento strutturabile secondo precisi criteri di prestazioni professionali, che mutano tanto nello spazio quanto nel tempo e che difficilmente rientrano nella definizione del PIL nazionale. “I poveri sono molto più ricchi di quanto non si dica”, conclude Latouche, cosicché “l’incredibile gioia di vivere che colpisce molti osservatori delle periferie africane inganna meno delle deprimenti valutazioni oggettive fatte dagli strumenti statistici, che cercano soltanto la parte occidentalizzata della ricchezza e della povertà”.
Se questo è uno dei possibili contropoteri da agire, altre sono le strade percorse all’interno del cuore dell’Occidente: è la decrescita come scelta di deoccidentalizzazione da parte dello stesso Occidente, la decrescita come scelta attiva e consapevole di vita e non come mera categoria economica (ma di questo abbiamo parlato sul precedente numero di “A”).

Federico Battistutta

Piotr Kropotkin

La didattica di
Piotr Kropotkin


Nel momento in cui l’ineffabile avvocato Mariastella Gelmini, ministro della pubblica istruzione italiana, riduce o elimina le ore di geografia negli indirizzi della sua riforma (?) delle scuole superiori, fa piuttosto impressione notare l’attualità dei contenuti dello scritto di Kropotkin (1842-1921) a proposito della geografia e del suo insegnamento. E per lui e Reclus, essendo anarchici, le due cose non erano disgiunte.
Attualità nel senso che le sue proposte possono essere applicate senza cambiamenti alla scuola di oggi e l’approccio metodologico-pedagogico appare in linea che un filone di ricerca e studio che ormai ha autori apprezzati e autorevolezza consolidata. In realtà le proposte di Kropotkin sono rivoluzionarie anche per la scuola di oggi, ma rispetto ai suoi tempi potrebbero essere applicate più facilmente se ci fosse l’apertura mentale per vederne l’utilità e l’efficacia.
Kropotkin è noto soprattutto come geografo fisico. Esperto delle zone siberiane gli furono chiesti quasi sempre contributi a testi scientifici o divulgativi (ad esempio l’Enciclopedia Britannica) che riguardassero la struttura geologica, climatica e ambientare di parti della superficie terrestre.
Non a caso il suo punto di partenza come approccio didattico è l’idea che la Natura sia maestra di vita, ma si rende perfettamente conto che anche la visione di spettacolari ambienti naturali non provoca automaticamente capacità di riflessione; più facilmente ci si limita allo stupore/ammirazione che però non produce di per sé maggiore consapevolezza. Va sottolineato che la sua visione articolata e specialistica dello spazio fisico lo mette in grado già nel 1885 di “riconoscere l’esistenza di qualche legge tellurica che abbia presieduto alla formazione dei grandi sollevamenti e appiattimenti della crosta terrestre. Queste leggi non sono state ancora scoperte …”, dice, ed infatti diverranno tra il 1912-1915 la teoria di Wegener sulla deriva dei continenti.
Kropotkin individua con chiarezza uno dei meccanismi fondanti della straordinaria capacità di imparare degli esseri umani: il fanciullo (così si diceva allora) “si appassiona a storie di uomini”. E allora i racconti dei viaggi, le descrizioni delle diversità di tradizioni e costumi, i problemi, i pericoli, il processo di immedesimazione e la capacità di creazione fantastica sono il terreno che la geografia coltiva per “interessare i fanciulli, attraverso l’intermediazione dell’uomo, ai grandi fenomeni della natura e risvegliare in essi il desiderio di conoscerli e spiegarli.” E grazie a questo strumento si arriva ad un obiettivo voluto, cui l’insegnante deve tendere e cioè far passare il messaggio che tra esseri umani “siamo tutti fratelli”. E appare di grande attualità a pragmatismo la sua considerazione “che solo piccole fazioni di ogni nazionalità sono interessate a mantenere vivi gli odi e le gelosie nazionalistiche”. Purtroppo la geografia come disciplina scolastica (e universitaria) ha avuto un ruolo ed una considerazione fintanto che è stata strumento per conoscere territori da conquistare e colonizzare e dare sostegno teorico alle pretese di superiorità di razza, al “pesante fardello dell’uomo bianco” di civilizzare le razze inferiori, al cosiddetto uso “razionale” ed efficiente delle risorse finalizzate allo sviluppo (come si dice oggi). Oggi che la geografia è progressivamente diventata più “umana “ (e kropotkiniana), le si riducono le ore e le si sminuisce la valenza educativa.
La considerazione di Kropotkin a proposito della Natura e dei suoi insegnamenti, delle sue “leggi” lo porta a dividere in quattro branche principali la materia che va insegnata nelle scuole: 1) geologia, 2) climatologia, 3) zoo-fitogeografia, 4) geografia umana, ma con una visione d’insieme, oggi diremmo transdisciplinare, che gli fa scrivere “naturalmente anche in questo caso il geografo attingerà a molte scienze affini: l’antropologia, la storia, la filologia [ ……] ma è preciso dovere della geografia dare un quadro d’insieme di questo campo e di riunire in un’unica vivida immagine tutti gli elementi separati di questa conoscenza, di rappresentarlo come un tutto armonioso, le cui parti sono conseguenza di pochi principi generali e sono fra loro interdipendenti.” Ed è in virtù di questo quadro d’insieme che Kropotkin è stato anche un geografo sociale, per usare un termine che più spesso viene riferito a Eliseo Reclus; le sue opere però sono state percepite come produzione “politico-ideologica” quando invece rappresentano un esempio, molto in anticipo sui tempi, di una geografia flessibile e osservativa che innesca l’interazione tra diverse discipline quali la sociologia, l’antropologia, l’economia “alternativa” e simili, che avranno legittimazione soltanto decenni dopo. L’esempio più valido di questo è il suo libro Campi, fabbriche, officine.
Sul piano pedagogico se i “racconti di uomini” servono a stimolare la curiosità e a provocare domande a cui dare risposta, appare ancora una volta molto “moderna” l’impostazione di lasciare il più possibile che sia il giovane a cercare le risposte grazie ad un lavoro autonomo di ricerca in cui il ruolo del docente è quello di sostegno e facilitazione e non quella di autorità che sa le risposte giuste da “mandare a memoria”: “più spazio al lavoro indipendente, e solo l’aiuto strettamente necessario da parte dell’insegnante”.
In questa opera di “scoperta” esplorazione del territorio, le escursioni, la visita didattica si dice oggi, sono un elemento fondamentale. Con una avvertenza che ancora oggi appare rivoluzionaria: “le cose più vicine sono spesso meno comprensibili per la mente del bambino di quelle lontane”; quindi, cautela con il disegno della pianta della classe e del percorso casa-scuola, ma grandi racconti (video e film oggi) sul grande mondo lontano.
Ed ecco un’altra idea precorritrice: l ‘opportunità dei contatti tra le diverse scuole, in territori e culture anche molto distanti che facciano passare attraverso lo scambio di racconti, di messaggi, di disegni, ecc. di altri esseri umani le informazioni utili ad una conoscenza che comprenda le diversità umane nella sostanziale eguaglianza che merita rispetto. Lascia stupiti che già nel 1885 ci fosse una associazione di scuole in contatto tra di loro con più di 7000 aderenti; e non era la sola! Questi tipo di contatti contribuiva e contribuisce anche oggi a percepire la fondamentale similarità e uguaglianza degli essere umani al di là delle mutevoli differenze “culturali”.
Infine l’invito all’insegnante ad essere appassionato, che è diverso dal sentire l’insegnamento come una missione. Chi si sente missionario ha in mente per prima cosa un obiettivo da raggiungere e la propria relazione con esso. La passione e non la semplice professione ti fa mantenere negli anni la voglia e l’attenzione per i giovani. IN uno scambio continuo in cui “le giovani generazioni potranno assimilare le conoscenze e le esperienze dei più vecchi e i più vecchi trarranno dai giovani nuove energie”.
Negli ultimi anni, quando si scrive qualche articolo o contributo, spesso ti chiedono di indicare le parole chiave. Nel pezzo di Kropotkin c’è una sua parola che può sintetizzare il suo approccio olistico all’educazione e che deriva dalla sua visione del mondo; vale per studenti e docenti, vale per tutti: provaci!
Ma si potrebbe proporre qualcosa di concreto e un poco “libertario” per difendere la geografia sotto attacco oggi? Forse la geografia facoltativa è più forte di quella istituzionale.
Una proposta non di ripiego, ma che potrebbe avere successo potrebbe essere quella della geografia come materia facoltativa. E mi spiego meglio.
La proposta ministeriale riduce le ore di geografia nei licei (dove erano già poche e solo nel biennio) abbinandole a storia, sempre nel biennio.
Nei tecnici e nei professionali a indirizzo economico e turistico c’era geografia come materia autonoma nel triennio finale (7 ore: 3+2+2). Qui i tagli maggiori.
Nel sistema scolastico delle superiori 1 ora di lezione alla settimana vale 33 in un anno.
Si può proporre che, oltre alle ore di geografia previste dal piano ministeriale, l’Istituzione sostenga/promuova (a seguito delle pressioni e per far bella figura con frasi tipo …. “apertura sul mondo, cultura globalizzata, opportunità di allargare gli orizzonti”, ecc.) la geografia come materia facoltativa per tutti gli indirizzi e tipologie di scuole e per tutti gli studenti delle classi dove non c’è la disciplina come materia curricolare.
Come può funzionare concretamente =
Nei tecnici e professionali la normativa vigente già consente ai collegi di modificare il piano dell’offerta formativa (cioè le materie) per un 10% del monte ore (nella proposta ministeriale il totale è da 29 a 32 ore a seconda delle scuole). Si tratta di 3 ore settimanali.
Ogni collegio può decidere di inserire nel piano delle 29-32 ore obbligatorie dei moduli tematici di approfondimento (33 ore ciascuno) per un totale di 3 ore settimanali ; gli studenti scelgono ad inizio di ogni anno quale/quali frequentare . La geografia dovrebbe essere definita dal ministero come disciplina preferita/suggerita/sostenuta/caldeggiata/gradita … per tutte le scuole.
Anche per i licei il ministero potrebbe sostenere questa flessibilità oraria (magari solo per 1 ora settimanale viste le resistenze psicosomatiche dei docenti liceali) e sostenere la geografia (moduli tematici di 33 ore) come disciplina preferenziale (l’unica che tratta la storia contemporanea, l’economia, le scienze sociali).
Infine si potrebbe proporre che la geografia (sempre intesa come moduli tematici) sia la disciplina offerta da tutte le scuole per gli studenti che non si avvalgono della religione cattolica e che non chiedono di lasciare l’edificio.
Non è una proposta riduttiva, ma sostenibile didatticamente e culturalmente come fa Sergio Luzzatto (ilSole24ore di fine febbraio) che sostiene la geografia come storia delle religioni e conoscenza delle altre culture in un mondo di flussi migratori.

Fabrizio Eva

Leggere Kropotkin

Ricerche sul periodo glaciale (1871);
Parole di un ribelle (1885);
La morale anarchica (1890) (ISBN 8872264774);
La conquista del pane (1892);
La filosofia e l'ideale dell'anarchia (1896);
Campi, fabbriche e officine (1898);
Memorie di un rivoluzionario (1899);
La scienza moderna e l'anarchia (1901) (ISBN 8885861792);
Il mutuo appoggio (1902) (ISBN 8876413014);
L’orografia dell'Asia (1904);
L’etica (incompiuta).

 

Quale natura per
quale cultura?

A zonzo per l’isola di Yap, David Schneider si imbatté in quattro nativi intenti a castrare un maiale. Della cultura Yap lo incuriosiva la concezione che il coito niente avesse a che fare con il concepimento umano. Perché stavano castrando il maiale? Ovviamente per farlo ingrassare, fu la risposta. Ma una volta castrato, chiese l’antropologo, potrà mai quel maiale ingravidare una scrofa? Ovviamente no, gli risposero. Perplesso, Schneider riformulò la domanda e di nuovo gli Yap gli fecero notare che una scrofa poteva figliare solo copulando con un maiale non castrato. Confuso Schneider obiettò che tutti gli avevano assicurato che il coito niente aveva a che fare colla gravidanza delle donne. Infatti è così, risposero i quattro a loro volta perplessi da una tale insistenza. All’apice dell’imbarazzo e del reciproco disagio, uno dei quattro si rese finalmente conto dell’abissale ignoranza di Schneider in merito ai più banali fatti della vita ed esclamò: “Ma le persone non sono maiali!”
Il saggio di Marshall Sahlins recentemente pubblicato da Elèuthera, Un grosso sbaglio, non spiega la differenza tra maiali e umani, ma ci aiuta a capire perché David Schneider, uno dei capiscuola dell’antropologia simbolica americana, potesse ignorarla. E noi con lui. Un grosso sbaglio, che secondo Sahlins si fonda sulla concezione propriamente Occidentale di una netta contrapposizione tra la natura e la cultura. Una concezione, a ben vedere, dai tratti paradossali. Da una parte la natura (il non umano) con le sue leggi che ne garantirebbero l’armonico funzionamento. Dall’altra la natura (umana) che benché retta dalle medesime leggi, ci getterebbe nel caos qualora non fosse contrastata dal processo civilizzatore. Sahlins mette in evidenza questo paradosso sviluppando una sorta di genealogia del discorso politico Occidentale. La sua tesi è infatti che tale discorso si fonda sull’immagine di un’umanità ferina, dalla bestialità tanto mostruosa quanto immodificabile perché innata, ovvero naturale. La politica nasce proprio per imbrigliare natura (umana), sia reprimendola, la soluzione monarchica, sia attraverso un attenta opera di bilanciamento di istanze tra loro in perenne (proprio perché innato) conflitto nel quadro di un ordinamento repubblicano. Un movimento oscillatorio governato dalla tensione tra il principio della gerarchia e quello dell’uguaglianza, teso a scongiurare gli effetti caotici di una “natura” umana lasciata a se stessa. È una metafisica dell’ordine che pervade ogni ambito della cultura Occidentale:
“La medesima struttura di base di un’anarchia originaria risolta dalla gerarchia o dall’eguaglianza la si può infatti ritrovare sia nell’organizzazione dell’universo sia nella città sia, di nuovo, nelle concezioni terapeutiche del corpo umano. Sostengo che questa sia una metafisica prettamente Occidentale poiché non solo presuppone un’opposizione tra natura e cultura tipica del nostro folclore, ma si differenzia altresì dai molti popoli che considerano le bestie fondamentalmente umane invece che gli umani fondamentalmente bestiali.”
Sahlins prende in esame gli scritti di tre autori pur distanti tra loro eppure accomunati da una medesima ossessione per l’ordine perennemente minacciato: Tucidide, Hobbes, e John Adams. Scopriamo così che l’innata ferinità umana su cui si basa sia la soluzione monarchica (Hobbes) sia la soluzione repubblicana (Adams) prima che un destino innato è un tropo che l’autore de “La guerra del Pelopponneso” ha utilizzato per narrare la guerra civile a Corcira (Corfù). Il dialogo a distanza tra questi tre autori traccia per Sahlins un triangolo metafisico particolarmente emblematico della visione Occidentale della “natura umana”. Una visione che, a differenza di altre, esprime un disprezzo tutto particolare per l’umanità in carne ed ossa. Tra l’altro la dicotomia che motiva questo disprezzo è smentita dal ruolo che la cultura ha avuto nell’evoluzione stessa dell’homo sapiens. Come Sahlins ci fa notare, se la nostra anatomia moderna risale a 400.000 anni fa, la cultura (materiale quanto simbolica) emerse circa 3.000.000 di anni fa. E allora, di che “natura” stiamo parlando?

Andrea Aureli

Un bel libro
sul Sessantotto

Si è scritto e si è detto molto sul Sessantotto, e spesso con proprietà. Ma ultimamente, in questi tempi di aperta restaurazione, lo si è fatto soprattutto abbandonandosi ai più vieti luoghi comuni e alle più manifeste distorsioni, con lo scopo di alimentare una damnatio memoriae atta a stravolgerne i significati e mistificarne i postulati.
L’obiettivo è chiaro: secondo i processi di rimozione e le interpretazioni strumentali che ci vengono proposte, tutte le conquiste che allora estesero l’arco delle opportunità e aprirono prospettive di libertà e autonomia, non solo avrebbero fatto il loro tempo, superate dalle nuove urgenze, ma avrebbero anche prodotto frutti avvelenati dei quali saremmo tutti vittime inconsapevoli. Tutti i mali di oggi nascerebbero dunque da quegli anni, l’antiautoritarismo che ha minato i principi gerarchici, la libertà dei costumi che ha permesso ogni licenza, l’esercizio del dubbio e della riflessione che ha negato il dogma, la critica al potere che ha contestato l’obbedienza, l’autodeterminazione che ha impedito di essere gregge…, e così andare. Insomma, la libertà avrebbe senso e cittadinanza solo se vigilata e controllata, ovviamente a fine di bene e a vantaggio di chi, di quella troppa libertà, potrebbe farne cattivo uso. Almeno stando ai molti che di quella generazione furono parte e che oggi, novelli soloni cui è concesso sentenziare perché “sanno di cosa si è trattato”, pontificano dai pulpiti del potere per svilire le speranze e le conquiste di quella stagione. Come tutti i pentiti, del resto, anche questi che si sono pentiti delle antiche passioni – l’unico tratto della loro vita di cui non dovrebbero vergognarsi – cercano di scrollarsi il fango che li copre, riversandolo astiosamente contro chi pentito non è.
Fortunatamente c’è chi ancora riesce a produrre momenti di informazione e riflessione efficaci e stimolanti, in grado di offrire un corretto patrimonio di conoscenze e di restituire alla memoria la ricostruzione preziosamente puntigliosa di quegli “anni formidabili”. È il caso di Giuseppe Gozzini, uno dei primi obiettori di coscienza in Italia negli anni Sessanta, partecipe dei movimenti ecclesiali di base, aderente al gruppo dei Quaderni Rossi e poi attivo protagonista di quegli anni e quelle lotte, che con questi Esercizi di memoria. Il ’68 visto dal basso. Sussidio didattico per chi non c’era (Trieste, Asterios Editore, 2008, € 25,00), si propone di fornire un quadro cronologico attento e preciso degli avvenimenti di quel periodo.
È un testo particolarmente utile perché, fra i tanti che hanno analizzato le dinamiche e gli sviluppi sociali della grande stagione dei movimenti, ancora ne mancava uno capace di offrire, al lettore di oggi, “una panoramica degli eventi più significativi, i dati e le date essenziali” che quella generazione di ribelli ha vissuto ed espresso concretamente nell’agire quotidiano. E privilegiando “l’attenzione sui movimenti sociali più che sui gruppi politici” l’autore ha voluto evidenziare come le motivazioni individuali si compenetrassero felicemente in una azione collettiva, per dare vita a un corpo sociale che si muoveva, si potrebbe dire, all’unisono. Inutile aggiungere che per chi, come me, ha vissuto direttamente e con generoso slancio quei tempi e quelle cose, si tratti di un salutare esercizio di memoria.
Il libro, un vero e proprio sussidiario, è così suddiviso in capitoli specifici dedicati, nel periodo compreso fra il 1968 e il 1975 (tale è la durata italiana del Sessantotto), ai temi fondamentali sui quali il Movimento si mosse e si confrontò: il mondo con l’imperialismo americano, Cuba e la rivoluzione culturale cinese; le lotte della classe operaia e del proletariato; la strategia della tensione e le stragi; il movimento degli studenti; il sistema dell’informazione e la controinformazione; la teoria degli opposti estremismi; i ceti impiegatizi e gli insegnanti; la controcultura e l’underground; i cattolici del dissenso; le lotte di genere e settoriali, femminismo, antipsichiatria e i matti da slegare, abolire le carceri e liberare tutti, la casa è di tutti e l’affitto non si paga, no all’esercito…
Una cronologia precisa la cui lettura consente di seguire, quasi in presa diretta, il succedersi temporale e sequenziale degli avvenimenti, opportunamente corredata da schede storiche, rimandi interni, annotazioni e citazioni. Tutti apparati utili non solo per le informazioni fornite, ma anche per la rigorosa coerenza con la quale sono stati elaborati. Conclude il volume un breve capitolo, Libri: che cosa si leggeva, particolarmente illuminante per comprendere quali fossero le radici culturali, le curiosità intellettuali, gli strumenti d’indagine e di conoscenza, dei protagonisti di quella stagione. Un elenco significativo nella sua omogeneità e completezza, anche se vi andrebbero aggiunti almeno altri due titoli, Dio e lo Stato di Bakunin e La rivoluzione sconosciuta di Volin, testi dichiaratamente anarchici, ma letti anche, posso testimoniarlo, da tanti che sicuramente anarchici non erano.
Come accennavo in precedenza, si tratta dunque di un prezioso esercizio di memoria che fa comprendere appieno come il movimento di quegli anni non abbia dato vita soltanto a una stagione di lotte studentesche e operaie per nuove conquiste sociali ed economiche, ma sia stato anche, e soprattutto, un turbine di azioni ed idee, che investì tutti gli aspetti della società e tutti gli ambiti delle relazioni personali e collettive, operando una profonda trasformazione antropologica e culturale. Una trasformazione che in parte oggi sembra annullata e ricondotta “all’ovile” dagli strumenti della restaurazione, ma che per tanti altri aspetti, fortunatamente, è ancora un patrimonio comune e, si spera, irreversibile. Perché “l’utopia si realizza nella misura in cui è concretamente praticata. E in questo senso il movimento utopico progettuale che ha posto il problema del potere e di un nuovo modo di fare politica come attività non separata dalla sfera quotidiana, ha cambiato il modo di essere e di operare di molte persone”.

Massimo Ortalli