Rivista Anarchica Online


Medio Oriente

Fotografi contro l’occupazione
di Gaia Raimondi

L’esperienza di Activestills, un collettivo di fotografi israeliani e internazionali impegnati contro il Muro, l’insediamento di nuovi coloni. L’occupazione israeliana in Palestina e in genere su tematiche etiche.

 

Venerdì 12 marzo 2010 il Circolo dei Malfattori ha ospitato un collettivo di fotografi anarchici israeliani per un’iniziativa di presentazione del lavoro svolto da questi attivisti, che si trovavano in Italia per partecipare al Festival della Fotografia Etica, evento nato da un’idea del Gruppo Fotografico Progetto Immagine, dedicato all’approfondimento della relazione tra etica, comunicazione e fotografia.
Tra gli ospiti appunto, il collettivo degli Activestills, di cui avevamo scoperto l’esistenza già nel maggio 2009 quando insieme al Centro Studi Libertari di Milano si era organizzata una due giorni di dibattito con Uri Gordon, anarchico israeliano e attivista del collettivo degli “Anarchists against the wall”; ricercando informazioni sul collettivo ci eravamo imbattuti nei reportage fotografici che illustravano le azioni svolte da questi ultimi e portavano la firma degli Activestills, che abbiamo così deciso di invitare al Circolo per conoscere più da vicino la loro storia e i loro progetti, ritenendo fondamentale la diffusione del sapere in questo senso.


Il collettivo Activestills è stato fondato nel 2005 da un gruppo di fotografi israeliani ed internazionali specializzati nel lavoro di “foto-documentario”, a partire dalla forte convinzione che la fotografia sia un veicolo di cambiamento sociale. Durante un campeggio di lotta e resistenza nel villaggio di Bil’in (1), sul quale era prevista la costruzione di una parte di muro di separazione fra lo stato di Israele e la terra palestinese (che avrebbe inglobato una parte del villaggio ed escludendone un’altra, dilaniando le esistenze degli abitanti e la logistica del luogo), si incontrano attivisti di tutto il mondo che decidono di creare, per affinità tematiche, collettivi che avessero come fulcro centrale delle lotte l’abbattimento del muro, la denuncia delle barbarie compiute dallo stato di Israele sul popolo palestinese e la diffusione dell’idea di pacifica convivenza fra i due popoli, senza bisogno di nazioni, confini, muri, violenza, intolleranza e repressione.
In un frangente simile nel marzo 2003, a Mascha, un altro villaggio palestinese a sud di Kalkilya, che si trova a pochi chilometri dalla “linea verde” ed è separato dalle terre coltivate dalla “barriera di sicurezza”, si erano formati anche gli AATW (Anarchists against the wall), di cui era già apparso un articolo sul numero estivo 346 di Arivista, con intervista a Uri Gordon, membro del collettivo. Liad, altro membro attivo, presenta gli intenti e gli obiettivi degli AATW con le seguenti parole:

Anarchists Against the Wall (“Anarchici e anarchiche contro il muro”) è un gruppo aperto il cui principale interesse è l’azione diretta non-violenta congiunta israelo-palestinese nei territori palestinesi occupati. I suoi scopi principali sono collaborare con la società civile palestinese nelle pratiche di disobbedienza civile all’occupazione, utilizzando l’insurrezione popolare dal basso come alternativa a politiche basate invece sulle diverse fazioni e partiti; creare un’alternativa alla violenza nella lotta di resistenza e far sì che israeliani e palestinesi resistano all’occupazione fianco a fianco. Anche se essere anarchici non è un criterio per unirsi al gruppo, la maggioranza delle attiviste e degli attivisti israeliani si riconoscono nell’anarchismo e il gruppo opera basandosi su principi anarchici. Dalla sua nascita nel marzo 2003 il gruppo si è prevalentemente concentrato sulla resistenza contro la costruzione del muro dell’apartheid nel West Bank. A partire dal 2002 Israele ha iniziato a costruire una barriera, nota come muro dell’apartheid, dentro ai territori occupati. Oltre ad aumentare in maniera consistente le sofferenze causate dall’occupazione rendendo ancora più difficili i movimenti della popolazione all’interno del West Bank, il percorso del muro comporta massicci furti di terra agricola ed espulsioni della popolazione palestinese dai propri terreni.
Quando è iniziato a diventare evidente che la costruzione del muro si sarebbe trasformata in un enorme strumento di oppressione, un gruppo anarchico israeliano ha deciso di usare la questione del muro come catalizzatore per azioni dirette congiunte israelo-palestinesi. Dall’inizio del conflitto questa è stata la prima volta in cui israeliani e israeliane e palestinesi si sono trovati fianco a fianco in azioni di resistenza all’occupazione. Per dedicarsi ad azioni congiunte di israeliani e palestinesi è necessario creare la base personale e relazionale che rende possibile il fare politica assieme. È necessario costruire fiducia. La gente in Europa si deve rendere conto che non usiamo la parola “Apartheid” solo come uno slogan. C’è una separazione assoluta tra le due società. Costruire relazioni personali e fiducia, che sono la base dell’azione politica, è il passo più difficile e contemporaneamente il più importante.”

La cosiddetta “barriera di separazione” o per meglio dire Muro dell’Apartheid, o “recinto di sicurezza”, come lo chiama il governo israeliano, di cui sono già stati costruiti più di 150 dei primi 650 Km previsti, è in realtà una rete di muri di cemento, recinti di filo spinato ed elettrificato, trincee, strade di pattuglia, torri di guardia e videocamere. La sua larghezza è in media di 60 metri ed è lungo 590 km, il costo totale previsto: 1,2 milioni di Euro e il costo per ogni kilometro si aggira intorno ai 170.000 euro. La sua costruzione non si limita a separare, per presunti motivi di sicurezza, la popolazione israeliana da quella palestinese, ma penetrando nei territori occupati ed accerchiando molti centri abitati, espropria terre, distrugge coltivazioni e pozzi, separa la popolazione dalle proprie fonti di sussistenza, rende i movimenti interni ancora più difficoltosi di quando già non faccia l’attuale sistema di suddivisione in aree e annette, di fatto, una larga percentuale di territorio palestinese, soprattutto intorno alle zone degli insediamenti israeliani e a quelle strategicamente più interessanti.
Proteste, manifestazioni e campi politici contro il Muro, gestiti ed organizzati da segmenti della società civile palestinese, hanno rappresentato un ritorno dell’Intifada come movimento dal basso, sostanzialmente disarmato e non militarizzato. Le zone dove attualmente si compiono i lavori di costruzione sono state protagoniste di diffusi momenti di insurrezione popolare, spesso con la presenza e il sostegno di attiviste e attivisti internazionali e israeliani, tra cui Anarchists against the Wall ed Activestills a documentarne l’operato per poi diffonderlo a Tel a Viv e in tutto il mondo.

La violenza della repressione ha comportato, oltre alla drammatica e consueta uccisione di civili palestinesi, anche il ferimento grave di compagni israeliani. Se in Italia solo l’informazione indipendente e di movimento ha dato spazio alle notizie delle azioni e della repressione conseguente, in Israele stampa, radio e televisione si sono trovate invece costrette ad affrontare il tema di giovanissimi cittadini israeliani, ebrei e disarmati, colpiti in maniera quasi mortale da un esercito cui tradizionalmente si attribuisce una funzione difensiva e protettiva.
Il villaggio di Bil’in diventa così al contempo luogo di resistenza ma anche fucina di idee e di nascita di gruppi organizzati che si impegnano quotidianamente nell’azione diretta declinata in molteplici forme, dal sabotaggio della costruzione del muro, dalla lotta antimilitarista contro la presenza dell’esercito nelle terre occupate, dal supporto pratico nei villaggi palestinesi, alla produzione di controinformazione libertaria che passa anche attraverso la denuncia diretta tramite la fotografia, il video reportage, le interviste e la diffusione in ambito internazionale di ciò che i media ufficiali tengono ben nascosto.

Durante la presentazione, il collettivo di fotografi accende il proiettore e fa partire la prima di una serie presentazione di fotografie accompagnate da musica in lingua araba, inglese, yiddish e francese, che illustra proprio il villaggio di Bil’in.

“Gli israeliani devono vedere l’occupazione. È impossibile e inutile raccontargliela. La maggioranza delle persone che ha fatto questa esperienza, che ha visto, ha cambiato totalmente la propria vita. Si sono sentiti chiamati a risponderne personalmente, perché è diventato per loro impossibile non sentire profondamente l’ingiustizia.”
Anche perché per gli israeliani non è facile entrare nella striscia di Gaza dunque, come ci raccontano nel dibattito i due compagni di Activestills, riuscire ad avere contatti con fotografi che invece si trovano sul posto ma che non possono diffondere i loro materiali diventa occasione per collaborare e attivarsi per portare in Israele e in tutto il mondo quello che realmente succede a Gaza, che altrimenti avrebbe scarse possibilità di avere risonanza a livello internazionale.
Scambio, cooperazione, supporto sono la base delle relazioni fra gli individui che compongono il collettivo e con chi entra a contatto con loro e la scelta di non pubblicare fotografie con il nome del singolo fotografo ma sempre con il nome del collettivo veicola un concetto politico importante: ad Activestills non interessa fare belle foto, che vincano premi o che vengano pubblicate sulla stampa nazionale e internazionale, non interessa la carriera professionale, bensì la possibilità comunicativa elevata perché immediata e visiva, intuitiva, di impatto, che una fotografia stimola in chi la fruisce, stimolando sentimenti ed emozioni. – Spesso, ci raccontano Oren Ziv e Yotam Ronen mentre illustrano i loro lavori, la prima reazione delle persone nei confronti delle fotografie attacchinate per le strade di Tel a Viv in maniera di impatto, come fossero una vera e propria mostra d’arte, ha un portato di vergogna che sfocia in atti rabbiosi, in scritte sulle fotografie, nello strappare il materiale dal muro. Ma per loro anche questo è un dato positivo in quanto significa aver raggiunto un duplice obiettivo, la conoscenza della situazione tragica che vivono i palestinesi e il suscitare qualcosa in chi vive a pochi km di distanza, volontariamente ignaro, complice silente, l’orrore dell’occupazione.
“Noi crediamo nel potere delle immagini di plasmare l’opinione pubblica e sensibilizzare sui temi che sono generalmente assenti dal discorso pubblico. Ci consideriamo parte della lotta contro ogni forma di oppressione, di razzismo, e le violazioni del diritto fondamentale alla libertà. Lavoriamo su diversi argomenti, tra cui il movimento e la lotta popolare contro l’occupazione israeliana, i diritti delle donne, l’immigrazione, i richiedenti asilo, la giustizia sociale, l’assedio di Gaza, e il diritto alla casa o problematiche come la disoccupazione in Israele . Il lavoro, come collettivo, si basa sulla convinzione che il mutuo appoggio serva più delle dichiarazioni personali di ogni fotografo, e che i progetti congiunti creeranno rivendicazioni condivise più potenti di quelli individuali.”

Il collettivo, ora composto da dieci fotografi, opera in Israele e in Palestina e si concentra sulla documentazione sociale e politica, nell’ideazione di progetti e nella loro successiva elaborazione in mostre che non si limitano ad essere ospitate in luoghi ufficiali di fruizione, ma che vengono soprattutto attacchinate la notte dai membri del collettivo, come azione diretta, cercando luoghi di alto impatto visivo, scegliendo schemi di composizione logici ad alto potere comunicativo e ordinando le stampe come fossero una vera e propria mostra nelle strade, nei luoghi pubblici vissuti dalle persone, nelle ambientazioni di passaggio e incontro quotidiano. L’opinione pubblica israeliana è monopolizzata ovviamente dai media ufficiali che, asserviti allo stato, diventano sempre più razzisti e violenti. L’impatto di questo cambiamento è evidente nell’esplicitazione sempre maggiore del sostegno pubblico alle violente operazioni militari, alla legislazione razzista e alle politiche discriminatorie.

“Vogliamo sfidare questi cambiamenti con il nostro lavoro. Ogni volta che le nostre foto vengono pubblicate, o nei media mainstream o in canali alternativi, trasmettono messaggi che sfidano l’oppressione e portano la voce dei senza voce e degli inascoltati nell’opinione pubblica. Per questo Activestills utilizza spesso lo spazio pubblico per le mostre, le strade, le case, le pensiline dei mezzi o a fianco ai negozi, al fine di influenzare più direttamente l’opinione pubblica e stimolare cambiamenti di ordine sociale.”

I reportage degli Activestills sono tutti visionabili all’indirizzo web www.activestills.org; il sito è ben organizzato per tematiche, e reportage svolti, con una breve presentazione anche del collettivo e link interessanti. Altro luogo virtuale dove visionare le fotografie del collettivo è http://www.flickr.com/photos/activestills/. La professionalità tecnica dei suoi membri unita all’obiettivo di lotta, di denuncia e di propaganda di idee che sfidano confini, stati, nazioni e mura si sono concretizzati in lavori di foto-reportage notevoli, non solo per la bellezza estetica quanto per il profondo contenuto che emerge attraverso gli sguardi dei fotografati, carichi dell’emozione e della convinzione di chi in quel momento li stava fotografando, delle angolazioni di ripresa di chi sta in prima fila e testimonia la barbarie umana, di chi lotta e per sostenere le ragioni di un popolo oppresso, cercando di guardare al di là della mera immagine, non fermandosi alla composizione estetica, ma ricercando un filtro adeguato e una lente di lettura per veicolare alla società dello spettacolo, che ha chiuso gli occhi, la dura realtà dell’orrore, cosa invece fin troppo visibile e concreta per chi se la vive ogni giorno sulla propria pelle.

Gaia Raimondi

  1. Bil’in è un villaggio palestinese che vuole continuare a esistere, che lotta per salvaguardare la sua terra, i suoi uliveti, le sue risorse e la sua libertà. Lo Stato di Israele, annettendo a sé il 60% delle terre di Bil’in per costruirci il muro di separazione, distrugge questo villaggio ogni giorno, confinando i suoi abitanti in una prigione a cielo aperto. Sostenuti da attivisti israeliani e internazionali, gli abitanti di Bil’in manifestano pacificamente tutti i venerdì davanti al “cantiere della vergogna”. E tutti i venerdì, l’esercito israeliano risponde con il solo uso della violenza fisica e morale. È importante sapere che la situazione di Bil’in rappresenta ciò che accade in tutta la Palestina, un’ingiustizia quotidiana sulla pelle dei suoi abitanti.

* Per contattarci: activestills@gmail.com

La testimonianza di un residente a Bil’in

Suliman Yassin, 69 anni, un residente di Bil’in, descrive a B’Tselem, organo di difesa dei diritti umani, il cambiamento drammatico della sua vita a seguito della costruzione della barriera.
“25 anni fa, ho comprato trenta dunams di terra al limite del mio villaggio… La nostra casa, che è situata al centro del villaggio, è troppo piccola per noi, e noi speriamo di costruire delle case per i nostri figli. Ho lavorato, ho scavato un pozzo, ho accomodato tonnellate di terreno roccioso per piantare e seminare. C’erano 26 ulivi quando l’ho comprata. Ho piantato più di cinquanta ulivi, circa cinquanta alberi di fico, mandorli, e circa 20 vigne. Su una altra parte della terra, un settore di circa 10 dunams, ho piantato dei semi e su 7 dunams ho piantato dei legumi. Quando ho comprato la terra, ho costruito una casa di 5 stanze e una sala da bagno perché ho 12 figli, il più grande ha 43 anni e il più giovane ha 22 anni. Tutti i miei figli sono sposati, e ho circa 30 nipoti. Noi ci sostentiamo con la terra e dividiamo il raccolto… Inoltre, ho acquistato più di cento teste di montoni e di capre che forniscono i prodotti del latte e la carne per la famiglia intera.
Con le entrate, ho comprato un altro pezzo di terreno situato a fianco dei miei campi…
Un anno fa, l’esercito israeliano ha espropriato la maggior parte dei miei campi per costruire la barriera di separazione. Nel febbraio 2004, ho ricevuto un ordine che espropriava 25 dunams.
L’ordine fu una grande sorpresa. Dieci dunams di alberi si ritrovarono nel versante ovest della barriera e non ho avuto più accesso. Tutto ciò che avevo investito è andato perduto…

Né capre né pomodori

Benché mi abbiano preso meno terra rispetto ad altri, ero il solo a perdere la sua principale fonte di sostegno. Non mi restano che 5 dunum sui quali viviamo: la casa di 120 metri quadrati, tre stanze per il bestiame e il pozzo… Ho provato a ripiantare gli ulivi sradicati sulla terra che mi resta, ma sono riuscito solamente a piantarne 15. Ora la barriera è alle ultime tappe di costruzione. Numerose manifestazioni hanno avuto luogo vicino alla mia casa che si trova a circa 20 metri dalla barriera. Un buon numero di gas lacrimogeni e di granate assordanti sono stati lanciati nella mia casa, e i proiettili veri o di gomma-acciaio hanno colpito i muri e le finestre della mia casa. Le pietre gettate dai manifestanti sono anch’esse finite all’interno della nostra casa.
Due mesi e mezzo fa, mio figlio Muhammad, che ha trent’anni, è stato ferito alla testa dall’involucro metallico dei gas lacrimogeni. Anche il mio bestiame è stato colpito dagli spari dell’esercito. Da marzo scorso, 30 delle mie capre sono morte. Nel novembre 2004, ho piantato dei pomodori, ma non ne ho raccolto nemmeno uno perché i soldati hanno danneggiato tutto il raccolto marciandoci sopra. Hanno inoltre distrutto più di 200 teste di cavolfiori, un quarto di dunam di aglio, la metà di un dunam di cipolle e un dunam e mezzo di fagioli. Io e i miei figli non abbiamo più un futuro da quando hanno preso la mia terra. Sono diventato povero perché non ho che 30 fra montoni e capre e ho iniziato a vendere anche il bestiame. Prima, il bestiame aveva a disposizione grandi spazi di terra, ma ora è confinato e io devo acquistare del foraggio. Sento il bestiame gemere e comprendo la loro frustrazione, così come capisco quella di una persona imprigionata e che non può uscire. Sono totalmente abbattuto per questa situazione. Alcuni dei miei figli che vivevano con me sono partiti. Altri erano già andati via prima che il Muro fosse costruito, perché non potevano costruire delle case sulla nostra terra che è nel settore C.

Quelle telecamere che ci spiano in casa

Altri come Marzuq, che viveva con me, ha abbandonato la casa in ragione delle continue manifestazioni in prossimità della nostra abitazione e dell’assillo dei soldati. Nel passato, la mia famiglia si ritrovava nella mia casa per mangiare insieme e per passare il tempo e i bambini giocavano. Ora ci siamo persi. Solo, mio figlio Taysir e la sua sposa e due miei nipoti che si sposeranno presto, restano in casa. Nel passato, in questo periodo, fertilizzavo la terra, poi, due mesi dopo, seminavo grano e orzo e facevo pascolare il bestiame. Quest’anno non ho potuto fare niente di tutto ciò. Non solamente la barriera ha deteriorato la nostra vita, ma ha ugualmente distrutto la nostra intimità. L’esercito ha installato delle telecamere per sorvegliare la barriera. Queste camere riprendono tutto ciò che succede, ogni singolo movimento, mio e della mia famiglia.
Se la notte devo andare al bagno – che è esterno all’abitazione - una pattuglia dell’esercito viene a verificare ciò che succede. Circa un mese fa, ho dimenticato un sacchetto di grano accanto alla barriera. Le jeep dell’esercito hanno fatto irruzione in casa mia alle 20h30 e i soldati mi hanno obbligato a uscire di casa per andare a verificare cosa fosse contenuto in quel sacco. La nostra vita è diventata un inferno. Mi sento umiliato e impotente”.

Suliman Yassin