Rivista Anarchica Online


dossier vegan

V per Vita offesa,
V
per Vegan
di Filippo Trasatti e Massimo Filippi

Le ragioni di una scelta di alimentazione e di vita
che ha a che fare con tanti aspetti della nostra vita
individuale e sociale. E con la mattanza di miliardi di animali.

 

Non domandarci la formula
che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca
come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non
vogliamo.

(Eugenio Montale)

Si calcola che circa 50 miliardi di animali passino ogni anno attraverso i vari mattatoi del mondo per essere uccisi, smembrati e trasformati nei pezzi di carne che invadono prima negozi e supermercati e successivamente le nostre tavole. Viste le cifre e visto il fatto che gli animali, al di là di ogni ragionevole dubbio, sono in grado di capire cosa sta succedendo loro, dovremmo concordare che la “questione animale” ha le proporzioni di una tragedia di dimensioni inedite e inaudite. Purtroppo, però, la tragedia finisce, ma non comincia nel mattatoio: prima che scorra il sangue, la sofferenza degli “animali da reddito” è già immensa. Galline ovaiole e vitelli da carne bianca sono costretti per i pochi mesi della loro misera vita alla più assoluta immobilità, i pulcini maschi vengono stritolati vivi appena nati perché inutili per la produzione delle uova, i maiali vivono bloccati in minuscole gabbie di contenzione per allattare i loro piccoli, i pesci, prima di spirare nel silenzio assoluto dell’asfissia, hanno circolato insensatamente nelle vasche di coltura, le mucche da latte sono continuamente ingravidate e private della loro prole …
La lista potrebbe continuare, ma non serve tanto enumerare gli infiniti percorsi che precedono il taglio della gola – che paradossalmente, visto quanto e cosa lo precede, potrebbe essere considerato una sorta di distorto atto di pietà. Piuttosto potrebbe rivelarsi utile tentare di immaginare che cosa provino degli esseri dotati della capacità di sofferenza fisica e psichica mentre percorrono il tunnel dell’orrore che per loro abbiamo apprestato: esseri indifesi a cui vengono, senza anestesia né compassione, strappati denti, becchi, code, testicoli per far sì che non si amputino da soli nell’inferno della loro desolazione e che vengono riempiti di antibiotici e steroidi perché ingrassino rapidamente e non muoiano prima del tempo stabilito dalla catena di smontaggio; esseri condannati a morte che, senza capirne il motivo, vengono caricati a botte sui camion che percorrono le nostre autostrade diretti al mattatoio...

Nessuna setta segreta

Il veganismo è una risposta a tutto questo; il veganismo dice ciò che non siamo e ciò che non vogliamo. Anche se i termini “vegano” e “veganismo” non aiutano, perché restituiscono un’immagine da alieni appartenenti a sette e confraternite segrete, essi hanno tuttavia un’importante ragione difensiva e distintiva: servono a chiarire che i vegani non sono vegetariani i quali, di fatto, mangiano qualcosa che vegetariano non è (latte, uova e derivati che, come si è visto e a differenza di quanto comunemente si crede, non escludono sofferenza e morte animali). C’è poi un’altra differenza fondamentale tra vegani e vegetariani che, semplificando un po’, potrebbe essere riassunta così: i vegetariani si ricordano (parzialmente) degli animali quando si siedono a tavola, mentre i vegani se ne ricordano sempre. Gli animali infatti non vengono sfruttati solo a scopi alimentari, ma pressoché in ogni aspetto della nostra vita: dall’abbigliamento (capi in lana e in pelle e pellicce) al divertimento (circhi, zoo, delfinari, caccia, pesca, fiere, palii, ecc.), passando per i test di valutazione dell’efficacia e della sicurezza di varie sostanze (ricerca scientifica, cosmesi, ecc.). Il termine vegano è poi ulteriormente necessario in quanto quello di vegetariano ingenera le più stravaganti confusioni; ad esempio, c’è chi pensa che i vegetariani mangino pesce, perché in realtà nel nostro immaginario l’opposizione dirimente sembra essere quella carne/non carne (ma i pesci se non sono carne, di che materia son fatti?). Pertanto, anche se il veganismo si connota come negazione dell’onnivorismo e del vegetarianismo, esso è una negazione caratterizzante, come suggerisce Montale nei versi posti in esergo.
Da questa confusione, che certamente il sistema non ha interesse a chiarire, discendono anche le domande e le preoccupazioni spesso condite in salsa pseudo-scientifica (medici di base che strabuzzano gli occhi ogni volta che vedono le analisi del sangue e chiedono increduli: «Ma lei è davvero vegano?») oppure paternalistiche e scandalizzate (per tacere di quelle completamente stupide e volutamente provocatorie al fine di giustificare l’insostenibile: ad es., «Ma anche Hitler era vegetariano» – cosa tra l’altro, oltre che ininfluente, falsa, oppure: «Anche l’insalata soffre» o, ancora, «Ma i leoni mangiano le gazzelle!») su come sia possibile vivere senza mangiar carne ossia senza sacrificare animali. Ma noi che stiamo scrivendo queste righe siamo vegani da diversi anni e verosimilmente vivi: scriviamo dunque siamo!
Ci sono però altre due negazioni del veganismo capaci di suggerire una visione del mondo affermativa. Per chiarire questo punto è prima necessario rendersi conto che chi ha deciso di diventare vegano per motivi etici è necessariamente antispecista e un antispecista non può che essere vegano. L’antispecismo è quella corrente di pensiero che rifiuta la pregiudiziale e sistematica violazione degli interessi degli animali a favore di quelli degli umani – visti come esseri che occupano il centro del mondo – tipica appunto dello specismo. Se veganismo etico e antispecismo sono indissolubilmente associati, la prima negazione di cui si è appena parlato è quella che afferma che il veganismo antispecista è necessariamente anti-gerarchico.
Se l’umano, come ci ricordano, tra gli altri, Adorno e Derrida, si è sempre definito come opposizione, negazione e distinzione dagli animali non umani ricondotti a forza in un già violento “singolare collettivo” (cioè “l’animale”: ma cos’è l’animale? Può esistere qualcosa che risponde al nome di animale al di fuori della nostra delirante onnipotenza discriminatoria?), l’antispecismo, nel momento stesso in cui guarda in maniera differente ai non umani, necessariamente deve riformulare anche la nozione di umano. È proprio in questo snodo cruciale che l’antispecismo si differenzia definitivamente dalle ideologie, edipiche direbbe Deleuze, borghesi diciamo noi, che cadono sotto i termini di zoofilia e protezionismo. La zoofilia accorda un differente trattamento solo per il “mio” cane e il “mio” gatto, protegge cioè affetti privati se non addirittura oggetti di proprietà. Il protezionismo è pietoso nei confronti degli animali, ma la pietà, si sa, può essere concessa solo dal più forte, da chi sta più in alto, grazie alla propria (non esigibile) benevolenza e con mossa francamente paternalistica. Per questo motivo, i protezionisti non sono vegani (quando i miei interessi si fanno troppo forti, la pietà può aspettare) o, i pochi che lo sono, pensano che per risolvere la “questione animale” basti sostituire il tofu alla carne sui banconi del supermercato.
Al contrario, l’antispecismo, se vuole essere quello che è, deve necessariamente prender congedo dall’antropocentrismo e, con esso, da tutte le dottrine filosofiche dominanti che lo hanno promosso e sostenuto, così come dalla struttura sociale che di quello si è nutrita trovando in esso la sua giustificazione “naturale”. In questo senso, l’antispecismo si differenzia dal pensiero ecologista e da quello della decrescita, felice o meno che sia. Ecologia e decrescita continuano a pensare solo all’uomo, cercano di preservarne l’ambiente indipendentemente dagli interessi di individui di altre specie (anzi spesso a svantaggio, si veda, ad es., la caccia di selezione), pensano che la soluzione del disastro etico-sociale-ambientale che abbiamo di fronte si possa limitare a ripulire un po’il mondo, a consumare un po’di meno, lasciando tutto il resto immodificato.

Il capitalismo nasce specista

L’antispecismo, rimettendo l’uomo nel luogo che gli compete, cioè considerandolo animale tra gli altri animali, non può che condurre a un profondo e rivoluzionario ripensamento dell’esistente. E poiché ciò che rende un animale un animale è la possibilità di muoversi e poiché questa non può che associarsi alla capacità di provare piacere e dolore, di sentire (che senso avrebbe, evoluzionisticamente, il muoversi nell’ambiente senza la possibilità di sentirlo, di cercare ciò che è utile e di rifuggire ciò che è dannoso, o, meglio ancora, quanto più insensato – di quanto già non sia – sarebbe il mondo se ad esseri capaci di provar dolore fosse negata la possibilità di allontanarsene?), rimettersi tra gli animali corrisponde all’accettazione del fatto che con loro si condivide la vulnerabilità e la mortalità, con loro si com-patisce, per loro si prova com-passione (che quindi è ben diversa dalla pietà) proprio perché si sostituisce ad una metafisica spiritualistica e gerarchica, un’ontologia orizzontale e molteplice che si accompagna ad una politica che fa del mutuo soccorso – e non della competizione e dell’aggressione – il suo perno centrale.
La seconda negazione affermativa: il veganismo antispecista è necessariamente anticapitalista. Non vi è dubbio che il capitalismo abbia a che fare con l’animalità soggiogata a partire dal suo stesso nome (da caput, capo di bestiame). Il capitalismo moderno nasce in Inghilterra con l’appropriazione e la recinzione (le cosiddette enclosures) di terre comuni. Tale fenomeno stravolse completamente il modo di fare agricoltura con l’intensificazione dello sfruttamento dei lavoratori, del terreno e degli animali, tra cui le “pecore da lana”, su cui si costruiranno le fortune dell’industria manifatturiera britannica. L’uomo, tuttavia, ha iniziato a “vedere” gli animali come risorsa economica già a partire dalla rivoluzione neolitica. Subito dopo l’ultima glaciazione, circa 10.000 anni fa, alcune popolazioni nomadi del Medio Oriente si organizzarono progressivamente in gruppi stanziali, andando a costituire il nucleo di quelli che saranno le città-stato prima e gli imperi sovranazionali poi. La gestione della nuova complessità sociale, caratterizzata dalla specializzazione delle attività lavorative, comportò, tra l’altro, la nascita di classi improduttive (nobili, sacerdoti, funzionari, soldati, ecc) e, con essa, di una rigida gerarchia accompagnata dalla necessità di reperire il surplus di energia necessario a mantenere in vita un organismo tanto dissipativo. Questo, a sua volta, si tradusse nella messa a punto di un sofisticato sistema di regole materiali e simboliche volte a distanziare l’uomo dalla natura al fine di controllarla e manipolarla per renderla massimamente produttiva. Il momento più importante di questa impresa di innalzamento dell’umano è stato l’addomesticamento degli animali. Gli animali addomesticati verranno così a costituire la prima forma di beni mobili, di capitale; da allora, saranno una sorta di proto-denaro, che a sua volta ha amplificato in un tragico feed-back positivo sia la loro che la nostra oppressione. Ecco allora che se guardiamo da questa prospettiva la storia della civiltà, ci appare evidente che lo specismo è il presupposto storico dei rapporti di dominio intraspecifici: senza lo sfruttamento materiale degli animali non sarebbe stato possibile creare quel differenziale di ricchezza che sta alla base delle società discriminatorie e, senza la riduzione simbolica dell’animale, non sarebbe stato possibile formulare quei meccanismi ideologici di riduzione dell’Altro a “mera natura”, a “quasi animale”, meccanismi che ne rendono possibile, nel migliore dei casi, l’emarginazione e, nel peggiore, l’eliminazione fisica fino al genocidio.
Il che non significa affatto che l’antispecismo si confonda col primitivismo, con il ritorno a una edenica, quanto inesistente natura primordiale. Si tratta però, se si vuol davvero essere radicali, di tornare alla radice del problema dello sfruttamento animale che è intrecciato allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. E quindi di ribadire incessantemente che il veganismo antispecista è dentro una teoria e una pratica della liberazione animale (di umani e altri animali) dallo sfruttamento.

Sacrificio quotidiano di miliardi di animali

Con questo discorso può sembrare che ci siamo spinti troppo lontano. Ma nella vita di tutti i giorni, dietro a gesti che sembrano ormai completamente secolarizzati nel mondo della merce (e questo in fondo è proprio il mistero della merce), si celano mitologie che riportano al sacrificio, alla morte propria e a quella dell’altro, alla potenza dell’inumano. E la verità nascosta si rende evidente dichiarando il proprio aperto rifiuto del sacrificio animale. Ecco perché la scelta vegana, al contempo rivoluzionaria e nonviolenta, ci colloca immediatamente dalla parte dei traditori, di coloro che non consumano insieme agli altri al banchetto comune. Sappiamo bene che è difficile scorgere nella normale vita quotidiana la violenza terrificante di gesti arcaici, raffinati alle luce delle più raffinate tecniche moderne, ma è la banalità del male quotidiano che, ormai dovremmo saperlo, si annida nei gesti minimi, nelle pieghe del discorso, nello sguardo distolto. Nel piatto che ci apprestiamo a consumare.
Per chi vuole sapere cosa si nasconde dietro il favoloso mondo della carne – il sistematico massacro della carne del mondo – non dovrebbe essere difficile scoprirlo. L’abominio strutturale del sacrificio quotidiano di miliardi di animali per le diverse forme di sfruttamento umano può essere scorto nelle sue linee essenziali, nei suoi crudi dati statistici ed economici, anche se comprenderlo è davvero altra cosa, intollerabile al di là di ogni dire. Anche perché, come si diceva, lo sfruttamento e la sofferenza animali sono inestricabilmente connessi, sono consustanziali, allo sfruttamento e alla sofferenza umana – non a caso, quindi, l’alimentazione carnea dissipa risorse contribuendo ad un’iniqua distribuzione delle ricchezze e alla fame nel mondo, distrugge l’ambiente tramite deforestazioni e aumento dell’effetto serra, ecc.
Certo le cose non sono, né potrebbero essere del tutto trasparenti. I mattatoi e i laboratori di sperimentazione animale sono sigillati allo sguardo. Noi non crediamo a quel che talvolta si dice che se i mattatoi fossero trasparenti, si smetterebbe di mangiar carne. All’inizio forse, ma poi, se non si è acquisita una nuova prospettiva e direzione di sguardo – lo sguardo che si lascia guardare dall’altro e non lo sguardo dall’altrove – si tornerebbe comunque a distoglierlo, come continuiamo a fare quotidianamente davanti alle mille vicende intollerabili che attraversano la nostra strada. Forse è questa l’unica differenza qualitativa tra l’uomo e gli animali: noi siamo capaci di abituarci a tutto – le guerre e Auschwitz lo dimostrano abbondantemente. In effetti, per millenni e ancora oggi i contadini hanno continuato a nutrire amorevolmente e altrettanto amorevolmente a sgozzare la scrofa Paolina, l’oca Martina e la mucca Carolina, proprio perché hanno potuto continuare a non vederle e a non lasciarsi vedere da loro, relegandosi all’interno del credo ideologico-religioso che i mondi umani e animali si trovino su piani ontologicamente diversi, che noi si sia spirito e loro materia. E ciò che sta in basso, come insegna Adorno, attira l’aggressione. E l’aggredito così come chi si erge a difenderlo sono spesso fatti bersaglio di quella che Horkheimer e Adorno hanno chiamato la «risata cattiva», quella che «ha denunciato in ogni tempo la civiltà» e che spesso aleggia sul volto dei patriarcali e paternalistici mangiatori di salame alla vista di un vegano. O di quelli che sono disposti anche a una parola buona ma che, sogghignando, affermano: «Sì, forse hai ragione, ma è così buono…».
Il primo scopo del veganismo, certo, è l’abolizione dell’allevamento e della manipolazione tecnica di miliardi di animali destinati al mattatoio e alla tavola. Anche se in realtà, come abbiamo accennato qui, c’è molto di più (come se questo primo compito non fosse già di per sé immane), ma la prima mossa per smarcarsi da questo sistema è optare per una vita vegana. Questo è fattibile da subito ed è dovuto solo a noi stessi – la situazione è chiaramente differente per altre pratiche di sfruttamento animale, quali la vivisezione, dove il nostro volere non si traduce immediatamente in una riduzione della sofferenza: si tenga conto che è stato calcolato che una persona se diventa vegana in età adulta “salva” circa 1500-1700 animali! E qui si intravede un altro aspetto affermativo della negazione del veganesimo. Infatti, come ci ricorda Günther Anders: «Liberarsi dell’infelicità che può essere eliminata è più urgente della discussione sulla felicità». Anzi, a ben vedere, «la discussione sulla felicità» è la modalità con cui l’esistente, distogliendo l’attenzione dall’«infelicità che può essere eliminata», perpetua l’oppressione. Ossia è più utile sapere cosa non siamo e cosa non vogliamo oggi, piuttosto che impegnarsi, con piglio accademico, a definire cosa saremo e cosa vorremo domani.
Quando si parla di una visione radicalmente differente ci si riferisce spesso sprezzantemente a un supposto utopismo interpretato come impotente aspirazione all’impossibile. Noi invece quando parliamo di utopia, parliamo di un immaginario utopico che si introduce nella realtà e cambia il nostro modo di vedere i limiti tra il possibile e l’impossibile. Il mondo del possibile si dilata. La funzione utopica è opposizione all’ordine dominante, apertura di strade del tutto nuove a partire da un rovesciamento del presente. Per dirla con Bloch: è nell’oscurità dell’istante vissuto che la funzione utopica, negando ciò che è, apre il cammino a ciò che può essere, sfuggendo all’immobilità del presente: «Nel presente c’è una sorta di slancio ininterrotto, una gestazione e a un’anticipazione di non-ancora-divenuto». Sta a noi coglierne i segni e andare in quella direzione. È un compito difficile? Pensiamo di no ma, anche se lo fosse, perché mai gli anarchici dovrebbero spaventarsi di fronte a compiti difficili?

Filippo Trasatti e Massimo Filippi