Rivista Anarchica Online


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Dissidenza? Resistenza

Un piccolo panorama sulla lotta culturale nella canzone est-europea

Di antichi fasti la piazza vestita
grigia guardava la nuova sua vita
come ogni giorno la notte arrivava
frasi consuete sui muri di Praga.

(Francesco Guccini)

Ci sono stato l’anno scorso nella piazza di Praga cui si fa riferimento in questo capolavoro di Guccini, piazza Venceslao, centro della Città Nuova, Nové Mesto, la piazza dove, il 16 gennaio 1969, lo studente di vent’anni Jan Palach si cosparse di benzina e si diede fuoco per protestare contro i carrarmati sovietici, arrivati a strangolare la primavera di Praga.
Oggi quella piazza conserva una minuscola lapide alla memoria, sua e di Jan Zajic (che ricorse allo stesso estremo gesto di ribellione), ma io non vi ho visto fiori. In compenso la piazza è vestita di nuovi “fasti”: crocifissa da più di quattro sexi shop, circondata di locali hard, con numerosi buttadentro che cercano di adescare i passanti, febbrilmente percorsa dagli spacciatori che ti sussurrano “Coco? Hashish? Heroin?”.
Chissà se è questa la libertà cui aspiravate voi due, poveri Jan… chissà se non è ora di urlare la propria bruciante indignazione contro questo capitalismo dal volto inumano.

Il mal di testa di Karel Kryl

Forse è questa la Democrazia contro la quale s’era scagliata l’indignazione di Karel Kryl (1944-1994), il bardo che, da dissidente, aveva dovuto passare la sua vita in esilio, ma che, appena rientrato dopo la breve e allegra sbornia della “rivoluzione di velluto” che aveva posto fine al regime, s’era accorto del mal di testa che coglieva la società ceca degli anni ’90.

La democrazia sta sbocciando con qualche difetto che non si nasconde: coloro che rubavano da tempo, oggi lo fanno due volte tanto, coloro che ci maltrattavano da sempre, oggi ci buttano fuori dal lavoro, e sono riusciti a trasformare in traditori, coloro che raccontano la libertà.
La democrazia inesorabilmente va avanti senza noi
al solito brontoliamo bevendo birra il prete promette il cielo, ma aspetta le bontà terrene (…) Venceslao, il re, è tutt’ uno con i volgari profittatori sotto la bandiera di una fazione ci incontreremo alla greppia. (…) Il velluto e la tenerezza chissà dove sono finiti ed i denti sono rotti ci hanno messo i finimenti nuovi e, anche se il collare brucia, assumiamo la posizione per stare in piedi
La democrazia sta evolvendo verso l’ulcera senza onestà, giustizia e soprattutto senza rispetto, ed è un errore personale, forse un’illusione ottica, che mostra la pancia invece del cuore e una boccaccia invece dell’anima.*

È un piccolo privilegio del quale questa rubrica va molto orgogliosa: non essere mai accordata alle celebrazioni ufficiali, alle date memorabili, ai mausolei fatti per dimenticare più in fretta. L’anno scorso, ventennale della caduta del muro di Berlino, simbolicamente la fine del “socialismo reale” (lo mettiamo fra molte virgolette), è stato l’anno in cui numerose mostre e pubblicazioni hanno riaperto cassetti che nemmeno gli stalinisti più zelanti erano riusciti a tenere chiusi per tanto tempo.
Riaperti sì, ma solo per un attimo, s’intenda… giusto per dire che quell’anelito di libertà c’interessa. Non abbastanza per verificare quanto quell’anelito sia oggi soffocato dalla dolce (?) dittatura del mercato. Insomma se, come diceva Kryl all’inizio degli anni ’90 la democrazia sta evolvendo verso l’ulcera, chissà in che stadio terminale si trova oggi.
Peccato, l’occasione era buona per re-interessarsi di una storia di coraggio e di passione che qualche volta è giunta fino al martirio. Una storia piena di straordinarie opere di poesia e, per quanto riguarda i temi specifici di cui si occupano questi articoli, di magnifica musica ribelle.

Karel Kryl

Coscienza collettiva

È da tempo che, su queste pagine, ricorrono i nomi dei russi Bulat Okudzava e Vladimir Vysotskij, dei cechi Karel Kryl e Jaromir Nohavica e di altri ancora. Oggi torno a parlarvi di loro e di altri resistenti dell’Est che, come loro, seppero essere coscienza collettiva, pungolo e stimolo a tutto un popolo. Loro che dissero di no al potere vigente, che conservarono lo spirito critico. Loro che diffondevano le loro belle idee a macchia d’olio, perché la canzone “passa veloce di bocca in bocca”, e orrendi quanto sostanzialmente inutili, sono i tentativi di fucilarne la eco, come nella bellissima canzone di Vysotskij.

Nella quiete del valico, dove le rocce non sono d’ostacolo ai venti in quegli anfratti dove nessuno era mai penetrato, viveva una gioiosa eco dei monti rispondeva al grido, al grido dell’uomo.
Quando la solitudine salirà alla gola come un nodo e un gemito soffocato, appena udibile, cadrà nell’abisso l’eco, agile, raccoglierà quel grido d’aiuto lo rafforzerà e premurosa, lo porterà fino a mani amiche.
Non è possibile che fossero uomini, gonfi di droga e veleni
se nessuno ne sentì il calpestio e il grugnito, quelli che giunsero per uccidere, soffocare la gola viva legarono l’eco e le ficcarono in bocca uno straccio.
Per tutta la notte continuò il divertimento sanguinoso e crudele calpestarono l’eco, ma nessuno udì alcun suono. All’alba l’eco dei monti, ammutolita, venne fucilata e sprizzarono lacrime, come pietre, dalle rocce ferite.

Il giornalista musicale Artemy Troitsky dice che l’epoca di Breznev coincise “con i due peggiori decenni della storia sovietica. Ci sono stati anni di paure molto più grandi – quelli del terrore stalinista e della guerra. Tuttavia durante quel periodo la nostra vita sociale fu terribilmente dinamica (…). In quell’epoca l’orrore dei campi di concentramento, il genocidio fisico, intellettuale e spirituale conviveva con l’eccitazione delle masse, la sfida della costruzione di una nuova società. Era un tempo in cui era molto facile morire, ma molto stimolante vivere. L’era di Breznev capovolse completamente il quadro: nessun movimento, nessun cambiamento, nessuna vera emozione. Gli unici estremismi permessi erano quelli della massima burocrazia, della massima ipocrisia, della massima noia. I frammenti di pensiero libero sopravvissuti alla repressione fisica di Stalin furono metodicamente eliminati sotto il regime di Breznev: questa volta i nemici del regime non furono uccisi negli scantinati o fatti morire di fame nella Tundra, ma espulsi da ogni dove, anche dal proprio paese o internati in ospedali psichiatrici e destinati a iniezioni rieducative. (…) Lo stato riuscì a creare un’atmosfera comatosa in cui nessuno credeva a niente e nessuno si preoccupava di niente. Regnava un silenzio furioso.”

Aleksandr Galic

Il potere stritola

Volodja Vysotskij è il massimo emblema della resistenza a quel silenzio furioso, la sua popolarità è stata immensa, la diffusione delle sue canzoni, ostacolate se non esplicitamente proibite, si attuava per magica osmosi: registrate con mezzi di fortuna durante i concerti pubblici e privati e riprodotte clandestinamente di casa in casa. Vysotskij era un personaggio violento e fragilissimo, che con la pura forza della sua poesia, con la ferocia del suo urlo, riuscì a penetrare nell’anima di un immenso popolo.

Geloso di quell’amore, il potere lo stritolò in una morsa che l’alcolizzato, il morfinomane, il disperato e ribelle Vysotskij non poté reggere. Il suo cuore si spezzò a 42 anni, il suo funerale (che nessun media aveva annunciato) fu la più imponente manifestazione non autorizzata della sua epoca. Era il luglio del 1980, sono passati 30 anni. Un nuovo ponderoso libro ne rievoca “Vita e imprese mirabolanti”: L’anima di una cattiva compagnia (452 pg. 26 euro), aggiungendosi al classico di Sergio S. Sacchi Volodja, ripubblicato l’anno scorso con un bel CD allegato (28 euro).
Prima di lui la canzone russa di protesta aveva avuto due grandi esponenti: Bulat Okudzava, poeta lirico, melodioso e sommessamente ironico, e Aleksandr Galic, una furia scatenata. Galic fu lo pseudonimo dell’attore (anche Vysotskij lo era) e commediografo Aleksandr Ginzburg. Se la furia di Volodja era un fatto quasi fisico, quella di Galic era totalmente lucida, un frutto velenoso dell’indignazione. Nei suoi versi scorre troppo dolore, le sue canzoni sono fatte di violento sarcasmo, la musica appena accennata punteggia la parola perfettamente controllata, come un’arma di precisione.

L’epoca semina vento, scaglia saette crea soviet e commissioni. Ogni giorno afone fanfare esaltano il ben ponderato assurdo. Vagola l’ingiustizia di luogo in luogo, scambia esperienze con l’ingiustizia vicina, ma rimbomba quel che è cantato a bassa voce, ma urla quel che è letto in un bisbiglio.
Niente platea, palchi, loggione, la claque non impazzisce frenetica, solo un registratore domestico, ecco tutto, ma pure questo basta!
Sì, c’è un quadro laggiù sul telaio! Sì, quattro copie sono già state battute!

Fuor di metafora Galic sobilla, spinge i suoi ascoltatori a violare apertamente le proibizioni e diffondere clandestinamente il materiale non autorizzato che lui stesso viene scrivendo e cantando.
Galic, di origine ebraica denuncia la piaga mai veramente guarita – e risorta imperante durante lo stalinismo – dell’antisemitismo.

Oh, non fatevi fare livree, ebrei, non diventerete mai ciambellani, ebrei! Non datevi pena, non gemete per niente, non siederete mai al sinodo e nel senato.
Ma siederete in questura e in prigione e camminerete senza lacci alle scarpe, e al sabato non santificherete nessuna festa ma vi trascinerà uno sbirro per interrogarvi.
E se invece farai commercio d’incenso, se saprai renderti un utile ebreo, ti permetteranno di chiamarti Ronzinante e ti orneranno la palandrana con un nastro
Ma se pure in questo mestiere sarai il primo, non diventerai mai lo stesso un ciambellano, né l’incenso mai ti renderà un Orfeo…
Sicché non fatevi fare livree, ebrei!

Aleksndr Galic, per anni sorvegliato speciale, espulso dall’unione scrittori, confinato nella propria casa, lancia strali, cerca di risvegliare il coraggio sopito della sua gente parlando dell’argomento proibito per antonomasia: il gulag.

Ah, ci dà sotto il procuratore e ti appioppa dieci anni di condanna. Ma i paralleli dei luoghi di reclusione ci hanno insegnato una grande lezione:
Non dividere coi farabutti il pane, di fronte alle lusinghe non cadere bocconi, e non credere in nessun cielo pulito e nei sorrisi della gente raggiante. Anche se di nuovo ci solletica la gloria, anche se gli amici son detti nemici, ricordiamo che ogni conversione a destra comincia sempre dal piede sinistro.

Nel 1974 Galic va in esilio in Francia e, solo due anni dopo, viene ritrovato folgorato dalla corrente elettrica a casa sua. Apparentemente si tratta di un incidente domestico, ma sulla vicende si stende il dubbio dell’assassinio politico.

Jacek Kaczmarski

L’inno delle lotte in Polonia

Il turbocapitalismo degli anni post-comunisti l’hanno ormai ridotti un relitto, ora impiegano all’incirca 1900 operai, ma ai tempi della nascita di Solidarnosc – che qui ebbe le sue vittorie più importanti – i cantieri navali di Danzica impiegavano ben 20.000 operai. Ancora una volta vent’anni di cosiddetto “libero mercato” hanno svuotato dall’interno una roccaforte operaia che ha avuto, nella fine del regime comunista in Polonia, un ruolo fondamentale ed eroico.
A quei tempi aggrappato ai cancelli, fra un comizio e l’altro, da un altoparlante gracchiante un ragazzino di 25 anni con una barbetta ben curata e l’aria da secchione malinconico, cantava con un gran vocione

Strappa dai muri i denti delle sbarre spezza le catene, rompi la frusta e le mura cadranno, cadranno, cadranno seppellendo il vecchio mondo.

Era un giovane professore di lingua e letteratura polacca di Varsavia, con la passione della chitarra (che suonava da autodidatta mancino, ma con grande perizia) e della libertà. La canzone era una riscrittura, tutta in chiave polacca, dell’inno libertario del catalano Lluis Llach L’Estaca, e fu subito adottata dal movimento sindacale di Solidarnosc come colonna sonora delle proprie battaglie.
Jacek Kaczmarski era il traduttore-interprete e, presto costretto all’esilio in Francia, sarebbe diventato il bardo polacco per antonomasia. Lavorando febbrilmente per la libertà del suo popolo, e intanto tremando per le sorti della famiglia restata in Polonia senza poter dare notizie, con l’inseparabile sigaretta in mano, cantava in ogni parte del mondo in cui si presentasse l’occasione di appoggiare la propria causa.
Compose un gran numero di canzoni, profondamente filosofiche, violentemente polemiche, sapidamente anticonformiste. Jacek cominciava la sua lotta proprio quando il maestro spirituale Vysotskij, la mano sul cuore, s’accasciava per l’ultima volta, l’eco della famosa canzone del russo La caccia ai lupi, si ritrova pari pari nel brano Oblawa (La caccia), o addirittura Vysotskij stesso è il protagonista dell’Epitaffio a lui dedicato, una travolgente ballata di dieci minuti che descrive il viaggio all’altro mondo del maestro.
Al sommo dell’arte di Jacek Kaczmarski si trova il brano La nostra classe: il tema che s’affaccia nella canzone è quello, tristemente consueto nell’opera dei polacchi, dell’esilio, ma coll’avanzare dei versi il discorso si fa più che mai universale e abbraccia l’intera umanità, ognuno di noi, tutti coinvolti nella diaspora collettiva che ci tiene lontani dalla nostra essenza primigenia, dal nostro essere bambini, dalla culla in cui nascono le speranze. Lontani da quelle andiamo a cercare il mondo per il mondo.
Jacek Kaczmarsky, esule per destino, rientrò stabilmente in Polonia nel 2002, con un tumore nella gola che non aveva nemmeno i soldi per curare, fu necessaria una colletta di tutto il paese per garantirgli assistenza. All’età di 47 anni, nell’aprile del 2004, Jacek è morto.
Gli eroici operai dei cantieri navali di Danzica seguono il loro destino, ma nessuno canterà la loro ultima battaglia.

Che ne è della nostra classe? Dice Adam da Tel-A-Viv,
è duro affrontare il tempo oggi, è duro rimanere integri nella vita.
Che ne è della nostra classe? Wojtek in Svezia fa un Porno-Show
ci scrive che lo pagano pittosto bene per cose che ci piace
fare anche gratis.

Kaska e Piotr sono in Canada e hanno laggiù un progetto,
Stachek se la cava in America, Pawel s’è stabilito a Parigi,
Goska e Przemek mettono assieme i soldi, a maggio aspettano
il terzo figlio, piangono miseria al collocamento perché
vogliono emigrare.

Invece Magda si risposa a Madrid con un ragazzo spagnolo,
Maciek a dicembre era morto mentre perquisivano
l’appartamento, Janusz, quello che tutti odiavano perché ogni
onda lo portava più in alto
è chirurgo, salva le vite, ma suo fratello s’è impiccato.

Marek è dentro perché s’è rifiutato di sparare su Michal,
e io canto la loro storia ed ecco la banda al completo...
Ah, no, Filip è fisico a Mosca i premi gli piovono addosso
va quando gli pare in Polonia è stato ricevuto pure dal premier.

Ho ritrovato l’intera classe in esilio, in paese, al cimitero
ma qualcosa è cambiato ognuno segue la propria miseria.
Ho ritrovato l’intera classe: sono cresciuti, sono maturati
ho lacerato la nostra infanzia e non mi ha fatto manco male...

non sono più ragazzi, sono uomini, sono già donne, non ragazzine.
La gioventù cicatrizza in fretta e non è colpa di nessuno;
tutti sono responsabili del proprio destino tutti hanno
grandi progetti
sono tutti, direi, normali ma non è poi granché...

Non so nemmeno cosa mi sogno quale stella sto seguendo
quando in mezzo ai loro visi familiari cerco sempre visi di ragazzi,
e perché mai mi volto indietro quando nessuno mi grida: “amico!”
nessuno che voglia giocare a “strega comanda colore”
e nemmeno a nascondino...

I nostri capelli, le nostre foglie le si fa crescere,
ognuno per proprio conto
e le radici evidentemente sono in esilio, al paese, al cimitero
laggiù, ai fianchi, in alto, verso il sole, a perdita d’occhio,
a sinistra, a destra
chi si ricorda che in fondo c’è stato un’unico e solo albero.

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it