Rivista Anarchica Online


 

Utilità
dell’inutile

Come sempre capita, sono due le letture che si possono dare dell’ultima fatica di un autore. Ci si può approcciare in tenuta antisommossa o a mani nude, in jeans e maglietta.
Se si sfoglia L’inutile (Marco Caponera, “L’inutile. Attraverso le pieghe di un pensiero irragionevole”, Le Nubi Editore, Roma 2009) nel primo assetto si conquisterà l’ultima pagina con gran fatica, dopo aver scovato incongruenze ed evidenziato eccessive libertà interpretative dell’autore, così povero di note.
Se si arriva invece all’appuntamento senza attrezzatura militare, impreparati su tutti i fronti, sarà forse possibile imboccare il sentiero a prima vista oscuro in cui siamo condotti. L’inutile – questo il succo del pensiero di Caponera – non solo è inseparabile dall’utile come il giorno dalla notte, ma è anche ciò che ci rende umani, e cioè capaci di non-essere-ora-qui.
Dopo la banalizzazione della presenza imposta dalla sparizione del reale (1) tramite i mass media, Caponera ci introduce questa volta in una regione desertica dove siamo costretti a fare i conti senza mediazioni con la nostra scarsa attitudine al vuoto.
In poco più di cento pagine, sempre molto curate – come ormai da tradizione per i tipi de “Le Nubi” – si apre di fronte al lettore una catena di casi in cui il common sense utilitaristico, quasi una seconda natura, si confronta con la diversità radicale dell’inutile. E allora, come in una galleria di specchi, ecco l’inutile, faccia a faccia con la ragione, con il fine, con il caos, con la meraviglia, con l’impossibile, con l’Altro, con la solidarietà, con il consumo, il lavoro, il dubbio e la scienza.
Il debito con la tradizione filosofica orientale è esplicitato in più punti anche se in alcuni casi l’illuminazione appare più intensa che in altri. Così ad esempio nelle pagine dedicate all’ozio come pratica vitale assurda espulsa con sdegno vittoriano ma praticata in segreto come tutti i vizi dell’etica borghese, l’ozio inutile non ha nulla di piacevole e rilassante. Al contrario è agire-senza-agire. È violenta interruzione dell’auto-mobilitazione totale, è assenza dolorosa e consapevole di attivazione finalizzata.
Se si riesce a restare oziosi abbastanza a lungo tutto il repertorio pedagogico muta di fronte ai nostri occhi. Gli allevamenti dove siamo cresciuti sinora da stalle accoglienti assumono sembianze angoscianti. Così le democrazie politiche sono forme caotiche di organizzazione, nonostante, anzi, proprio grazie all’ideologia utilitaristica dalla quale sono dominate. I feticci che prolificano sulle pagine bruciano come antichi idoli. Ma che ne sarà di noi, della nostra ovvietà, dell’implacabile prevedibilità fino a poco prima accettata e ora improvvisamente messa in discussione?
Nella costante lotta contro il sofisma, la facile metafora, l’atteso gioco retorico di smarcamento, questo piccolo scritto segnala una forte tensione verso l’alterità nascosta dietro l’angolo, probabilità inattesa che forse ciascuno nel suo piccolo gioco di sganciamento dalle necessità quotidiane ha praticato con maggiore o minore consapevolezza almeno in qualche occasione. Semmai, si potrebbe obiettare che l’utile viene identificato eccessivamente con il calcolo economicistico. L’utilitarismo nasce in fondo da una tradizione filosofica illustre (Epicuro) e quando si afferma tra 1700 e 1800 come scienza di governo degli uomini lo fa con nobili intenzioni. Ovviare al monadismo monarchico e assumere l’interesse dell’individuo a principio di tutte le combinazioni del collettivo.
I bersagli polemici di Caponera si concentrano invece più a valle: il solido impianto critico della prima scuola di Francoforte, l’Io spaesato di Heidegger, le sprezzanti rinunce nietzscheane al positivismo becero; l’enigmatica precettistica del pensiero taoista e di quello indiano sono convocati contro la disumanizzazione della società dei consumi, la nostra contemporaneità.
Molte le acque dove si immerge l’autore, recuperando frammenti di possibili inutili, parziali, informi, deturpati dal tempo, che la mano riporta in superficie e mette in fila uno accanto all’altro come piccole conchiglie sulla riva. Strappate dai loro fondali ora guardano un mare indifferente ed estraneo, sempre identico a se stesso, immobile. È l’utilitarismo dominante contemporaneo diverso da tutti gli altri perché capace di penetrare ogni fibra delle nostre vite e alla cui celebrazione partecipiamo spesso senza nemmeno accorgerci. Certamente non sfuggono al trionfo dell’utilità forme di narcisismo letterario che si pretendono antiutilitariste, come in George Bataille. Esse replicano al rovescio coerenti morali provviste di segnali distintivi, riti e liturgie aristocratiche. Ben più curiosi dell’alterità, si prestano però a critiche anche quei filoni antropologici utilitaristi incapaci di uscire dal cerchio magico dello scambio, mentre il dono inutile – per Caponera, ispirato qui da Guido Zingari (2) – semplicemente accade e in cambio aspira solo a generare meraviglia creativa senza alcuna contropartita, neppure simbolica.
Toccare la libertà con mano è insomma la posta in gioco di questo scritto. Dato il valore del piatto non se ne può uscire come con la lotteria, estraendo un vincitore a caso. L’“Io vinco” per sortire dall’utile va coniugato al plurale, perché se “i numeri in epoca borghese iniziano sempre dall’uno, nella società dei soggetti collettivi il numero inizia sempre dall’infinito” (p. 65).
Problematico, questo soggetto collettivo attraversato da inutilità rizomatiche, disperse caoticamente sul suo corpo, lo è fin dal suo concepimento perché è anonimo. Per vederlo dobbiamo uccidere l’ideologia dell’individualità che ci è cresciuta in corpo. Solo così – odiandoci a dovere – possiamo scontornare una pluralità inutile. “Certo, il gesto inutile mina l’equilibrio del sistema, ma agisce alla radice dell’essere umano, ne è espressione, quindi piuttosto che apparire come motore di distruzione è fautore di un ritorno all’equilibrio, ritorno e conquista di un centro vitale, in luogo di quello mortale imposto dal pensiero calcolante” (p. 67).
Come ne “La sparizione del reale” la realtà veniva sistematicamente rigettata dalla logica manipolatoria del medium televisivo, così nel mondo dominato dall’utilità il reale viene ingurgitato fino alla saturazione.
Basculando dall’anoressia alla bulimia, Caponera continua l’esplorazione analitica di un reale introvabile, assediato da forme sociopatiche di solipsismo, in vista di un approdo che non sarà mai tale se non condiviso.

Stefano Pighini

Note

  1. Caponera M., La sparizione del reale. Lettura critica del linguaggio dei mass media. Le nubi, Roma, 2005.
  2. Il volume di Caponera è dedicato alla memoria di Guido Zingari.

 


Anarchici
e/al potere

Di sicuro l’esperienza spagnola ha avuto un peso specifico di grande rilievo nella costruzione delle coscienze e delle identità di generazioni di militanti libertari e rivoluzionari in tutto il mondo. Se ciò è comprensibile, un fondato giudizio storico deve saper andare oltre le risposte facili per considerare gli eventi e le responsabilità in un contesto analitico il più possibile corrispondente alla realtà effettiva. Lo slancio utopico, non solo del passato, ha un valore indiscutibile, ma deve riuscire a fare i conti con i dati reali imposti dal momento storico.

Claudio Venza, professore di Storia della Spagna contemporanea all’Università di Trieste e storico e militante anarchico, riassume, con queste parole che concludono il suo ultimo importante contributo (Claudio Venza, Anarchia e potere nella guerra civile spagnola 1936-1939, Eleuthera, Milano 2009), una lunga, interessantissima riflessione sulle dinamiche contraddittorie che hanno caratterizzato l’esperienza dell’anarchismo spagnolo nel corso della rivoluzione libertaria e della guerra civile. Una riflessione oggi resa attuale dalla ricorrenza del tragico anniversario della definitiva vittoria del fascismo franchista nella primavera del 1939, e ancor più indispensabile per riprendere a ragionare su avvenimenti che più di tutti hanno evidenziato la grandezza morale e la capacità organizzativa dell’anarchismo militante insieme ai suoi evidenti limiti tattici. E tutto questo, come è nello stile dell’autore, senza il distacco critico dell’intellettuale ma anche senza le esacerbate passioni che troppo spesso hanno impedito uno sguardo lucido e costruttivo su quelle vicende.

La prima parte del lavoro di Venza è una accurata e attenta ricostruzione dello sviluppo delle idee libertarie in Spagna, dalla loro prima diffusione grazie all’opera dell’internazionalista napoletano Giuseppe Fanelli, alla fondazione dell’Internazionale, dalla nascita delle prime organizzazioni sindacali alla formazione della Cnt prima e della Fai successivamente, dalle lotte senza esclusione di colpi con un padronato deciso a non cedere nulla fino ai rapporti spesso, ma non sempre, conflittuali con le altre organizzazioni sindacali e con i partiti della sinistra democratica e di classe. Già nei primi capitoli ci vengono forniti gli elementi indispensabili per cogliere la peculiarità dell’anarchismo spagnolo, forza politica e sociale spesso maggioritaria in campo sindacale e sempre di massa all’interno della società civile, e quindi anche la genesi dei passaggi e delle decisioni che ne caratterizzeranno il ruolo negli anni della rivoluzione. Particolarmente interessante, e soprattutto determinante per comprendere tutti gli sviluppi successivi, la ricostruzione dei primi, tumultuosi anni Trenta, quando le profonde contraddizioni politiche e sociali nella penisola iberica troveranno la loro logica conclusione nel definitivo faccia a faccia tra popolo e Stato, tra il mondo del lavoro e quello del suo sfruttamento, tra aspirazione alla libertà e volontà autoritaria. Viene così mostrato come le diverse anime dell’anarcosindacalismo e del movimento specifico fossero destinate, proprio per il loro ruolo determinante nelle future dinamiche della guerra e della rivoluzione, a confrontarsi duramente, senza sconti per nessuno e senza possibilità di equivoci.
Come è noto, quando il glorioso alzamiento dei generali felloni comandati da Francisco Franco sembra di potersi impadronire dell’intera Spagna, il proletariato spagnolo, avvezzo alla ginnastica rivoluzionaria e preparato da lunghi anni di feroci scontri nelle strade, blocca il tentativo golpista. Nelle località nelle quali il sindacato anarchico è più forte, Barcellona e Catalogna in testa, la risposta popolare non si limiterà a respingere i militari, ma darà l’avvio a quel profondo processo di trasformazione che si concretizzerà nella rivoluzione libertaria. La socializzazione delle industrie, la collettivizzazione nelle campagne aragonesi e del Levante, la presa in carico dei processi produttivi e degli scambi commerciali, la celebrata obra constructiva de la revoluciòn española, si accompagneranno all’azione delle colonne dei miliziani, anarchici, socialisti, trotzkisti, impegnati a combattere il fascismo spagnolo, con l’aiuto di migliaia di militanti giunti da tutto il mondo. Ma la risposta antifascista non è solamente di carattere sociale, fatta di scontri armati e di tentativi rivoluzionari, bensì si misura anche sul piano politico e istituzionale, con la formazione di un governo di coalizione sia a livello centrale sia nella regione catalana. Governi nei quali la presenza di numerosi ministri anarchici sarà motivo di un continuo succedersi di luci e di ombre. La necessità vitale non solo di difendere la libertà del popolo spagnolo, ma anche di preservare la forza e l’importanza della Cnt e della Fai, protagoniste della risposta del 19 luglio, richiede infatti decisioni tattiche e strategiche che rischieranno di lacerare il tessuto militante e organizzativo del movimento libertario iberico. Ed è su questa fase, su questo lento e incerto cammino degli anarchici nelle istituzioni, cammino faticoso e pieno di ripensamenti ma anche ineluttabile, che si accentrano le riflessioni e le analisi di Claudio Venza.

Lo storico esamina con grande obiettività sia i motivi che indussero la componente più “realista” del movimento a partecipare alla formazione dei governi di coalizione (dove, comunque, l’importanza dei ministeri assegnati agli anarchici non sarà corrispondente al loro peso politico e sociale) sia quelli che spingeranno le componenti più radicali a criticare prima e ad attaccare poi, con uno strascico di discussioni e reciproche accuse che si protrarrà per anni, le scelte istituzionali dei vertici sindacali e faisti. Diversi dubbi restano aperti. Ad esempio: le collettivizzazioni vanno difese con una nuova spinta popolare e rivoluzionaria o anche, e soprattutto, garantendone la sopravvivenza “legale” impedendo ai comunisti e ai loro squallidi compagni di strada, interessati alla pacificazione sociale all’interno dello schieramento democratico borghese, di abrogarle con un semplice diktat governativo? E la guerra, ormai non più scontro di piazza ma vera e propria guerra di schieramento sul campo, la si può continuare contando sullo spirito indomito dei rivoluzionari e sulla loro autodisciplina, o diventa invece necessario “militarizzare” le milizie volontarie sottomettendole al comando di ufficiali di professione, lealisti sì ma pur sempre ufficiali? E le conseguenze degli scontri fratricidi del maggio 1937, che vedranno gli anarchici e i trotzkisti decisi a respingere le mene egemoniche e controrivoluzionarie degli stalinisti, si potranno neutralizzare più efficacemente dalle stanza ministeriali ancora, seppur per poco, sotto un formale controllo popolare o rivitalizzando la spinta propulsiva delle giornate del luglio ’36? E la irresistibile avanzata delle truppe golpiste non diventa, forse, un motivo imprescindibile per subire e fare propria quella parola d’ordine “la vittoria prima di tutto” che nei primi mesi di fervore rivoluzionario sembrava dovesse cedere il passo all’affermarsi del progetto del comunismo libertario?
Sono questi, fra i tanti, gli angosciosi interrogativi a cui gli anarchici spagnoli non poterono sottrarsi, ma ai quali dovettero necessariamente trovare una risposta, scendendo dal terreno teorico vincolato all’ideologia su quello pratico e contingente. Gli stessi interrogativi che oggi Venza sottopone al lettore, mostrando entrambe le opzioni, entrambe le soluzioni e risposte possibili: quelle che effettivamente furono date e quelle che una parte del movimento libertario non avrebbe mai voluto accettare. E lo fa – questo è uno dei meriti maggiori del libro – senza nascondere ma addirittura evidenziando le contraddizioni e le lacerazioni che squassarono irreversibilmente l’anarchismo spagnolo. E che ancora oggi sono terreno di un dibattito troppo spesso non disposto o impreparato a cogliere il problema in tutta la sua complessità. Cosa alla quale l’autore, con le sue lucide riflessioni, cerca di porre rimedio pervenendo alla conclusione di cui dicevamo all’inizio.

Massimo Ortalli

P.S. Il libro di Claudio Venza fa parte di un cofanetto che comprende anche il dvd Spagna 1936: l’utopia si fa storia con testo di Pino Cacucci e voci narranti di Paolo Rossi e Francesca Gatto. Si tratta di un bellissimo filmato originale di 56 minuti, tratto dagli archivi iconografici della Confederación Nacional del Trabajo. Citiamo dalla presentazione del cofanetto: «In queste straordinarie immagini d’archivio, girate nelle città insorte contro il golpe fascista e sui fronti in cui vanno a combattere i miliziani ancora vestiti con la tuta da operai, si rivive in diretta la passione sociale di un popolo in armi, con le donne in prima fila, che combatte per la sua libertà e al tempo stesso mette in pratica la società autogestita».

 


Le memorie
di Nello (ed Emma)

Ripercorrere, attraverso queste belle pagine, la vicenda umana e politica di Nello Garavini e della sua compagna Emma Neri vuol dire attraversare e rivivere la storia sociale di gran parte del Novecento. La biografia di queste due straordinarie figure, che hanno dedicato la loro esistenza alla diffusione del pensiero libertario, si riflette infatti compiutamente in quella dei momenti più significativi e importanti del secolo scorso, momenti spesso drammatici e difficili, vissuti non in qualità di semplici e distaccati spettatori, ma come consapevoli protagonisti.
Troveremo, in queste memorie, le prime lotte sociali con la diffusione delle idee di redenzione ed emancipazione del proletariato, i moti e le agitazioni popolari che scuotono l’Italia giolittiana, le manifestazioni contro le insensate avventure colonialiste di un’Italia che cercava nelle sponde africane quell’idea di “grandezza” che non riusciva a concretizzare sul suolo patrio. E successivamente la Grande guerra, con il suo tragico corollario di inutili stragi, spesso dettate dalla insipienza o dalla insensibilità dei vertici militari, ma anche l’aiuto che la parte più sensibile e solidale della popolazione offriva ai numerosi disertori che sfidavano i plotoni d’esecuzione pur di non sparare su proletari colpevoli solo di parlare un’altra lingua. I ricordi di Nello vanno poi alle speranze della rivoluzione mondiale con i suoi entusiasmi e le sue precoci delusioni, al tumultuoso biennio rosso e alla successiva ascesa del fascismo, segnata da un succedersi di violenze che colpiranno pesantemente anche l’autore, tanto da costringerlo ad abbandonare il paese per sottrarsi alle vendicative attenzioni delle camicie nere.
Dopo un periodo passato semi clandestinamente a Milano, ritroviamo Nello ed Emma in Brasile, dove si ricostituirà la comunità anarchica di lingua italiana che, in mezzo a mille difficoltà, non solo economiche, riuscirà a mantenere salde le radici e gli ideali del pensiero anarchico, fornendo anche aiuto militante alla Spagna rivoluzionaria aggredita dal golpe franchista. Infine il ritorno in Italia alla caduta del fascismo, la ripresa dell’attività nella Federazione Anarchica Italiana e la ricostituzione del gruppo anarchico di Castelbolognese, con la partecipazione attenta alla vita del movimento e a quella della propria comunità. Negli ultimi anni l’entusiasmo per una nuova stagione di speranze, in quel Sessantotto che vede ripartire, prepotentemente, l’idea di un mondo nuovo, quello stesso sempre vagheggiato e proposto dall’anarchismo. Infine, come conclusione di una vita così intensa, assieme ad Aurelio Lolli, la costituzione della Biblioteca Borghi, non solo testimonianza di un passato per tanti aspetti irripetibile, ma oggi anche strumento indispensabile per riaffermare, viva e vitale, l’attualità dell’anarchismo.

Montevideo (Uruguay), anni 30, Emma Neri
e Nello Garavini a passeggio

Ho avuto la fortuna di conoscere a fondo Emma e Nello, di frequentarne assiduamente la loro casa, sempre aperta, in quei lontani anni settanta, per coloro che da tutta la Romagna venivano a confrontare le loro acerbe idee con quelle meditate, cariche di vita vissuta, della coppia castellana. Non vi ho mai trovato chiusure, non ho mai sentito il distacco o la sufficienza che comprensibilmente avrebbero potuto mostrare due persone così “esperte” nei confronti di giovani tanto infervorati da essere pronti a cadere, per il troppo entusiasmo, nei molti tranelli del potere. Il pacato ragionare di Nello, l’acutezza delle intuizioni di Emma furono, in quei turbolenti momenti, un prezioso antidoto capace di preservare la vita del movimento da derive avventuristiche. E la loro generosità, non solo nella disponibilità ad ascoltare, ma anche nel procurare fogli e giornali, talvolta rarissimi, che per gli anarchici sono il pane quotidiano dell’apprendimento, fu uno dei viatici che avrebbero segnato l’esperienza di molti di noi, ancora oggi attivi all’interno del movimento libertario. E di questi libri, opuscoli e periodici, miracolosamente e amorevolmente salvati dalla distruzione e dalla censura, quelli che non furono “sparsi” tra le giovani leve, avrebbero poi costituito il fondo iniziale della Biblioteca Borghi.
Le memorie autobiografiche di Nello, che oggi possiamo finalmente vedere pubblicate, non sono state concepite e scritte per autocompiacimento o per rimarcare la straordinarietà di una esistenza. Al contrario. Per chi li ha conosciuti, la modestia di Nello e di Emma, tanto più vera perché cosciente del valore e dell’unicità della loro esperienza, è fuori discussione. Queste memorie sono state scritte, piuttosto, come un omaggio all’impegno e alle sofferenze patite da generazioni di militanti, come un atto dovuto per trasmettere, in chi potrà leggerle, una visione della storia svincolata, sì, dalla ufficialità dell’accademia ma non per questo meno aderente al significato profondo di ciò che ha rappresentato il Novecento. La vita di Nello, la sua esperienza di lotta è come quella di centinaia, di migliaia di altri come lui che opposero la propria dignità e il proprio ideale alla violenza del potere. Fosse, questo potere, quello della dittatura o della falsa e incompiuta democrazia. È una lezione la sua, anche se di “lezioni”, pur potendo, lui non ne ha mai voluto dare.
Dedico queste mie parole, che per quanto sentite non potranno certo corrispondere all’intensità dei sentimenti, alla carissima Giordana Garavini, la figlia di Emma e di Nello, che ha fortemente e pienamente condiviso tutte le loro gioie e le loro sofferenze.

Massimo Ortalli

 

 

Alle origini
della CNT

Se già è stato scritto moltissimo, quasi tutto, sulla Rivoluzione spagnola e sul ruolo particolarmente importante che vi hanno avuto gli anarchici (è di questi giorni, ad esempio, l’uscita per l’editrice Eleuthera dell’ultima fatica di Claudio Venza, con le sue riflessioni, come sempre stimolanti, sui rapporti intercorsi tra anarchici e potere), meno si è pubblicato sulla storia dell’anarcosindacalismo negli anni precedenti la rivoluzione spagnola. Sembrerebbe, infatti, che la preminenza del periodo rivoluzionario abbia contribuito a far sì che la ricerca storiografica sulle origini delle organizzazioni sindacali spagnole, fatte ovviamente le debite eccezioni, venisse messa in secondo piano, se non trascurata. Un buon contributo, per approfondire taluni aspetti di queste tematiche, è un libro recentemente uscito (Fulvio Caporale, Il sogno anarchico. Storia dei Sindacati Anarchici a Barcellona 1906-1915, Piccola Casa Editrice Acquaviva, 2008, € 12,00) nel quale il giovane autore, tramite l’attento ed accurato studio delle fonti compiuto in una trasferta di studio nella capitale catalana, si propone di ricostruire il lungo processo organizzativo della combattiva classe operaia di Barcellona e della intera Catalogna.
Il lavoro di Caporale si sviluppa quindi secondo alcune direttrici che vanno ad indagare il complesso percorso che vede la chiarificazione ideologica, tattica e strategica fra le tre principali componenti della sinistra catalana, quella anarchica, maggioritaria e particolarmente combattiva, quella repubblicano-radicale, presente in ampi settori popolari, e quella socialista, strutturalmente legata alle istanze socialdemocratiche presenti nel resto d’Europa e segnatamente in Francia.
La nascita della Cnt appare così l’approdo di un percorso complesso che si snoda attraverso una serie di passaggi storici che interessano la società catalana nei primi decenni del Novecento, allorché le istanze laiche e repubblicane vengono prendendo forma radicandosi profondamente nel corpo sociale. Le diverse anime della sinistra si confrontano a lungo attraverso ipotesi organizzative dapprima comuni ma che verranno via via evidenziando la inconciliabilità, al di là delle dichiarazioni di principio, delle ipotesi istituzionali e rivoluzionarie che vi si esprimono. Nel cuore di questo confronto, che troverà una significativa e definitiva occasione di sintesi nel corso degli avvenimenti che prenderanno nome, nel 1909, di semana tragica, la spinta degli anarchici e degli anarcosindacalisti troverà modo di portare all’organizzazione specifica, attraverso un processo di chiarificazione interna, che condurrà, sul finire del 1910, alla nascita della Confederaciona Nacional del Trabajo, il sindacato destinato a diventare la forza egemone del sindacalismo spagnolo e la vera interprete delle pulsioni rivoluzionarie sempre presenti nel proletariato iberico. Come gli avvenimenti del 1936-1939 mostreranno ampiamente.

Massimo Ortalli