Rivista Anarchica Online


anni ’60

Rita, Patty, Caterina. Ninfette, ye-ye, piperine
di Diego Giachetti

Dalla ribellione individuale contro il conformismo e le regole date, alla protesta e all’invito a cambiare il mondo. A passeggio negli anni ’60, alle origini del rock italico.

 

Le ninfette le chiamavano. Un termine appena un po’ più educato di quello di “lolite”, di cui pure si era abusato per indicare le inquietanti adolescenti che si affacciavano alla vita nei primissimi anni sessanta. Per l’immaginario collettivo erano sexi e da “combattimento”. Sexi lo era senz’altro la giovanissima Caterine Spaak. Tutt’altro che un buon esempio per le giovanissime italiane, ancora prese da parrocchie, associazioni religiose, famiglie borboniche che le tenevano chiuse in casa. Catherine si era sposata giovanissima, aveva avuto subito un figlio e altrettanto velocemente aveva piantato il marito. Un incontro con l’amore invocato come diritto dei giovani nella versione italiana da lei interpretata di una dolce e tenera canzone di Francoise Hardy: «Tous le garcons el les filles/ […] hanno sempre qualcuno d’amare/ e la mano nella mano/ se ne vanno piano piano/ se ne vanno per le strade/ a parlare dell’amore» (Quelli della mia età, di Hardy, Pallavicini, 1963). Una lotta rivendicativa, da condurre in ogni famiglia, istituzione chiusa o aperta che fosse, per avere riconosciuto il diritti a vivere i propri sentimenti amorosi prima e al di fuori del matrimonio e del fidanzamento, che doveva fondarsi, secondo la cantante, sul movimento dell’“onda” dell’epoca: i giovani. Ad essi aveva infatti inneggiato nel 1964: «Noi siamo i giovani/ i giovani più giovani/ siamo l’esercito del surf», (L’esercito del surf, di Mogol Pattinacci).

Autocoscienza collettiva con Rita Pavone

Meno sexi e più da “combattimento” si presentava Rita Pavone nell’estate del 1963, quando diventò in quei mesi un simbolo per migliaia di minorenni in Italia, di cui cantava la loro rabbia e le loro difficoltà relazionali con gli adulti. Conquistò le platee con voce giovane e a colpi di urli, cantando con rabbia, quasi con ferocia, piegata in due, a testa bassa, con le vene del collo turgide e gli occhi sbarrati. Iniziò proponendo una sorta primitiva di autocoscienza dei sentimenti, per rivendicare il diritto dei giovani a viverli e a provarli, dando coscienza ed espressione alla propria esistenza, interrogandosi sul loro significato partendo dal “cuore”: «Mio cuore/ tu stai soffrendo/ che cosa posso fare per te/ mi sono innamorata/ […] Sto vivendo con te/ i miei primi tormenti/ le mie prime felicità» (Cuore, di Rossi, Mann, Weill, 1963). Dalla consapevolezza che a quell’età si «cominciava a capire l’amore», si finiva di giocare e si cominciava a «parlare con la voce del cuore» (Alla mia età di Rossi, Robifer, 1963), nasceva una reazione di insofferenza verso i genitori, le loro regole e le loro imposizioni. Ci voleva un “martello” per infrangerle propose con determinazione: «Datemi un martello/ per rompere il telefono/ l’adopererò/ perché tra pochi minuti/ mi chiamerà la mamma/ il babbo sta per tornare/ a casa devo andare/ uffa che voglia ne ho» (Datemi un martello di L. Mays, Bardotti, Seeger , 1963).
Poi venne la rivendicazione del Ballo del mattone (di Verde, Canfora, 1963), uno dei successi della giovane cantante, esemplificativo di un nuovo modo di intendere il rapporto col proprio partner, invitato perentoriamente a non essere geloso e furioso se capitava di ballare con altri il twist o il rock, perché questi balli avevano una funzione di gruppo, permettevano la socializzazione del gruppo di amici che si confrontavano ponendosi di fronte e comunicando coi movimenti del corpo. Non era proprio il caso di fare «le scenate» o di provocare «la lite» per così poco, tanto, recuperava la protagonista della canzone, «con te/ che sei la mia passione/ io ballo/ il ballo del mattone».
Passione e mattone non erano due parole scelte a caso solo per la facile rima. Ballare sul mattone significava letteralmente, come diceva la canzone, stringersi forte, languidamente, e muoversi appena, così poco che bastava lo spazio di un mattone per ballare. La parola passione trasmetteva bene l’idea di un’emozione forte, di un’attrazione fisica, carnale, un po’ differente dall’amore convenzionale, ammantato di bacini, bacetti e sospiri in attesa del sospirato matrimonio.
Gianfranco Manfredi ha sottolineato che quella canzone ben descriveva l’«alternanza di arrampantissimi contatti totali da orecchie rosse, sudori ed eccitazione faticosamente contenute, e di subitanei ritorni nel gruppo dei compagni di scuola che si divertono e che sanno presenti i genitori nella stanza vicina» (Quelli che cantano, Coniglio editore 2004). E Umberto Eco, a caldo, segnalò subito che i turbamenti suscitati dalle tempeste ormonali giovanili diventavano in lei «dichiarazione pubblica, gesto, teatro, e si facevano stato di grazia» (Le canzoni della cattiva coscienza (Bompiani, 1964).
Certo non era ancora la proposta più politica e impegnativa di contrapporre alla guerra il fare l’amore, secondo il noto slogan “fate l’amore non fate la guerra” che già si diffondeva tra i giovani dei campus americani. Qui l’invito era solo rivolto a liberarsi dai tabù che riguardavano la sfera sessuale, per riappropriarsi, in tutto e per tutto, del proprio corpo e delle proprie emozioni. Su questo terreno non poteva non nascere un contenzioso tra modernità e conservazione nelle relazioni sentimentali.
La risposta infatti venne subito. Al “partito” della Pavone, che aveva per inno Il ballo del mattone, si contrappose quello della Cinquetti con la canzone vincitrice del festival di Sanremo del 1964: Non ho l’età. Con essa si ribadiva l’opportunità e la necessità per le giovani donne, di non amare prima del matrimonio, vivendo così lo stereotipo popolare dell’amore romantico, spirituale, rimandando al momento del matrimonio l’amore terrestre e profano. Cantava Gigliola Cinquetti: «non ho l’età!/ non ho l’età per amarti!/ per uscire sola con te […]/ Lascia che io viva un amore romantico/ nell’attesa che/ che venga quel giorno./ Ma ora no, non ho l’età».
Una canzone che ben rappresentava una parte ancora consistente della mentalità del Paese. Inchieste dell’epoca segnalavano che il 70% delle donne intervistate riteneva ancora importante la verginità prematrimoniale; per il 71% (uomini e donne) l’infedeltà femminile più grave che quella maschile. Le casalinghe, in altissima percentuale, indicavano nella fedeltà la dote più importante della moglie ideale. E, ancora, secondo un’inchiesta svolta dalla Doxa nel 1962 solo il 17% delle donne si era dichiarata a favore del divorzio.

“La Marsigliese” delle ye-ye

Come scrisse la rivista per i giovani «Ciao Amici» nel numero del 17 agosto 1966, se la Pavone era un batuffolo di lentiggini, gracile che commuoveva e la Cinquetti un giglio di plastica col bavaglino “non baciatemi”, Caterina Caselli si proponeva come realtà sanguigna dell’epoca. Camilla Cederna così la raccontò ai lettori de «L’espresso» sul numero del 15 marzo 1966 dopo aver visto un suo spettacolo: «il microfono attaccato alla bocca, come fosse una bottiglia di coca cola […] le vibrano le ginocchia scoperte, i fianchi e le spalle, […] mentre da un momento all’altro, a furia di tremiti meccanizzati, sembrava che la testa si volesse svitare [Seguivano] altri gesti coi quali pareva alle volte nuotare o agitare una bandiera, avviare un motore, dimenare un codino, mimare l’ansioso pulsare delle macchine moderne, comunque facendo aderire in modo perfetto quella musica selvaggia al suo battito fisico, diventandone lei lo strumento scosso, frenetico, agitatissimo».
Caterina Caselli era una delle “ragazze ye-ye”, secondo la definizione coniata all’epoca dai giornali perbenisti. Merita un’analisi attenta, come si fa coi classici della letteratura, la canzone Nessuno mi può giudicare (Pace, Panzeri, Beretta, Del Prete, 1966). Non solo rivendicava il diritto di amare e di essere amata prima del matrimonio, ma aveva già amato ed era stata già amata da un altro uomo, un fidanzato col quale poi aveva rotto per mettersi con un altro. Poiché non era un’ipocrita, come gli adulti che predicavano bene e razzolano male, anticipando i tempi sosteneva che in una coppia moderna e matura non dovevano esserci segreti e che la verità andava detta anche se faceva male a chi la diceva e a chi l’ascoltava: «La verità ti fa male, lo so…/ La verità mi fa male, lo sai!». Detto questo proseguiva affermando perentoriamente che nessuno la poteva giudicare, «nemmeno tu». Un buon incipit, forte e deciso, pronunciato un attimo prima che arrivasse il femminismo nuovo ad illuminare il percorso delle donne. Era stata con un altro, così aveva potuto capire la differenza «fra lui e te» e a ragion veduta, scegliere bene: «Se sono tornata a te, ti basta sapere che ho visto la differenza tra lui e te ed ho scelto te». Col senso della compassata maturità e serenità che derivava dall’esperienza compiuta, una verifica empirica di una possibile ipotesi d’amore, poteva dire: «l’ho pagata cara la verità», chiedergli scusa e rassicurarlo: «Molto, molto più di prima io t’amerò», perché ora sapeva per certo che «in confronto all’altro sei meglio tu».
Armata di buone intenzioni prometteva: «quel che ho fatto un dì non farò mai più». Con quelle parole si raccontava di situazioni e rapporti prematrimoniali plurimi nei quali la donna era protagonista attiva, sfidava il maschilismo imperante e la morale corrente, afferma con forza il diritto a non essere giudicata per le sue scelte e i suoi comportamenti, anche se alla fine prevaleva un piccolo senso di colpa per quello che aveva fatto, che la portava a dire di non volerlo fare mai più.
Senso di colpa e promessa non facili da mantenere, o facili da dimenticare. La ragazza interpretata dalla Caselli ci ricascava nuovamente, difatti alcuni mesi dopo incideva Perdono (di Soffici, Mogol, 1966) e con la solita freschezza e naturalezza chiedeva perdono al suo partner, precisando subito, prima ancora di raccontare l’accaduto: «io soffro più ancora di te!». Aveva tradito, chiedeva perdono, ma ammetteva anche che era facile smarrirsi, cedere, perdersi dietro un’avventura di una sera: «di notte è molto strano/ ma il fuoco di un cerino ti sembra il sole che non hai». Si poteva cedere, per una volta, all’erotismo, cioè all’amore senza riproduzione, quello che durava un attimo, una serata; mica tutti i flirt, aveva già sentenziato Rita Pavone, dovevano tradursi in matrimoni o in storie impegnative.
Certo non lo diceva esplicitamente, ma il senso della rivendicazione del diritto ai rapporti affettivi e sessuali prematrimoniali, un vero e proprio tabù all’epoca, era esplicito. Le donne da lei interpretate rivendicavano la libertà di poter scegliere l’“uomo d’oro”, tutto per loro. Ma per trovarlo bisognava cercarlo in una pluralità di esperienze: «quell’uomo d’oro forse sei tu», gli diceva ma, non ancora del tutto sicura, proseguiva affermando: «non so, mi guardo un poco in giro e poi ti dirò» (L’uomo d’oro, di Pace, Panzeri, Guatelli, 1966).

Piperine d’assalto

Di essere in tante, afflitte dagli stessi problemi e dalle stesse esigenze, se ne accorsero proprio in quegli anni. Non rivendicavano solo i diritti che ancora mancavano, ponevano un nuovo modo di essere donna rispetto all’uomo. Volevano riconosciuta un’identità e una dignità che le era stata da troppo tempo negata. Volevano figli da chi amavano, quindi poter scegliere l’uomo da amare, senza più essere date in spose. Volevano prima pensare a se stesse e poi al matrimonio e al marito e ai figli. Erano ragazzine inquiete, dalle gambe lunghe e appena scoperte sopra le ginocchia, meno attente alla verginità di una volta e le occasioni di perderla erano di più e varie. Erano pronte ad indossare la minigonna, un vestito che in Italia si caricava di un significato che andava oltre l’esibizione delle gambe e, in un paese bigotto e moralista, indicava la voglia esplicita di disobbedire. Una disobbedienza scandalosa che faceva sensazione se la indossa qualche attrice famosa e scandalo se a farlo erano le ragazzine. La minigonna rappresentava lo spirito nuovo di una generazione femminile, più allegra, sorridente, felice, per la quale la guerra e il secondo dopoguerra, con le sue tragedie e fatiche, erano veramente finiti. La minigonna, i vestiti colorati e leggeri rappresentavano una coscienza diversa da quella delle loro madri. Per le ragazze degli anni Sessanta, quell’abito era un simbolo di liberazione ostentato con decisione e radicalità. Era anche un modo per dire basta al sesso vissuto come mistero, come capitale da nascondere e proteggere.
Erano le “piperine”, quelle che andavano a ballare lo shake al Piper club di Roma, un locale per giovani nato nel 1965 a Roma e imitato in tante altre città. A contendersi il titolo di “ragazza del piper” furono all’istante Caterina Caselli e Patty Pravo. Entrambe si esibirono nel locale e trovarono la loro via alla popolarità tra i giovani, come i Rokes, Mal dei Primitivs, i Giganti, le Equipe 84 e tanti altri. Era il fascino della cultura angloamericana, la minigonna, gli atteggiamenti spregiudicati. La trasgressione era nell’abbigliamento, nei modi scatenati, ha ricordato Caterina Caselli.
L’industria e il mercato, capita l’antifona, si buttarono a capofitto. L’industria Algida produsse un apposito gelato che si chiamava Piper, un prodotto singolare, avvolto in una plastica rigida che bisognava spingere dal basso per poterlo gustare. Testimonial per due anni del prodotto fu Patty Pravo, la quale ha ricordato: «era imbarazzante, sembrava di tirar via la plastica da un pene» (Bla, bla, bla..., Mondadori, 2007).
Con lei si passava dalla canzone che invitava alla ribellione individuale contro il conformismo e le regole date, alla protesta e all’invito a cambiare il mondo. Ragazzo triste del 1966 era una sorta di inno generazionale: «Ragazzo triste come me ah ah!/ Ragazzo triste sono uguale a te, a volte piango e non so perché/ tanti son soli come me e te/ ma un giorno spero cambierà./ Nessuno può star solo,/ non deve stare solo/ Dobbiamo stare insieme,/ amare tra di noi scoprire insieme il mondo che ci ospiterà» (di Bono, Boncompagni). Rafforzava queste sue indicazioni con dichiarazioni anche più impegnative e sostenute del tipo: «Penso che bisogna darsi da fare sul serio. In quale direzione? Nella direzione indicata da Carlo Marx. Però attraverso strade nuove, ancora da aprire. («Vie Nuove», 16 febbraio 1967).
Impersonava la ribelle, l’anticonformista, la trasgressiva. Un servizio di Renzo Arbore su di lei per il «Radiocorriere» aveva per titolo: Io gli uomini me li fumo, come sigarette. Alla domanda: «crede nell’amore?» rispondeva di sì, alla successiva, «e nel matrimonio?», la risposta era no. Interpellata se era a favore di una legge sul divorzio, che in Italia all’epoca non c’era, rispondeva affermativamente e sarcasticamente aggiungeva: «Finché esisterà il matrimonio bisognerà che ci sia anche il divorzio» («Vie Nuove», n. 13, 30 marzo 1967).
Rivendicava la libertà per la donna, il diritto di stare dove le pareva: «qui e là io amo la libertà/ e nessuno me la toglierà mai» (Qui e là, 1967). Svelava l’egoismo sentimentale e amoroso degli uomini, se ne lamentava dicendo impietosamente «pensi solo per te»; avvertiva con decisione perché fosse chiaro subito: «da stasera la mia vita nelle mani di un ragazzo non la metterò più» (La bambola, di Migliacci, Zambrini, Cini, 1968).
Patty ebbe scarso sentore del ’68, girava il mondo era troppo impegnata nel lavoro, se ne accorse quando era già trascorso, si rese conto che da quelle lotte era sorto un movimento femminista nuovo con rivendicazioni giuste e corrette, ma troppo astioso nei confronti degli uomini: «parità non significa ucciderli o farli diventare tutti impauriti e imbranati. Basta guardarsi intorno, molte donne adesso sono sole. E anche gli uomini» (Bla, bla, bla..., Mondadori, 2007). Quanto alla politica partitica… beh!, per lei era ed è una cosa di poco o scarso interesse: «Non ho mai votato e mai voterò».

Diego Giacchetti