Rivista Anarchica Online


riflessioni

Eravamo 220, insisteva Marek Edelman
di Pietro Ferrua

Ha vissuto per intero la tragica storia del ghetto di Varsavia e ne è stato uno dei pochi sopravvissuti. La vicenda di Marek Edelman, morto recentemente.

 

A proposito dell’impresa di Sapri concepita da Carlo Pisacane, il Poeta (1) ci ricorda: “Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti” . Pare fossero meno ma l’aedo fu generoso. Per il Ghetto di Varsavia, Marek Edelman, intrattenendosi con un intervistatore che voleva, come l’autore della “Spigolatrice di Sapri” farne crescere il numero, ribadí, “eravamo duecentoventi”. Parafrasando aggiungeremo che, però, non son “tutti morti”. Lui , unico superstite dei cinque dirigenti partigiani del battaglione ebreo del “Bund” (2) e uno dei sei sopravvissuti all’ultimo rastrellamento e all’incendio del ghetto, ha osservato il silenzio per oltre sessant’anni, in parte per le sue scarse doti di oratore e di cronista, ma anche perché quasi vergognoso di essere rimasto inspiegabilmente vivo, per un fortuito concorso di circostanze.
A Liberazione avvenuta, viene considerato un eroe e tartassato di domande da giornalisti e storici. Vogliono almeno triplicare il numero dei militanti, desidererebbero farne una figura di primo piano, ma lui si schiva. Diventa cardiologo e continua a fare delle scelte. Da buon laico dice:” il Padreterno è pronto a spegnere la candela ma io devo subito proteggere la fiamma approfittando di una sua distrazione, affinché la fiamma arda un po’ piú a lungo che lui non l’avrebbe desiderato. Ciò è importante perché lui non è davvero giusto. Inoltre è cosa appassionante perché quando funziona vuol dire che lo abbiamo buggerato”. Gli si fa notare che assume un certo tono di arroganza nel suo dire, e Marek incalza “Mettiti nei miei panni, quando uno ha accompagnato tanti esseri umani verso il forno crematorio, rimangono dei conti da sistemare con Lui. Mi son passati tutti davanti (ero davanti al cancello) dal primo all’ultimo. Tutti, 400.000 persone sono sfilate davanti a me”.

Sofferenze indicibili

Nato a Varsavia nel 1921 sin da giovane aderisce al Bund. Nel settembre del 1939 assiste all’invasione nazista della Polonia. Quasi immediatamente ha inizio la campagna antisemita da parte tedesca. Il 4 ottobre dello stesso anno la Gestapo impone la creazione di un Consiglio Ebraico (Juderat) che dovrà eseguire gli ordini dell’occupante. Il 15 novembre 1940 viene isolato il Ghetto di Varsavia ove si rinchiudono tutti gli ebrei della capitale, ai quali si aggiungeranno poi quelli provenienti da altre province, mentre i cristiani che abitavano in quel rione vengono fatti sfollare altrove. In un censimento del maggio 1941 risultano presenti 430.000 persone.
Le sofferenze di questa popolazione sono indicibili. Prima viene decimata da un’epidemia di tifo, poi sopravviene la tubercolosi, infine altre migliaia di vittime muoiono di fame, col macabro risultato positivo del progredire degli studi sui decessi dovuti all’inedia nei quali la Polonia si “distingue”potendo appunto praticare autopsie su oltre tremila cadaveri. A questi morti vengono a sommarsi quelli delle deportazioni a Treblinka. Membri del Sindacato dei Ferrovieri si accorgono che un treno merci quotidiano lascia il ghetto con diecimila viaggiatori e ritorna vuoto. Nessun altro convoglio parte in giornata con viveri. Quest’assenza di vettovagliamento suggerisce subito una deduzione logica: i prigionieri sono immediatamente soppressi.
Il grido d’allarme giunge nel ghetto e suscita reazioni diverse. Da una parte quella dell’ing. Adam Czerniakov, presidente del Consiglio Ebraico, che si suicida non volendo essere responsabile delle scelte di chi dev’essere deportato e chi protetto. Il ricorso all’autoimmolazione diventerà endemico e i medici ebrei forniscono pastiglie di cianuro da tenere in serbo se si cade in una retata. Dall’altra quella della fuga individuale “comprando” la libertà, tramite intrallazzi vari, ma questa scelta non era data a tutti. anzi, riservata a pochi ricchi ben piazzati. Rimaneva l’opzione della rivolta, dibattuta in seno a tutti i movimenti di sinistra, ma sempre scartata data l’inesistenza di armi.

Azioni dimostrative e di rivolta

Dopo il gran rastrellamento del luglio 1942 e il suicidio di Czernakov, Edelman a i suoi compagni di partito inviano appelli un po’ ovunque. Dalla zona ariana di Varsavia i messaggi vengono telegrafati a Londra e in altre capitali ove risiedano membri della diaspora ebraico-socialista. La BBC trova le notizie partigiane poco attendibili talmente paiono esagerate. Fanno le loro verifiche e appurano le tremende verità ma le notizie sono trasmesse dalla Voce di Londra con un mese di ritardo. Per fortuna la solidarietà polacca si fa sentire, sia negli ambienti comunisti “ariani”, sia da parte cattolica: i conventi dei Domenicani e quello delle Carmelitane Scalze accolgono i militanti di passaggio, li sfamano, li ospitano e permettono il transito di armi destinate al ghetto per l’autodifesa.
Marek Edelman, assieme ad altri quattro dirigenti, fonda il Comitato Ebraico di Difesa nell’ottobre del 1942. In dicembre le prime armi giungono come regalo delle formazioni comuniste: 10 rivoltelle, poche cartucce, qualche granata. Ma due ingegneri si recano nella zona ariana da uno specialista che insegna loro a confezionare bottiglie incendiare con materiale rudimentale a basso costo. Le prime azioni sono interventi di rappresaglia contro i poliziotti ebraici collaborazionisti, scoraggiando gli altri a fare la spia. Il Bund, ormai alleato ad altre formazioni politiche ebree all’interno del ghetto e “ariane” all’esterno, si prepara ad azioni dimostrative e di rivolta.
Il 18 gennaio 1943 i nazisti danno inizio ad un rastrellamento, ma su cinquanta gruppi di combattimento del ghetto solo cinque riescono ad intervenire, quanto basta, comunque, ad ottenere una ripercussione soprattutto psicologica sui nazisti, che non s’aspettavano ad una reazione e devono interrompere il rastrellamento (3).
Nel febbraio del 1943 viene incendiata una fabbrica tedesca nel ghetto e il mese seguente saltano in aria alcuni vagoni tedeschi. Ormai le tradotte verso Treblinka non partono piú: nessuno si presenta malgrado gli allettamenti di pane e marmellata, la promessa di un lavoro fisso, ecc… I partigiani adottano inoltre una nuova strategia che consiste nel liberare , con audaci colpi di mano, coloro che erano stati arrestati nel corso di un rastrellamento. Se da una parte la solidarietà nazionale e internazionale aumenta (nel 1943 vengono sottoscritti 3 milioni di zloty e migliaia di dollari vengono paracadutati nel ghetto, per l’acquisto di armi e alimenti nel mercato nero della zona ariana di Varsavia)la repressione diventa piú sistematica ed accanita e si conclude, il 1° maggio 1943 con l’incendio totale del ghetto.
Mentre alcuni combattenti si suicidano Marek Edelman, assieme ad altri cinque, si salva attraverso le fogne, spostandosi faticosamente nella melma, che giunge loro sino all’altezza delle labbra (e che a volte devono trangugiare). La sua odissea ispira ad Andrzej Wajda il capolavoro Kanal. Il Ghetto di Varsavia ispirerà anche un altro capolavoro, Il Grande Dittatore di Charlie Chaplin.

Decisioni estreme

La guerra non è finita. Le truppe sovietiche sono accampate sull’altra sponda della Vistola, ma i tedeschi occupano ancora la capitale e i russi, chissà perché, non si decidono ad attaccare. Marek Edelman è nascosto da qualche parte ma riappare per la battaglia finale. Se Edelman è scampato a tutti i pericoli, qualche spiegazione c’è. Intanto, perché durante quasi tutte le vicende, prima di indossare un maglione rosso e delle bretelle con appese due rivoltelle e una cartuccera, portò sempre il camice bianco del medico ( pur non essendolo ancora) col bracciale ebreo, ma anche col cartoncino lasciarpassare rilasciato dal comando tedesco. Il Bund e il Consiglio Ebreo del Ghetto lo avevano designato a tale posto. I nazisti avevano consegnato diecimila di questi tesserini e il Consiglio era incaricato di concederli a coloro che fossero idonei a lavorare nelle fabbriche tedesche oppure rivestissero mansioni sanitarie o logistiche.
Marek scrutava gli arrestati e aveva il potere di salvarne alcuni. Il che voleva dire lasciar partire gli altri verso l’ignoto e, come presto si seppe, verso una morte certa. Questo pericolo lo corse anche lui, piú di una volta, ed ebbe la fortuna di superarlo.
Queste decisioni estreme gravarono per tutta la vita sulla sua coscienza. Conclude:
“Soltanto dopo ore di tensione riprendi coscienza di quel che ciò rappresenta: uno su quattrocentomila. Assolutamente derisorio. Ma siccome una vita rappresenta il 100% per ognuno, può darsi che tutto questo assuma un senso” (4).
Marek Edelman aveva continuato il suo “apostolato” anonimamente e umilmente come interno all’ospedale di Lodz. Si era però distinto lo stesso spronando un noto chirurgo ad inaugurare un tipo inaudito di chirurgia, che nessuno aveva mai praticato e che andava contro la prassi operatoria. Finalmente lo convinse e assieme salvarono parecchie vite, aggiungendo mesi o anni di vita a dei pazienti che sarebbero morti da un momento all’altro, senza quel tipo di intervento, considerato insensato e che nessuno aveva mai sperimentato.
Politicamente ha fatto parlare poco di sé, sino alla data delle leggi marziali di Jaruzelski, nel 1981, alle quali si oppose aderendo incondizionalmente a Solidarnosc. Edelman è mancato recentemente all’età di 96 anni.

Piero Ferrua

P.S. Il lettore si stupirà ch’io non abbia trattato della resistenza del movimento anarchico polacco nel Ghetto di Varsavia. Mi sarebbe piaciuto ma mi manca la documentazione. Quando fondai il Centro Internazionale di Ricerche sull’Anarchismo nominai un corrispondente in Israele. Si chiamava Charles Hochauser Harmony. Mi mandava regolarmente la rivista Problemoth/Problemoi che usciva in ebraico e yiddish. Essendo egli polacco sollevai con lui la questione del movimento nel suo paese, prima, durante e dopo la guerra. Mi mandò un libro, che dovrebbe trovarsi ancora nelle collezioni del CIRA a Losanna. Era intitolato Troym in farvirklekhung: zikhroynes fartseykhenungen un bamerkungen vegn der Anarkhistisher bavevung in Poyln (Sogni realizzati: il movimento anarchico in Polonia, memorie e commenti) a cura di Eliesor Hirschauge, pubblicato nel 1953 a Tel Aviv, poco prima della sua morte (precedente la data fondazione del CIRA).
Non conoscevo la lingua yiddish e mai la imparai. Mantenni la corrispondenza con Hochauser sino al 1969, ma questa mi venne sequestrata (e mai restituita) dalle autorità militari brasiliane, Stessa sorte avvenne alla corrispondenza con Wieslav Jezierski, dell’Università di Cracovia, di cui ricordo una cartolina illustrata in cui inneggiava apertamente all‘anarchia.
Invito i compagni che conoscono lo yiddish a tradurre o almeno recensire il suddetto libro, il che colmerebbe certamente una lacuna negli studi sulla resistenza polacca, ebrea o meno.

Note

  1. Si tratta di Luigi Mercantini, autore del ben noto “La spigolatrice di Sapri”, non del tutto dimenticato giacché il regista Gian Paolo Callegari, ne ha realizzato un film nel 1952.
  2. Il Bund è un partito socialista ebraico fondato a Vilna, oggi capitale della Lituania ma allora appartenente all’impero russo, in un congresso tenutosi il 7 ottobre 1897. Il suo vero nome era “Die Yiddish Arbeit Bund” e la sua lingua ufficiale era appunto lo yiddish, parlato dalla maggioranza della manodopera ebrea dell’Europa Orientale. Ci saranno sezioni in parecchi paesi: Bielorussia, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Russia ed Ucraina. La sua politica contrastava contro quella del movimento sionista, sviluppatosi nella stessa epoca e piú tardi contro quella boscevica. Anarchici ne hanno fatto parte o si sono alleati con i “bundisti” in circostanze speciali.
  3. Su questo ed altri episodi che seguono si potrà consultare con profitto questa fonte (certamente non sospetta perché sfavorevole) La bataille du Ghetto de Varsovie vue et racontée par les Allemands (Paris, Editions du Centre de Documentation Juive Contemporaine, 1946) oltre al volume indicato qui appresso.
  4. Mareh Edelman e Hanna Krall: Mémoires du Ghetto de Varsovie. Un dirigeant de l’insurrection raconte. Préface de Pierre Vidal-Naquet (Paris, Editions du Scribe, 1983, in-8, 160pp.) . Da questo libro abbiamo tratto parte delle informazioni sugli avvenimenti.