Rivista Anarchica Online


Iran

La supremazia del sacro
di Antonio Cardella

Uno sguardo all’ultimo mezzo secolo di storia iraniana, dallo Scià ad Ahmadi-Nejad, e alle mille questioni aperte.

 

Alla fine degli anni Sessanta (la data precisa non la ricordo più, ma sono passati oltre quarant’anni) il direttore del settimanale al quale allora collaboravo mi chiese di partecipare ad una conferenza stampa indetta da un singolare religioso iraniano, esule da tempo a Parigi dove anch’io occasionalmente mi trovavo per altre ragioni. L’appuntamento era all’Hotel Wilson, un alberghetto a conduzione semifamiliare a due passi dalla Gare Saint Lazare.
La sala, piccola, era già pregna del fumo delle sigarette incenerite da una trentina di ospiti tra i quali era difficile distinguere i giornalisti autentici e gli inviati dei servizi segreti francesi e dell’area medio-orientale (Emirati arabi, sauditi, israeliani). Dopo alcuni minuti di attesa, da una porticina laterale apparve un venerando, di statura media, con una folta barba bianca che gli copriva l’intero viso, lasciando spazio solo a due occhi chiari e mobilissimi che si soffermarono brevemente ad osservare gli astanti. Prese posto dietro ad un tavolo che mal si coniugava con il resto dell’arredamento e, piegando leggermente il dorso per avvicinarsi ad un microfono di foggia antica, prese a parlare con voce pacata.
Dopo i ringraziamenti di rito per gli intervenuti, il religioso prese a parlare della condizione disgraziata del suo popolo, umiliato da una monarchia dispotica e repressiva sorda ai reali bisogni della gente e pronta a reprimere con ogni mezzo qualsiasi forma di dissenso. Tutto ciò, comunque, a suo avviso, non sarebbe durato a lungo. I movimenti avversi a Reza Pahlevi conquistavano ogni giorno nuovi consensi e la rivolta popolare era alle porte. Parlava un francese corretto ma esoticamente aspirato e nelle pause cercava di carpire le impressioni che il suo discorso produceva sugli ascoltatori.
Qualcuno dall’ultima fila delle sedie gli chiese cosa sarebbe successo dopo l’eventuale esito favorevole della preconizzata rivoluzione e a me parve che la domanda fosse prevista se non addirittura preventivamente preparata, perché il nostro ospite non prese neppure fiato per descrivere il futuro prossimo dell’Iran. Disse che esisteva già un largo consenso per l’instaurazione di una repubblica islamica, guidata da un consesso di saggi, esperti dei dettami coranici sui quali si sarebbe basata una nuova costituzione. Insomma, mutatis mutandis, una rivisitazione riveduta e corretta della vagheggiata repubblica di platonica memoria, con i religiosi al posto dei filosofi.
A me parve il vaneggiamento innocuo di un esule che preconizzasse un suo ritorno in patria da paladino dei giusti. Allora si sapeva poco della Persia se si faceva eccezione per i fasti della corona, la bellezza della moglie dello scià, Soraya, e delle esili ballerine portatrici di vino che simboleggiavano l’avvento della sapienza e della saggezza. Sebbene il trono avesse qualche scricchiolio, non sembrava che ci fosse un sollevamento popolare dietro l’angolo.
Telefonai così al mio committente, avvertendolo che avrei potuto tutt’al più scrivere un pezzo di costume piuttosto che un articolo politico. Naturalmente avevo torto, e sarebbero passati meno di dieci anni prima che quell’uomo assumesse la guida suprema di una repubblica islamica così puntigliosamente descritta in quella fumosa saletta dell’Hotel Wilson.
Torniamo, comunque, all’attualità.

La struttura del potere, oggi

Districarsi nella complessa struttura di potere dell’Iran dei nostri giorni, è tutt’altro che semplice.
Al vertice della piramide c’è la figura della Guida Suprema eletta da una Assemblea degli esperti, costituita da 86 religiosi, che si riunisce di norma una volta l’anno. La Guida Suprema controlla direttamente i servizi segreti, la polizia, le forze armate, le milizie islamiche (destinate prevalentemente a presidiare i territori non-metropolitani), le trasmissioni radio e televisive, le Fondazioni e le moschee, oltre ad avere il potere di nominare e revocare i vertici dell’ordinamento giudiziario. Attualmente la massima magistratura della repubblica è l’ayatollah Khamenei, succeduto all’ayatollah Khomeini. Al voto popolare è affidata la scelta del Presidente della Repubblica e dei 290 membri del Parlamento.
Vi è poi il Consiglio dei guardiani della rivoluzione, che è il custode della costituzione e verifica, con diritto di veto, la conformità ai dettami della sari’a degli atti legislativi approvati dal Parlamento.. Ha anche il compito di verificare l’ammissibilità di tutte le candidature alle cariche elettive, del Presidente della Repubblica e dei parlamentari. A lungo ne è stato presidente un personaggio di spicco della repubblica, Ali Akbar Ashemi Rafsanjani. Infine vi è il Consiglio per i pareri di conformità, organo consultivo nominato dalla Guida Suprema, deputato a dirimere le eventuali controversie tra il Parlamento e il Consiglio dei guardiani della rivoluzione.
Ho insistito nel descrivere l’organigramma del potere nell’Iran contemporaneo perché da una sua attenta lettura emerge con chiarezza la dicotomia che è palese non soltanto nella coniugazione dei poteri istituzionali, ma attraversa trasversalmente l’intera società iraniana, la dicotomia cioè tra religiosità e laicismo, tra conservatori più o meno integralisti e riformisti. C’è, insomma, nella costituzione khomeinista, l’esigenza di affermare una supremazia del sacro sul profano senza però trascurare la forte componente laica che resiste e si alimenta almeno della caduta della monarchia dei Pahlevi.
Questa duplice anima trova un suo punto di riferimento nell’elezione a Presidente della Repubblica di Mohammad Khatami, un’elezione quasi plebiscitaria a seguito di una campagna elettorale basata sul l’ammodernamento del Paese, sulla progressiva eliminazione delle abissali differenze sociali e, in politica estera, una minore intransigenza nei rapporti con l’Occidente e il resto del mondo arabo. Gli otto anni (1997-2005) del governo Khatami furono anni tormentati, con un costante sabotaggio delle iniziative legislative che miravano a concretizzare il suo programma, da parte di un clero che non si rassegnava a perdere quote di potere e che temeva una progressiva laicizzazione dell’Iran. Tuttavia lo schieramento riformista non perse mordente e nelle elezioni del 2005 sostenne la candidatura – che tutte le previsioni davano per vincente – a Presidente della repubblica di Akbar Hasheni Rafsanjani, un moderato che avrebbe potuto raccoglier il testimone di Khatami.
Le cose andarono diversamente e a prevalere fu Ahmadi-Nejad, un conservatore islamico integralista che vinse grazie all’appoggio degli strati più poveri della popolazione, frustrati per non aver ricevuto benefici significativi dal governo progressista di Khatami.
Ahmadi-Nejad cavalca le istanze della parte più intransigente del clero sciita, alza il livello della repressione nei riguardi dei suoi oppositori politici e occupa progressivamente con i suoi uomini tutti i punti strategici del potere. In politica estera ritorna ad un atteggiamento intransigente nei riguardi dell’Occidente e di guerra santa contro Israele, cavalca il nucleare, moltiplicando i centri di arricchimento dell’uranio e giocando a rimpiattino con l’Agenzia internazionale per l’energia nucleare, l’organismo che controlla da Vienna il rispetto del trattato di non proliferazione delle armi nucleari, trattato al quale l’Iran ha aderito sin dal 1967.
In realtà, la pretesa di affermarsi come potenza regionale, in un Medio Oriente lacerato, obbliga l’Iran a pareggiare i conti con i paesi (a lui ostili) che l’arma nucleare già la posseggono.Teoricamente (ma non soltanto) India, Pakistan e soprattutto Israele possono attaccare già oggi l’Iran con armi di distruzioni di massa ed è quindi comprensibile che gli ayatollah pensino di mettersi in pari.
Se si guarda una carta geografica, si vedrà che la maggiore concentrazione di centrali per l’energia atomica e per la produzione di armi chimiche e biologiche è realizzata: alle soglie del deserto del Kavir (Panchir, Teheran), sulla dorsale che dai confini con l’Armenia (Bonab e Tabriz) giunge sino al Golfo Persico (Bushehr) e, risalendo a nord, sulle coste del Golfo Persico (Chalus e Neka), altra area che è considerata vitale per lo sviluppo dell’Iran nei prossimi decenni.
Naturalmente queste indicazioni sono tutto quel che sappiamo, perché negli ultimi anni altri siti sono stati attivati, di cui conosciamo poco o nulla.

Nuovi assetti geopolitici

Altro fronte sul quale l’Iran è impegnato è l’evoluzione in atto dell’area del Caspio.
Sino al collasso dell’Unione Sovietica il Caspio era un problema che riguardava soltanto Russia e Iran. Con la disintegrazione dell’URSS e l’emergere di nuovi Stati indipendenti sulla scena del Caspio l’importanza geopolitica dell’area è andata via via crescendo, anche e soprattutto per i giacimenti petroliferi e di gas che il bacino possiede. Tuttavia il groviglio di interessi che emergeva e che riguardava, oltre la Russia e l’Iran, l’Azerbaigian, il Kazakistan e il Turkmenistan, ebbe una sua prima risoluzione nel 1992, per iniziativa proprio dell’Iran, che culminò nella Caspian Sea Corporation Organization. In questa prima riunione degli Stati rivieraschi, tenutasi a Teheran, si concordò che nessuna ulteriore risoluzione che riguardasse il Caspio sarebbe stata presa senza il consenso di tutti. Si arrivò anche a decidere di dividere in settori di rispettiva competenza dei cinque Stati costieri sia i fondali che il bacino idrico, lasciando un corridoio per la libera navigazione.
Ma il problema della spartizione non è il solo che si pone agli Stati interessati. Perché le risorse di idrocarburi possano essere utilizzate debbono trovare soluzione le questioni relative alla raffinazione e allo sbocco a mare degli oleodotti. Così le grandi imprese petrolifere britanniche e statunitensi hanno da tempo investito risorse consistenti negli Stati limitrofi, per mettere il cappello su un’area d’importanza strategica dell’Asia Centrale.
Per quel che riguarda il percorso degli oleodotti, emergono grosse questioni extra economiche e relative alla sicurezza e all’attendibilità dei Paesi di attraversamento, i quali, a fronte di vantaggi economici derivanti dall’ospitare nel proprio territorio tali oleodotti, debbono garantire politiche di sicurezza e di agibilità.
In quest’ottica, l’Iran pone all’Occidente problemi seri, tanto che gli Stati Uniti progettano di bypassare il territorio iraniano con una pipeline che da Baku in Azerbaigian, passando per Tiblisi in Georgia, raggiunge il porto mediterraneo di Ceyhan in Turchia.
Naturalmente questo progetto ha direttamente a che fare con l’embargo che l’Occidente intende accentuare nei riguardi del governo di Teheran e della sua politica nucleare. Se Russia e Cina non dovessero opporsi, come sinora hanno fatto, all’aggravamento delle sanzioni, è difficile ipotizzare per l’Iran vie d’uscita percorribili, anche perché il potere di Ahmadi-Nejad è seriamente in crisi per il crescere delle manifestazioni ostili al suo governo. Anzi, da fonti libanesi attendibili, si sostiene che i pasdaran (forze scelte dell’esercito iraniano) intendono aprire un dialogo con l’opposizione per abbattere il regime e instaurare una nuova politica, sia all’interno con l’accelerazione di programmi di riforme, sia all’estero, con una politica più flessibile con l’Occidente.
Tutto si gioca in un futuro prossimo, nel quale dovranno risolversi questioni assai complesse quali, per dirne unam i nuovi assetti geopolitici che emergeranno dagli esiri della grave crisi che attraversa l’Occidente.

Antonio Cardella