Rivista Anarchica Online


ricordando l’anarchenologo

Veronelli politico
di Marc Tibaldi

A cinque anni dalla scomparsa di Luigi Veronelli, un ricordo delle sue battaglie culturali e politiche.

 

Commentando la Fisiologia del gusto di Brillat-Savarin, Roland Barthes ci ricorda che il celebre scrittore ottocentesco francese “ha compreso chiaramente che, in quanto soggetto di discorso, il cibo era una specie di griglia, attraverso la quale si potevano far passare tutte le scienze che noi oggi chiamiamo sociali ed umane... il cibo fu per lui una specie di operatore universale del discorso”. Anche Luigi Veronelli ha lavorato su questa strada, infatti ci ha insegnato l’ascolto del racconto di un vino e di ogni altro prodotto della terra, ma anche l’ascolto di ciò che sta dietro il prodotto finale, le relazioni sociali, ambientali, economiche e quindi politiche.
Hanno fatto benissimo quindi i compagni di Gualtieri ad organizzare un incontro su “Veronelli politico” *.
“Veronelli politico” è un titolo azzeccatissmo. Il comunicato stampa che presentava la serata conteneva invece – secondo me – una mezza verità. Veronelli rischia di essere messo “nel giardino dei frutti dimenticati”, sosteneva il comunicato. Non credo che questo possa succedere. Non occorrerà aspettare nemmeno un anniversario particolare della sua scomparsa – quando le “vedove enogastronomiche” di Luigi si scateneranno, statene certi – per verificare che così non sarà, infatti già da qualche anno esiste un premio Veronelli, finanziato e promosso niente meno che da Paolo Panerai, finanziere e editore di Milano finanza e Capital (esiste perfino un’”Associazione Luigi Veronelli per il vino italiano” che raggruppa trasversalmente un centinaio di parlamentari). Quello che il citato premio dimentica e le future manifestazioni probabilmente dimenticheranno è e sarà proprio la dimensione politica di Luigi. Forse ne accenneranno soltanto di sfuggita, mettendo invece l’accento sugli aspetti enogastronomici e culturali.
Ma cosa intendiamo per “politico”? Intendiamo le enunciazioni di principio o la concretezza dell’intreccio tra pensiero e azione? Sappiamo che le dichiarazioni di principio lasciano il tempo che trovano, infatti tra un fine settimana di cure estetiche da Chenod e un pranzo dallo chef di grido, tra un idiota programma tv e un’intervista al settimanale di gossip, ultimamente si dichiarano anarchici anche alcuni decerebrati che appaiono in televisione.
Ci interessa invece la dimensione politicamente pragmatica ed ereticamente anarchica di Veronelli e l’intreccio tra pensiero e azione che contraddistinse soprattutto i suoi ultimi anni.
Prima di parlare del Veronelli politico nel senso di cui è interessante parlarne, proviamo però a dare qualche cenno della biografia politica e delle sue frequentazioni politiche. In questo mi appoggio solo sulla mia memoria e su ciò che lui mi ha raccontato nel corso di nove anni di amicizia. Non ho avuto il tempo di fare ricerche e neppure mi interessa farle. Credo che nel fare la storia si corra sempre il rischio di bloccare il divenire, di piantarsi nel rivendicare un’eredità, un’origine. Meglio fare la geografia, una memoria fatta di intensità, eventi, lampi, battiti, campi magnetici che possa servire per tracciare sentieri sperimentali per il futuro, per vivificare l’intensità del pensiero veronelliano senza ripetizioni.

Luigi Veronelli

Un anarchico liberal?

Luigi nasce a Milano nel 1926, frequenta il liceo classico Parini, poi l’Università statale, dove è allievo di Giovanni Emanuele Bariè, teorico della filosofia neotrascendentale. Nel ’43 ha 17 anni ed è antifascista ma non partecipa alla Resistenza, di ciò gli rimarrà sempre un dispiacere. Nel dopoguerra segue un ciclo di conferenze di Benedetto Croce presso la sede del Partito Liberale a Milano. Lì sentirà dal vecchio filosofo la frase che spesso citava: “l’umanità viene da un’anarchia selvaggia, il suo scopo è pervenire a un’anarchia superiore”. Luigi usava questa frase del moderatissimo filosofo idealista per convincere anche gli interlocutori più cinici e disincantati a prendere in considerazione la possibilità utopica.
Nel 1956 fonda la Veronelli Editore. Le pubblicazioni hanno subito il segno dei suoi interessi libertari, libertini, enogastronomici: “Racconti, novelle e novelline” di de Sade (che gli procurerà una denuncia e la condanna al rogo dei libri, l’ultimo rogo di libri fatto in Italia), “La proprietà è un furto” di Proudon, le poesie di Pagliarani, la rivista “Il gastronomo” e quella di filosofia “Il pensiero”, poi – interessante – per qualche anno (dal 1961 al 1964?) fu l’editore della rivista “Problemi del socialismo” diretta da Lelio Basso. Interessante e strano. Il socialismo di Lelio Basso aveva delle connotazioni libertarie, antistaliniste e consiliariste (Basso fu tra l’altro curatore delle traduzioni italiane degli scritti di Rosa Luxemburg) ma era fortemente marxista. Nel panorama politico pre ’68 – quindi prima dell’avvento di quella che verrà definita sinistra extraparlamentare – Basso si colloca idealmente a sinistra del PCI. Veronelli, nelle nostre chiacchiere, ha sempre avuto in stizza comunismo e marxismo.
Queste dichiarazioni erano origine di amichevoli baruffe (altre erano originate dalle sue proposte di partecipazione elettorale libertaria, dalla sua visione romantica della figura del contadino, dove i latifondisti non si distinguevano dai braccianti, dalla proposta delle de.co.). Gli ricordavo che, se è pur vero che in nome del comunismo si sono commessi crimini paurosi, se è vero che gli anarchici e i comunisti antiautoritari furono i primi a subire le conseguenze del comunismo di Stato, e anche vero che l’anarchismo come movimento politico viene dalla storia del movimento proletario e dalla cultura della Prima internazionale, che lo slogan di Malatesta era “non c’è comunismo senza libertà, non c’è libertà senza comunismo”; ma da quell’orecchio Luigi non ci sentiva. Possiamo dire che era un anarchico liberal, ed è quindi strana la sua adesione alle idee di Lelio Basso e la pubblicazione di “Problemi del socialismo”.
Veniamo invece alla politica politicante. Luigi sosteneva di essere stato iscritto al PSI fino all’arrivo di Craxi, arrivo che lui collocava intorno alla metà degli anni Sessanta. Verso la fine degli anni Settanta fu consigliere comunale a Ponte di legno (dove aveva una casa di vacanza) per una lista legata al PSI e fu direttore della stazione sciistica di Passo Tonale. Verso la fine degli anni ’80 o inizio ’90 (prima di “manipulite”, del tracollo della prima Repubblica e della lobby di Craxi) fu invitato – come molti altri volti celebri della televisione – a candidarsi alle politiche nelle liste del PSI. Rinunciò – pur tentato (l’ho scampata bella!, diceva) – grazie al consiglio di Gianni e Paola Mura. Questo ricordo ci dice qualcosa dell’ingenuità di Luigi in merito alla politica politicante.
Dopo il grande successo televisivo degli anni ‘60 e ’70 con la trasmissione “A tavola alle sette”, Veronelli partecipa al lancio della terza rete Rai, è lì che gli “scappa” di dichiararsi anarchico, iniziando a entrare nelle antipatie di vari dirigenti che gliela faranno pagare escludendolo definitivamente dai teleschermi – così lui la raccontava. In quel periodo – inizio anni Ottanta – in varie interviste e articoli che mi è capitato di leggere anche di recente Luigi si dichiara “anarchico” o “anarca”. “Anarca” è un concetto di Ernst Junger, scrittore reazionario e nazista eccentrico, che proponeva un aberrante anarchismo al di là dell’anarchismo. L’anarca – sosteneva Junger – non rifiuta il potere perché è un essere superiore che non si fa corrompere dal potere! Non credo assolutamente che Veronelli condividesse le idee di Junger, penso si fosse fatto affascinare dal neologismo.
In quel periodo viene contattato da varie realtà del movimento anarchico.

L’incontro con i movimenti

Nel 1984 – anno orwelliano – il centro studi libertari Pinelli di Milano e altri gruppi organizzano un grande convegno-raduno internazionale anarchico a Venezia. Veronelli manda in omaggio parecchie bottiglie di vino e sceglie il vino da imbottigliare, da vendere agli stand gastronomici, e la frase da apporre in etichetta. Conservo ancora – vuota, ovvio! – quella bottiglia.
Diventa amico degli anarchici milanesi, ma il gruppo politico ribelle con cui entra in sintonia collaborativa è quello del centro sociale autogestito Magazzino 47 di Brescia. Si tratta di una delle realtà antagoniste che nascono alla fine degli anni Ottanta e non hanno una connotazione precisa, è un’area che si coagula attorno a ciò che resta del movimento dell’autonomia non organizzata e di nuove controculture libertarie. Con quest’area – i “giovani estremi”, li chiamava – Luigi dialoga e cerca di declinare alcune sue importanti intuizioni. All’inizio ci saranno semplici conferenze e degustazioni, poi man mano dibattiti sui temi dell’agricoltura, dell’alimentazione, della produzione e del consumo critici. Per Luigi questi erano i “problemi della terra”.
Il cosiddetto movimento dei movimenti alterglobalista sviluppa tematiche affini a quelle veronelliane ed è dal confronto dei primi anni del 2000 che nasce il progetto t/Terra e libertà/critical wine (t/Tl/cw). Alcuni compagni di Brescia, Verona e Milano, che hanno seguito le sue provocazioni gli propongono l’iniziativa e gli chiedono il suo apporto e sostegno (e favoriscono la sua collaborazione alla rivista Carta, con la rubrica “Le parole della terra”, scritta in dialogo con Pablo Echaurren).
L’anarchenologo – così lo avevamo nominato – è felice di poter mettere in pratica le sue idee, di confrontarsi con un pubblico interessato. Furono anni dialettici di confronto e crescita reciproca. Noi arricchiti dalla sua prospettiva nuova e trasversale, Luigi arricchito da una lettura politica globale che valorizzava le sue intuizioni. “La terra, la terra, la terra… all’infinito la terra”, è uno dei suoi slogan più famosi di quegli anni.
Il vino frutto della terra e del lavoro dell’uomo, compagno dialettico che ci riporta alla terra, ci invita alla comunanza, è intercessore privilegiato uomo/terra. t/Tl/cw partì dal vino (subimmo la derisione di compagni moralisti e miopi) per compiere un percorso a ritroso che ci portò a discutere di prodotti dei campi, di tutela della biodiversità, di multinazionali e ogm, di omologazione del gusto, di un’agricoltura in armonia con l’ambiente e di un’agricoltura industriale che divora l’ambiente, della qualità dei cibi e della qualità dei rapporti personali che li presuppongono, della tracciabilità dei prodotti e dei prezzi… L’esperienza t/Tl/cw durò organicamente fino al 2005, continua ancora in varie città e con altri nomi, grazie ai gruppi antagonisti e al lavoro sedimentato con centinaia di eventi in almeno una trentina di città italiane con mercati autogestiti, concerti e convegni… e la pubblicazione del libro edito da DeriveApprodi (gli eventi che ebbero più risalto furono quelli al Csoa la Chimica di Verona – in contemporanea al Vinitaly, al Leoncavallo di Milano, al Forte Prenestino di Roma).

Luigi Veronelli

La terra e i vini

Ma veniamo a quello che secondo me è il nocciolo duro del pensiero politico veronelliano, alla sua intuizione più geniale. È una intuizione intrinsecamente anarchica, epistemologicamente anarchica direi, e quindi anche politicamente. Grazie alla passione per i vini e le culture e colture che li presupponevano, Luigi notò l’estrema diversificazione dei prodotti della terra. “La terra dà vini e prodotti diversi metro via metro anche partendo da una stessa varietà di seme, di cultivar”. Di conseguenza tutti i prodotti della terra, ossia il frutto dell’interrelazione tra peculiarità territoriali e varietali, devono essere valorizzati permettendo al consumatore di conoscerne l’origine e la trasformazione, quindi la massima tracciabilità. In questa maniera difenderemo la biodiversità e metteremo un bastone tra gli ingranaggi delle multinazionali e della grande distribuzione, che altro non vogliono che l’attuazione del principio dell’”ultima trasformazione sostanziale” (cioè la conoscenza solo del luogo dell’impacchettamento), che significa la cancellazione dell’origine e quindi di ogni possibilità di controllo da parte del consumatore. Proprio per questo, se può essere criticabile ogni industria – sosteneva l’anarchenologo – quella agroalimentare è una vera e propria aberrazione da abolire, una contraddizione in termini.
Da questa intuizione, per contrastare l’industria e la volontà omologatrice e per valorizzare le specificità di tutti i prodotti della terra, Veronelli propose e si batté con forza per le denominazioni comunali di origine (de.co.), polemizzando con politici di ogni risma contrari a una vera decentralizzazione, ma anche con molti compagni anarchici e dell’area dei centri sociali, contrari alla collaborazione istituzionale. Ma cosa sono le de.co.? Sentiamolo dalle sue parole.

“Attraverso le de.co. – il sindaco certifica la provenienza d’ogni prodotto della sua terra – voglio contrastare il tentativo della UE e delle multinazionali di annullare i giacimenti gastronomici a favore dei prodotti industriali. Consentire ai comuni la facoltà di disciplinare la valorizzazione delle proprie risorse nel campo dei prodotti dell’agricoltura e dei suoi trasformati. Restituire agli abitanti le ricchezze del territorio. Il sindaco di ogni comune assumerebbe con la de.co. la responsabilità di dichiarare la reale provenienza delle materie prime e delle materie trasformate. Sostengo sia necessario irrigidire il concetto di denominazione d’origine rivendicando la condizione necessaria dell’”interamente ottenuto”. La tracciabilità (origine e trasformazione) di un prodotto è importantissima. Sole le grandi industrie e la grande distribuzione hanno interesse a far passare il principio dell’”ultima trasformazione sostanziale”, principio perverso per il quale un prodotto può avere la denominazione del territorio dove avviene il confezionamento. Questo implica lo sfruttamento di coloro che – sia in Italia sia nei paesi dove il costo della manodopera è bassissimo (come nel Sud del mondo o nei paesi dell’Est) – coltivano la terra a vantaggio di chi gestisce il commercio e la trasformazione.”
Questa posizione – radicale a suo modo – è molto diversa da quella che si sta imponendo oggi, dove c’è spazio per un consumo di prodotti gastronomici di qualità solo per un’élite, quando invece per la maggioranza delle persone sono frubili solo i prodotti agroindustriali.
Cosa direbbe oggi Veronelli delle proposte di Zaia, il ministro nazileghista dell’agricoltura, che in apparenza vanno nella direzione da lui indicata? Luigi sosterrebbe che il territorio è di chi lo abita e lo vive, anche se è arrivato da lontano. Luigi non ha mai messo l’accento sulla tradizionalità e la tipicità dei prodotti, aveva cognizione della mutazione storica, gli interessava la genuinità, la tracciabilità, la qualità. Quindi ben venga – penso avrebbe detto – il couscous piemontese o il tajin veneto, perché come scriveva il suo grande amico Gianni Brera all’inizio di “La pacciada”: non si ha genio senza ibridazione.

Niente miti solo mete

Ho avuto la fortuna di lavorare accanto a Luigi per nove anni. Sono entrato in contatto con lui per comuni interessi letterari e politici, di vini e cibi non sapevo nulla. Ho assaggiato assieme a lui una media di dieci vini ogni giorno, ma in quelle ore di ozio/lavoro dionisiaco ho soprattutto chiacchierato di libri e di idee. Negli ultimi anni della sua vita abbiamo scritto molto assieme, soprattutto a riguardo delle questioni più politiche legate all’agricoltura: de.co, problematica dell’olio d’oliva, progetto t/Tl/cw… Questi e tutti gli altri ricordi possono essere confermati dalle sue collaboratrici e da un altro amico di Luigi, Andrea Bonini (un giovane che ha stoffa culturale e preparazione enoica per essere un ottimo continuatore e innovatore delle intuizioni veronelliane). Dico questo perché – negli anniversari che verranno – mi aspetto da parte degli eredi familiari una rimozione dei progetti politici e delle collaborazioni scomode di Luigi.
“Niente miti, solo mete” potrebbe essere lo slogan del mio ricordo dialettico di Veronelli politico. Non si smette mai di conoscere una persona, tanto più se possiede una personalità ricca, vitale e complessa – ed è quindi naturale che il mio sia un ricordo parziale. “Mi contraddico perché contengo vastità, moltitudini”. È una citazione da Withman che penso si addica a Luigi. Penso che contenere vastità e moltitudini sia il contrario dell’ambiguità, è invece ricchezza libertaria.

Marc Tibaldi

* Il 24 di settembre, i compagni emiliani della Cellula Veronelli (www.cellulaveronelli.it) hanno organizzato l’incontro “Veronelli politico”, a cui hanno partecipato Gianni Mura, giornalista di La Repubblica, Andrea Ferrari della FAI di Reggio Emilia (promotori dell’evento annuale “Le cucine del popolo”) e Marc Tibaldi, che ha seguito il progetto t/Tl/CW e autore di “Metix Babel Felix. Meticciamento, passing, divenire, conflitto”.

Punti programmatici,
proposte concrete, sensibilità planetaria,
agricoltura contadina, rivoluzione dei consumi

Questo programma è stato elaborato principalmente da Luigi, Pino Tripodi, Maurizio Murari, Marc Tibaldi; hanno contribuito anche molti/e compagni/e che parteciparono al progetto t/Tl/cw.
Questi punti possono essere la base di futuri eventi legati ai temi della t/Terra.

  • Autocertificazione, prezzo sorgente, denominazioni comunali (de.co.): provocazioni, idee efficaci, applicabili e universali, in grado nel futuro presente di trasformare i rapporti di produzione, e/o di renderne visibili le contraddizioni. L’idea della massima tracciabilità dei prodotti e dei prezzi, della qualità dei prodotti e delle relazioni sociali risponde a queste idee.
  • L’autocertificazione e la de.co. (proposta veronelliana) altro non sono che la possibilità di conoscere l’origine e la tracciabilità dei prodotti. L’autocertificazione è basata sul principio di responsabilità: il produttore dichiara qual è il suo prodotto, come viene coltivato, quanti gli ettari, quanta la produzione, quali i concimi e prodotti utilizzati, chi e come lavora la terra...e permetterà al consumatore di verificare tutto ciò. La de.co. è l’autocertificazione collettiva, una certificato di nascita dei prodotti. Per chi ci crede, la dichiarazione verrà dall’amministrazione comunale. Meglio ancora, per chi soffre anche il municipalismo sperimentale, sarà la comunità che conferma la dichiarazione del singolo produttore. Oltre ad essere una garanzia per il consumatore, autocertificazione e de.co. sono una maniera per valorizzare la diversità e la diversificazione dei prodotti, mettendo così in difficoltà multinazionali e grande distribuzione. Il prezzo sorgente consentirebbe di mutare completamente filosofia nel rapporto tra consumatori e produttori, al fine di costituire un percorso di fiducia in tutta la filiera produttiva, distributiva e commerciale. Il prezzo sorgente prevede che ogni produttore inserisca in etichetta il prezzo a cui vende i suoi prodotti prima del loro ingresso nel circuito di distribuzione e di commercializzazione. Il prezzo sorgente non prevede alcun margine fisso di ricarico. Il ricarico, infatti, dipende da tantissime condizioni (costi di trasporto, manutenzione, affitti, manodopera, servizio) che non sono omogenee e non si intende predeterminare. Il prezzo sorgente è uno strumento efficace per mettere in rilievo i rapporti di appropriazione e di distribuzione della ricchezza. Un’informazione semplice e visibile che espliciti ciò che tutti sanno e cioè che nell’attuale modalità di relazioni sociali i produttori e i consumatori sono comunemente immiseriti da uno sfrenato concentrarsi della ricchezza nelle mani della distribuzione.
  • Concepire che l’insensatezza planetaria deriva dai rapporti di produzione, ovvero dalle modalità con le quali gli uomini producono e si relazionano tra di loro. Rifiuto di produrre e di consumare l’infelicità del mondo è uno degli atti della sensibilità planetaria.
  • Organizzare il rifiuto del modello neoliberista che vuole l’agricoltura industriale e monocolturale delle multinazionali e della UE da una parte e un’elitaria produzione dei cosiddetti prodotti tipici dall’altra, quali facce della stessa medaglia.
  • Pensare a un nuovo rapporto con la terra/Terra che lasci spazio a produzioni, consumi, piaceri più sobriamente felici.
  • Il consumo critico, contro il consumo produttivo. Per “condomini“ della qualità e gruppi d’acquisto autogestiti e a rete. Fare mercato come incontro di coproduzione.
  • Catalogo dei produttori, basato su rintracciabilità, origine, qualità e sul principio della responsabilità e dell’autocertificazione.
  • Costruire in maniera cooperativa forme e strumenti di comunanza, condurre al riconoscimento della cosa comune, dall’aria all’acqua al cibo fino alla produzione informatizzata e alle reti, rifiutando ogni localismo politico e identitario. Il locale che si contrappone al globale non è nient’altro che il suo gemello stupido, rancoroso e noioso. Il localismo identitario è nemico della sensibilità planetaria, la globalizzazione la distrugge.

 

Luigi Veronelli.
La cognizione del gusto

Cinquant’anni di battaglie, intuizioni, stimoli, idee a favore della cultura enogastronomica e dell’agricoltura contadina, nume tutelare del vino e della cucina italiana, questo è stato Luigi Veronelli. Se oggi i vini, la cucina e i giacimenti gastronomici stanno avendo uno straordinario successo nel mondo, buona parte del merito è di quest’uomo che, con perseveranza, determinazione, rigore e cultura ha saputo individuare e indicare giuste linee di progresso e, con pregnante tensione etica, fare strada, trainare. La teoria dei cru, il ritorno dell’uso del carato (barrique) per l’elevazione dei grandi vini, la limitazione delle rese per ettaro per favorire la qualità e non la quantità, il recupero dei vitigni autoctoni, la vinificazione in luogo, la classificazione dei vini con puntuali esami organolettici, la teoria della distillazione secondo monovitigno, sono solo alcune delle intuizioni, delle lotte e delle vittorie condotte in cinquant’anni. È stato anche maestro dei migliori wine-writers, italiani e non. Ha inventato un linguaggio, un lessico, ormai entrati nell’uso corrente. “Bocca piena e calda”, “vino da meditazione”, “vino da favola”, “di zerga beva”, “rossi dialettici”, “prime-wine”.
È stato amico di Luigi Carnacina (con cui ha redatto testi importanti come La grande cucina, Mangiare e bere all’italiana, La cucina rustica regionale), di Gianni Brera (con cui è autore di La Pacciada. Mangiareebere in pianura padana), di Giangiacomo Feltrinelli (a cui fece pubblicare Mangiare da Re di Nino Bergese ed il suo Alla ricerca dei Cibi Perduti, ripubblicato da DeriveApprodi), dell’architetto-designer Silvio Coppola, di Mario Soldati. Condannato a sei mesi di carcere per istigazione alla rivolta dei vignaioli piemontesi (oppressi da burocrazia e contrastati dai grandi monopoli) e a tre per la pubblicazione di De Sade. Negli anni Sessanta e Settanta è autore di trasmissioni televisive intelligenti, ricordiamo, per esempio, A tavola alle sette, con Ave Ninchi, sulla cultura dei vini e dei cibi.
Altri suoi libri: Viaggio in Italia per le Città del Vino; Vietato Vietare; Breviario Libertino; Le parole della terra (assieme a Pablo Echaurren). Per le edizioni DeriveApprodi scrisse la prefazione a tre libri dallo spirito libertino di autore anonimo La cucina impudica; La cuoca rossa; La cuoca di Buenaventura Durruti, e per Eleuthera, quella a La cucina della filibusta.
Del sentire. Il desiderio del sentire, del percepire, dell’osservare. È questo uno dei caratteri principali nell’ultime opere di Italo Calvino, in particolare i racconti Un re in ascolto e Il nome, il naso parlano dei cinque sensi, per dimostrare che l’uomo contemporaneo ne ha perso l’uso. Era un re anarchico in ascolto Luigi Veronelli, Sua Nasità, lo definì Gianni Mura, Gastrosofo lo avrebbe chiamato Fourier, era un Borges che si aggira in una biblioteca di Babele dove i libri si trasformano in bottiglie e viceversa, era un “magicien de la terre” quando con gestualità ieratica portava il calice agli occhi, poi al naso ed infine alla comunione del palato, quando si fermava silenzioso per ascoltarne il racconto, per inventarne la favola. Nella scrittura comunicherà l’emozione attraverso la fabulazione, in uno stile letterario che nel giornalismo ha avuto pari solo in Gianni Brera e – oggi – in Gianni Mura. (m.t.)