Rivista Anarchica Online


dossier strage di stato

40 anni
dopo

 

È stata la madre di tutte le stragi, quella che ha iniziato in Italia la stagione del terrorismo e soprattutto del terrorismo di Stato. A quarant’anni da quelle vicende proponiamo questo dossier prevalentemente iconografico.
Apre il dossier uno scritto di Luciano Lanza, direttore della rivista nostra cugina Libertaria, tra i fondatori di “A” e membro del nostro collettivo redazionale nel primo decennio (1971-1981), nonché autore per i tipi di Elèuthera dell’ottimo “Bombe e segreti” di cui esce in queste settimane una nuova edizione ampliata.
Segue la ristampa di due articoli apparsi sui primi due numeri di “A”, due interviste: una a Rachele Torri (zia di Pietro Valpreda) e l’altra a Guido Calvi (uno degli avvocati dello stesso Valpreda). Le ripubblichiamo per il loro interesse specifico, segnalando come l’uso sistematico dell’intervista sia stata allora una novità introdotta dalla nostra rivista nel panorama della comunicazione libertaria.
Conclude il dossier una lunga serie di immagini di “allora” (manifesti murali, giornali anarchici, dossier ecc.). Per questa ricerca iconografica, grazie a Roberto Gimmi.


dossier strage di stato

Una storia infinita

di Luciano Lanza

Se qualcuno pensa che tenere nel discorso sociale e politico la strage di piazza Fontana e la morte di Giuseppe Pinelli sia un’operazione storica si sbaglia di grosso. No, quei morti continuano ad «analizzare» la società italiana. Perché quel crimine ha modificato il percorso di questo paese.

C’è una frattura nella società italiana che non si è ancora ricomposta. E pensare che sono passati quarant’anni. La cosiddetta frattura data infatti dal 1969. Quell’anno, segnato da una sequenza impressionante di attentati piccoli e grandi, ha il suo drammatico epilogo il 12 dicembre 1969. Bombe a Milano: alla Banca nazionale dell’agricoltura (17 morti e quasi cento feriti) e una bomba inesplosa alla Banca commerciale italiana di piazza Cordusio. Bombe a Roma: alla Banca nazionale del lavoro in via Veneto (14 feriti) e all’Altare della patria, in piazza Venezia (quattro feriti).
Da quella strage inizia una storia infinita che si concluderà nei tribunali ben 36 anni dopo: il 3 maggio 2005. Con un epilogo incredibile: quelle bombe non le ha messe nessuno. Tragitto più breve, invece, ha la ricerca di responsabilità della morte nella questura di Milano di un fermato subito dopo gli attentati. Si tratta del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli che, stando alla sentenza del 1975 dell’allora magistrato e oggi senatore del Pd, Gerardo D’Ambrosio, sarebbe precipitato da una finestra del quarto piano per colpa di un «malore attivo», un malore così improvviso da non permettere ai poliziotti presenti nella stanza di riuscire a fermare la caduta.
Perché frattura? Perché quelle bombe e quei morti ci raccontano il «lato oscuro» del potere, di una classe politica, degli apparati dello stato italiano. Ci raccontano la volontà di «normalizzare» con il terrore i fermenti di una parte consistente della società italiana che voleva un profondo cambiamento. Ci raccontano come la paura di perdere il potere politico abbia «consigliato» la politica delle bombe.
E nonostante il passare degli anni abbia depositato tanta polvere su quegli avvenimenti, abbia reso incerta la memoria, abbia appannato l’orrore, la frattura permane. Incredibile, vero? Eppure…
Quel 12 dicembre 1969, infatti, ha scritto un percorso della storia italiana. Ha modificato il discorso sociale e politico, tanto che si può con certezza affermare che c’è un prima e un dopo le bombe. Insomma, un tragico salto qualitativo.
Allora focalizzare l’attenzione su un fatto di quarant’anni, richiamare il senso della memoria non è operazione solo storica, ma è qualcosa di ancor più rilevante. Non è un caso che classe politica e mass media stiano lavorando per modificare (ancora una volta) il senso e il significato di quegli avvenimenti. Se la frattura fosse stata ricomposta non ci sarebbe bisogno di voler rileggere la storia secondo «una memoria condivisa». Questo ritornello ripetuto ogni volta che si sente echeggiare «12 dicembre 1969» significa che l’operazione di rimozione non ha avuto quel successo ricercato da chi deteneva e detiene il potere.

Luciano Lanza

Pietro Valpreda (a sinistra nella foto) il 7 dicembre 1970
di fronte alla 5ª sezione del Tribunale Penale di Roma
dalla quale è stato condannato a tre mesi di reclusione
per «rissa». Valpreda era stato aggredito da una decina di
fascisti, il 15 novembre 1969 mentre cenava con un compagno
(Roberto Garganelli, a destra nella foto, anch’egli detenuto
a Regina Coeli per gli attentati del 12 dicembre 1969)
in una trattoria di Trastevere.
La polizia era intervenuta dopo la fuga dei fascisti ed aveva
fermato, incriminandoli, i due anarchici


dossier strage di stato

A colloquio con la zia e con l’avvocato

di Antonella Schroeder e A.B.

Sui primi due numeri di “A” vennero intervistati sull’arresto di Pietro Valpreda la mitica zia Rachele Torri (una vecchietta che resistette ai meccanismi stritolanti dei mass-media e del Potere) e l’avv. Guido Calvi (allora PCI, oggi Democratici).
Rileggerle 40 anni dopo è sempre utile.

Rachele Torri, prozia di Pietro Valpreda, mentre esce
dal Palazzo di Giustizia di Milano.
Valpreda passò il pomeriggio del 12 dicembre 1969 da lei,
a letto malato. Il tassista Rolandi sostiene invece
di aver portato Valpreda, quel pomeriggio alla
Banca della Agricoltura. Per aver contraddetto
il «teste ufficiale» la signora Torri
è stata incriminata per falsa testimonianza

(Tratto dal n. 1 di “A”, febbraio 1971)

La zia Rachele

di Antonella Schroeder

Intervista con la principale testimone dell’alibi di Valpreda

Non si dimentica facilmente un colloquio con la signora Rachele Torri, prozia di Pietro Valpreda, tale è il senso di ammirazione e di rispetto che si prova nei suoi confronti, nei confronti di una donna di più di settant’anni, fiera e battagliera come una leonessa, sincera e precisa fino al puntiglio. In lei non si scorgono tentennamenti né mezze misure, le parole hanno un senso preciso e difatti una giusta collocazione. I capelli bianchi e gli occhi cerulei di persona anziana non mitigano la sua forza e la sua decisione. Mi riceve come al solito sorridendo, in casa sua, contenta di parlare di tutto quello che è successo con una persona amica, lei sempre sola.
«Chi le ha comunicato che Piero era stato fermato?»
«Da mia sorella, la nonna di Piero, angosciata e furiosa, ho saputo che degli uomini al Palazzo di Giustizia le avevano portato via Piero sotto gli occhi, senza qualificarsi né dare spiegazioni. Ho saputo in seguito che era stato fermato, da tre poliziotti, quelli che sono venuti a fare la perquisizione a casa mia la sera stessa».
«Come si è comportata la polizia con lei?»
«Hanno detto che erano i rappresentanti della giustizia e che facevano il loro dovere; si figuri! Allora ho chiesto subito di vedere Piero, perché l’avevano portato via che era ammalato. Quello che sembrava il capo di quei poliziotti dapprima mi ha risposto negativamente, poi mi ha detto che in me c’era qualcosa di commovente e perciò di andare l’indomani in questura. Difatti il martedì pomeriggio mi sono subito recata in questura con un legale, ma lì, in un caos indescrivibile, abbiamo saputo che Piero era stato portato a Roma».
«Ha avuto altri contatti con la polizia?»
«Sì, quando sono venuti a fare il sequestro di indumenti. Erano in quattro, hanno portato via tutta la roba di Piero ed io ero molto angosciata, si può immaginare: mi sembrava che me lo portassero via un’altra volta. Ricordo che uno di loro, Mainardi mi sembra, mi ha chiesto il permesso di scrivere al mio tavolino; al mio consenso, ha spiegato sul tavolo un giornale (per non rovinare il tavolo, disse lui) e questo giornale era “La Notte” (quotidiano parafascista milanese – n.d.r.), che a caratteri di scatola riportava qualcosa come “Pietro Valpreda, indiziato n.1”. Scoppiai a piangere e Mainardi, con fare ironico, mi chiese che cosa mai avessi. Queste sono cattiverie che non posso dimenticare. Era la seconda volta che “La Notte” entrava in casa mia; la prima volta fu quando la comprai in via Dogana per portarla a Piero, la sera che sono andata a prendere il famoso paltò...».
«Ci può raccontare qualche cosa di preciso di quella famosa tragica sera del venerdì 12 dicembre 1969?»
«Sì, sì, il ricordo è sempre vivo in me e mi ossessiona. Piero era a letto malato con la febbre, bisognava andare a prendere il cappotto che avrebbe usato l’indomani per andare dal giudice Amati in ordine. (Valpreda, com’è noto, era venuto a Milano per essere interrogato da Amati su una faccenda di “stampa clandestina”; l’interrogatorio doveva svolgersi la mattina di sabato 13 dicembre, ma fu rinviato a lunedì 15, per l’assenza del giudice Amati – n.d.r.). Sa a queste cose io ci tenevo... Bene, ci andai io. Saranno state le 19-19.30 e ricordo che salendo sull’autobus “E” in piazza Giovanni dalle Bande Nere una signora ha aperto “La Notte” e ho visto a grossi caratteri qualcosa di morti... morti; le chiesi se fosse stato un incidente e lei mi rispose che erano state le bombe. Sono scesa in Piazza del Duomo, e passando in via Dogana per prendere il tram “13” e per andare in piazza Corvetto dai genitori di Piero, mi sono fermata alla edicola ed ho comprato “La Notte”. Arrivata da mia nipote (la signora Ele Lovati Valpreda, madre di Valpreda – n.d.r.) le ho detto che Piero era arrivato, che stava male che perciò ero andata io a prendere il cappotto. La sorella di Piero, la Nena, mi ha raccomandato di farlo mangiare, mi ha dato il cappotto e le scarpe.
Allora sono tornata subito a casa, ho detto a Piero che sua sorella gli raccomandava di mangiare, poi gli ho dato il giornale. Vorrei ricordare un altro particolare di quella sera, di cui si è parlato e che è stato molto travisato: lo straccio sul motore della sua automobile. Prima che io andassi dei suoi genitori per il cappotto, Pietro mi disse di coprire il motore con uno straccio, altrimenti la macchina (la famosa “500” con cui Valpreda avrebbe compiuto nel giro di poche ore il tragitto Roma-Milano-Roma-Milano – n.d.r.) non sarebbe più partita per il freddo. Così infatti feci, ma siccome per prendere lo straccio dovevo aprire la porta-finestra che c’era in camera sua per andare sul balcone, gli ho raccomandato di stare sotto le coperte ed ho socchiuso la finestra il meno possibile”.
«È per aver detto questo, per aver testimoniato quello che ha appena finito di ripetere, che l’hanno incriminata per falsa testimonianza?»
«Sì, perché ho detto la verità, perché ho detto che il Piero era a letto malato, quel pomeriggio, e quindi non poteva essere in piazza Fontana come dicono loro.»
«Qual è stata la reazione della gente nei suoi confronti?»
«La gente con me non è stata sgarbata, nessuno mi ha voltato le spalle o detto qualche cosa di cattivo, anzi le vorrei fare notare che alcune persone, che non mi avevano mai parlato, mi hanno avvicinato proprio in questa occasione. Ho avuto però delle lettere anonime molto cattive soprattutto nei miei confronti, lettere che sostenevano per esempio che ero un rifiuto dell’umanità, perché difendevo un assassino: è proprio questo che mi fa pensare che non può averle scritte la gente del popolo, ma altri, per chissà quale scopo...»
«Intimidatorio?» le chiedo. Diplomaticamente la zia allarga le braccia sospirando.
«Non saprei ripetere le esatte parole delle lettere anche perché le confesso sinceramente che disprezzo talmente le lettere anonime e chi le scrive, che non le leggevo neanche per intero, perché mi facevano schifo. Si immagini che la prima lettera che ho ricevuto era su carta listata a lutto ed io credevo si trattasse di qualche annuncio funebre; quando ho cominciato a leggerla, però, ho capito, dalle insolenze che mi erano rivolte, di cosa si trattasse e l’ho stracciata.»
«Quanti interrogatori ha subito e da parte di chi?»
«Dalla polizia non ho subito interrogatori, né ho subiti invece quattro dalla magistratura. Il primo a Milano dal dottor Paolillo, poi a Roma dal giudice Cudillo e dal dottor Occorsio ed infine di nuovo a Milano dal giudice Amati.
La prima volta, quando sono andata dal dottor Paolillo, sono entrata completamente sprovveduta, impreparata ad un interrogatorio; fortunatamente mi hanno accompagnata Boneschi e Mariani, i miei avvocati, e sono loro che mi hanno detto di stare calma, di non preoccuparmi e soprattutto di dire la verità. Questa frase mi è rimasta impressa, non l’ho mai dimenticata: dovevo dire la verità e loro lo sapevano, mi credevano. Ricordo che quando sono uscita, dopo aver parlato con Paolillo, ero proprio felice, sì, felice sollevata per aver parlato con un giudice, per aver detto la verità ed essere stata creduta. Ne sono sicura. Con il giudice Cudillo a Roma è stata una cosa diversa, perché lui è un altro tipo, più freddo e distaccato, direi impenetrabile: il suo interrogatorio è stato più lungo e minuzioso, ma non faticoso. Con Occorsio, poi, l’ultima volta, è stato molto diverso: mi pareva di avere di fronte un nemico, che cercava di farmi confondere con un’infinità di domande su particolari sottilissimi e marginali; nonostante questo non mi sono mai confusa né contraddetta, dal momento che ho sempre detto la verità.»
«È una domanda spiacevole, signora, ma come pensa che finirà il processo?»
«Sarò forse ingenua, ma non potranno mai condannare Piero... è così logico. Come fanno a condannare un innocente? Aggiungerebbero un’altra vittima a tutti quei morti di piazza Fontana, al povero Pinelli... non ho dubbi perché i dubbi nascono a chi è in colpa ed io non ho altra colpa che quella di sostenere l’innocenza di un innocente.»
«Lei approva le idee di suo nipote?»
«Non ero prevenuta nei confronti degli anarchici, semplicemente questo. Non ero neanche di nessun partito in particolare. Sapevo che Pietro era anarchico, perché me ne parlava sempre quando eravamo assieme ed io sulle sue idee non ho mai avuto niente da ridire, anzi, i sentimenti di Pietro non sono comuni: peccato che di persone come Valpreda ce ne siano poche in Italia! Guardi che glielo dice una cattolica credente e praticante. Il mio “povero Pisacane”, come lo chiamavo affettuosamente, mi diceva cose che io non avevo mai sentito in settant’anni, pur frequentando ambienti cattolici.
Proprio ragionando su questo ed immaginando che i suoi compagni fossero come lui, mi sono fatta accompagnare da Pietro al Ponte della Ghisolfa, il circolo anarchico: devo dire sinceramente che mi sono quasi commossa, perché ho visto tanti ragazzi, seri ed al tempo stesso allegri, uniti da qualche cosa di particolare, oltre all’amicizia; uno parlava, uno rideva, ricordo anche Pinelli che scriveva a macchina...
Ho avuto l’impressione di vedere tanti fratelli, come una famiglia di quelle di una volta, che ora non ci sono più».
«Da quanto tempo suo nipote è anarchico?»
«Piero è anarchico da sempre, i suoi sentimenti di ieri sono quelli di oggi; ha sempre odiato i soprusi, le ingiustizie, le divise: fare il servizio militare per lui è stato un vero calvario. È sempre stato generoso, altruista: mi ha sempre portato a casa gente che non aveva da mangiare, cercava di aiutare chi era in difficoltà. Spesso chiacchierando con me, Pietro diceva che se fosse morto avrebbe voluto sulla bara la bandiera anarchica e che tutti i suoi libri fossero lasciati ai compagni. Mi faceva anche promettere che se avessi vinto alla lotteria, gli avrei dato metà della vincita a favore dei compagni, per le colonie dei bambini».
«Si è mai vergognata di avere il nipote in carcere?»
«Se avessi come nipote un fascista fuori di galera sarei molto meno orgogliosa che di avere il mio Pietro, onesto, purtroppo dentro».
«Potrebbe in qualche modo ritrattare quello che ha detto ai giudici?»
«Che nessuno osi farmi una domanda del genere. Alla Corte d’Assise non so come mi comporterei se me lo domandassero. Chiedetelo al tassista, non alla zia di Valpreda! Io ho chiesto di avere un confronto con Rolandi, ma mi è stato rifiutato. Chissà perché...»

Antonella Schroeder


dossier strage di stato

(Tratto dal n. 2 di “A”, marzo 1971)

Lo stato contro Valpreda

di A. B.

Intervista con l’avv. Calvi

Milano, palazzo di giustizia. Un uomo esce dall’ufficio del giudice Amati e si avvia verso una anziana parente che lo sta aspettando nel corridoio. Ha appena mosso un paio di passi che tre poliziotti in borghese lo afferrano e lo trascinano via. Di peso. Pietro Valpreda, 15 dicembre 1969.
Tre giorni prima era scoppiata una bomba nella Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana ed ecco che, catturato romanzescamente Valpreda, l’opinione pubblica ha il suo capro espiatorio e gli organi repressivi dello Stato la loro vittima. Sembra fatto apposta, il Pietro Valpreda, per questo ruolo. È un anarchico, perciò un mostro, colpevole fino a prova contraria. È un ballerino, perciò un irregolare, un depravato e (non sono tanto lontani i tempi in cui i teatranti venivano sepolti in terra sconsacrata). È affetto dal morbo di Bürgher e zoppica (non è vero, ma dà un tocco diabolico al personaggio e i giornali lo scriveranno, assieme a tante altre menzogne e calunnie, nei giorni successivi). Non è un impiegato simpatizzante del PSDI, dunque è lui che ha messo la bomba omicida. Chiaro.
Purtroppo Valpreda per il 12 dicembre ha un alibi di ferro, ma non importa, basta l’ambiguo riconoscimento di un tassista e l’incriminazione dei testimoni che sostengono l’alibi e Valpreda Pietro, ballerino anarchico, è sistemato.
Un anno dopo, l’istruttoria (se così si può chiamarla, né possiamo chiamarla altrimenti senza farci incriminare) del PM Occorsio si chiude con una relazione chilometrica ma totalmente vuota, contraddittoria, assurda, priva di prove e indizi da lasciare esterrefatti i “democratici”. Meno stupiti gli anarchici, smaliziati, che conoscono da sempre (sulle loro spalle e su quelle degli sfruttati e dei ribelli in genere) il funzionamento della giustizia di classe, della giustizia di Stato. Pietro Valpreda ed alcuni ragazzi, suoi presunti complici, vengono rinviati a giudizio per strage, ma la relazione con cui viene motivato il rinvio sembra piuttosto la riprova della loro innocenza.
Quattordici mesi dopo la “strage di Stato” (come ormai tutti la chiamano, con ciò dando per scontato che essa non può essere opera di anarchici), abbiamo intervistato l’avvocato Guido Calvi, il primo difensore di Valpreda (successivamente gli si è aggiunto il professor Sotgiu).

Roma. L’avvocato Giudo Calvi con i genitori di Pietro
Valpreda. Valpreda dal dicembre 1969 è detenuto
nel carcere romano di Regina Coeli,
incriminato di « concorso in strage »

Calvi, assistente di filosofia del diritto all’Università di Camerino, è giovane, non più di trent’anni. La sua età è la prima cosa che mi colpisce e gli chiedo se, data la sua esperienza necessariamente limitata, non senta questo incarico come sproporzionato alle sue forze.
«Domando a te – mi risponde – chi, di fronte alla gravità delle imputazioni, non sentirebbe le proprie forze limitate, inadeguate al compito di capovolgere la situazione e ristabilire la verità. Per questo credo che il primo obiettivo da raggiungere sia la solidarietà di tutte le forze sinceramente democratiche».
«Sei stato nominato d’ufficio difensore di Valpreda?»
«No, sono stato nominato da Valpreda suo difensore di fiducia. Sarebbe interessante sapere da chi, come e perché furono diffuse voci difformi».
«Hai avuto dubbi nell’accettare l’incarico? Hai avuto dubbi sulla innocenza di Valpreda?»
«Sì, come tutti, credo. Ma dopo aver parlato con Valpreda e dopo avere incontrato la zia Rachele (la signora Rachele Torri, principale testimone dell’alibi di Valpreda; n.d.r.) non ho avuto più alcun dubbio».
«La tua linea di difesa è stata definita debole, rinunciataria, passiva... perché non ha ritenuto opportuno assumere una linea più aggressiva?»
«È difficile valutare una linea di difesa sulla base di alcuni risvolti tattici ignorandone la strategia generale. Certo, alla fine potrà anche risultare che vi sono state debolezze, errori, incertezze. Ma lo strano è che queste accuse siano nate subito, quando ben poco era possibile fare e quando gli interessi di Valpreda, bisognerebbe ricordarlo più spesso, imponevano una ferma cautela.
Chi sostiene l’identità di diritto e politica (opinione rispettabile ma marxisticamente discutibile), dovrebbe anche ricordare che esse, comunque, sono scienze ove nulla vi è di improvvisato e di avventato. Se il fine del difensore è operare perché emerga l’innocenza dell’imputato, quando egli è tale, tutto deve essere subordinato a questo. Vi sono questioni politiche? Bene, emergeranno sicuramente molto più clamorosamente dopo una sentenza di assoluzione. Pertanto quale senso può avere la qualifica di aggressiva o debole attribuita ad una linea difensiva nella fase istruttoria (segreta e non pubblica!) del processo? Sono “aggressive” le dichiarazioni violente, le istanze di violazione dei diritti della difesa, le interviste sui rotocalchi? Non credo davvero.»
«Hai avuto fastidi? Sei seguito, controllato...? Hai ricevuto minacce o intimidazioni?»
«Sì, sono stato controllato e minacciato, ma rientrava nelle previsioni».
«È vero che sei stato incriminato per vilipendio alla magistratura?»
«La mia ‘memoria difensiva’ sui famosi vetrini (vetrini che la polizia avrebbe ‘trovato’ tre mesi dopo gli attentati nella borsa che conteneva la bomba inesplosa della banca commerciale; n.d.r.) conteneva, a giudizio del Pubblico Ministero Occorsio, espressioni lesive della dignità del giudice istruttore Cudillo. Contrariamente a quanto certa stampa riferì, non ci fu da parte mia nessuna giustificazione né tanto meno ritrattazione. Solo, precisai che il mio documento non inficiava la stima personale che potevo nutrire nei confronti del Dr. Cudillo, ma sottolineava il fatto che, per il modo in cui il nostro diritto processuale articola la fase istruttoria, questa è volta più alla conferma delle tesi accusatorie che alla ricerca della verità. Il P.M., dopo aver chiesto che la mia memoria fosse inviata alla Procura della Repubblica e al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati perché procedessero nei miei confronti, cambiò idea e revocò la richiesta. L’aspetto più positivo di tutta la questione è che oggi i vetrini non sono più fonte di prova contro Valpreda.»
«Tu sei un militante del P.S.I.U.P. Questo non ti è di limite in qualche modo nella difesa di un anarchico?»
«È una domanda che non mi aspettavo. Mi sembra che subito dopo i fatti gli unici avvocati politici che assunsero pubblicamente la difesa degli imputati, a Roma, fummo Nicola Lombardi ed io: ambedue del P.S.I.U.P.»
«Negli ultimi mesi la stampa della sinistra parlamentare pare essersi allineata su una posizione ambigua nei confronti dell’istruttoria per la “strage di stato”, una posizione sostanzialmente non dissimile dall’ultima versione ufficiale (cioè non più colpevoli gli anarchici, ma alcuni pseudo-anarchici); non credi che questo atteggiamento possa derivare da compromessi politici tra governo e opposizione? Non credi che si voglia così chiudere il discorso sulle bombe, la ricerca dei veri autori e soprattutto dei mandanti e dei complici? Ci sembra che, come si tenta di chiudere il caso Pinelli con la formula “Pinelli: innocente ma suicida”, così si voglia chiudere il caso Piazza Fontana con la formula “Valpreda e gli altri: colpevoli ma pazzi”. Che ne dici?»
«Non la ritengo una ipotesi politica verosimile.” (noi riteniamo il contrario- n.d.r.)
«Quando pensi che si farà il processo? È vero che si parla del prossimo autunno? Questo rinvio sarà ufficialmente giustificato con motivi tecnici, ma secondo te non ci sono invece motivi politici per rinviare un processo che “scotta”?»
«Motivi di opportunità politica certamente vi sono. Vedremo in quale considerazione saranno tenuti nel fissare la data del processo.»
«Valpreda, in dicembre, è stato ricoverato nell’infermeria del carcere; dunque, dopo un anno comincia a risentire del cibo e del clima di Regina Coeli e della tensione. Se il processo tarderà ancora un anno non c’è il rischio che la galera finisca con il “suicidare” Valpreda?»
«Il rischio c’è, ed è anche notevole; occorre che tutti manifestino a Valpreda la propria solidarietà affinché egli non si senta isolato. Peggior nemico è sicuramente il “suicidio” psicologico.»
«Puoi esprimere il tuo parere sul modo in cui è stata condotta l’istruttoria per le bombe del 12 dicembre, senza incorrere nel reato di vilipendio alla magistratura?»
A questa domanda Calvi non ha risposto.
Quando Calvi mi ha riaccompagnato all’albergo, da una automobile che ci seguiva, si è sporto un “signore” che mi ha fotografato. Il fatto non mi ha preoccupato: sono già ben schedato, alla Questura.

A. B.


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Sui muri

ricerca iconografica di Roberto Gimmi